ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

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LUIGI EINAUDI

Chi vuole la bomba atomica? *

Alla domanda: «Sei contro l’uso della bomba atomica?» non c’è uomo al mondo che non risponda: Sì! Le incertezze ed i dissidi sorgono quando si continua domandando: «Quale mezzo efficace proponi contro quell’uso?» Il mero divieto accettato e sottoscritto da tutti gli Stati sovrani in una solenne convenzione internazionale sarebbe quel mezzo? Suppongo che tutti si sia d’accordo nel ritenere che un patto internazionale, il quale puramente e semplicemente facesse divieto agli Stati contraenti di ricorrere all’uso della bomba atomica, sarebbe uno dei tanti pezzi di carta destinati, quando sorgesse la necessità di applicarli, a finire nel cestino della carta straccia. Un rinnovato patto Kellogg il quale mettesse al bando dell’umanità gli Stati e gli uomini rei di fabbricare e di usare la bomba atomica sarebbe senza esitanza sottoscritto da tutti gli Stati; ma non scemerebbe affatto la inquietudine da cui i popoli sono pervasi al solo pensiero che, nonostante il divieto, la fabbricazione del micidiale congegno continui, ed anzi crescerebbe il sospetto che taluno Stato malintenzionato, fiducioso nella buona fede altrui, si prepari ad assaltare inopinatamente l’avversario. Non si distinguono cioè i fautori dagli avversari dell’uso della bomba atomica per ciò solo che gli uni si rifiutino e gli altri accettino di sottoscrivere una convenzione di messa al bando dell’arma atomica. Chi abbia per avventura sottoscritto un manifesto contro l’uso della bomba atomica non ha alcuna ragione di tacciare colui che abbia rifiutato di sottoscrivere quel manifesto come nemico dell’umanità e propugnatore nefando dell’uso di questa micidialissima tra le armi. Potrebbe essere vero l’opposto: che cioè il sottoscrittore dei manifesti di bando sia, consapevolmente o no, appunto colui il quale, negando i mezzi per far osservare il divieto, di fatto è il più efficace banditore dell’uso della bomba. In questa materia, come in tante altre politiche e sociali, quel che non si vede è assai più importante di quel che si vede. Non basta scrivere sui giornali e gridare sulle piazze il proprio abominio contro la bomba atomica. Scritture e discorsi non servono a nulla, finché non si siano chiaramente indicati i mezzi sufficienti a fare osservare il divieto.
Vi è un criterio in base al quale soltanto si può giudicare se alle parole corrispondano intenzioni serie, propositi decisi veramente ad allontanare dall’umanità il grande flagello. Il dilemma è: si vuole che il divieto agisca entro l’ambito della piena sovranità degli Stati rinunciatari (all’uso della bomba atomica) ovvero si riconosce che il divieto presuppone una rinuncia alla sovranità medesima? Questa è la cote alla quale fa d’uopo saggiare la serietà e la sincerità dei propositi di coloro i quali affermano di essere contrari all’uso della bomba atomica.
Se si parte dalla premessa di conservare la sovranità piena degli Stati firmatari è inutile procedere oltre. Quel patto sarebbe ipocrita e servirebbe soltanto ad alimentare sospetti e ad accelerare il fatale cammino verso la distruzione della civiltà umana. Inutile far seguire al bando la promessa di ogni singolo Stato di non fabbricare l’arma vietata: vanissima la cerimonia della distruzione delle bombe esistenti; arcivana la obbligazione sottoscritta di lasciar ispezionare le proprie fabbriche da commissioni di periti internazionali incaricati di andar cercando sospette fabbricazioni di prodotti atti ad essere poi insieme combinati per ottenere la deprecata arma. Pattuizioni, promesse, obbligazioni cosiffatte furono già sperimentate dopo la prima grande guerra contro la Germania vinta, e non impedirono che dieci anni fa la Germania si presentasse al mondo formidabilmente armata, anzi armatissima, in mezzo a nazioni disarmate. Quale speranza v’ha di impedire ricerche, sperimenti, successi e fabbricazioni nei territori, talvolta vastissimi, spesso inaccessibili di taluni dei grandi Stati moderni? Quale probabilità avrebbero quei disgraziati investigatori di avere effettivo accesso agli stabilimenti produttori contro le mille arti con le quali uno Stato sovrano può impedire che lo straniero sul serio indaghi, verifichi, si accorga in tempo del pericolo e lo denunci? Farebbe d’uopo immaginare che lo Stato sovrano effettivamente rinunci, per convinzione unanime dei suoi cittadini, all’idea di servirsi di quell’arma; ma subito si vede trattarsi di una farneticazione irreale. Si può forse evitare che non sia universalmente riconosciuta ed affermata la necessità di proseguire e perfezionare gli studi sull’atomo a scopi scientifici ed industriali? Troppo promettenti sono le indagini e le scoperte in tal campo, perché dappertutto non si cerchi di non rimanere ultimi nella stupenda gara. Ma la gara volta al beneficio degli uomini è fatalmente congiunta con quella volta al loro sterminio. Come sarebbe possibile ai futuri ispettori dell’O.N.U. o di altro consimile consesso di accertare, arrivando improvvisi sul luogo del meditato delitto, se un processo, se un impianto volto a fin di bene, non sia usato nascostamente a scopi bellici? Farebbe d’uopo che gli ispettori fossero essi stessi fabbricanti di bombe atomiche; appartenessero cioè ad organizzazioni segretamente mantenute da Stati malfattori ed intese a produrre bombe distruttive invece di energie benefiche. Soltanto coloro che fabbricano il prodotto proibito ne conoscono i segreti di fabbricazione; laddove gli ispettori internazionali conoscerebbero solo i processi leciti, quelli che conducono ad ottenere prodotti vantaggiosi all’avanzamento industriale. Vi ha qualche minima probabilità che lo Stato contravventore impresti i propri tecnici periti nelle fabbricazioni proibite al corpo di ispettori internazionali incaricati di reprimere l’illecito?
Giuocoforza è riconoscere che, finché si rimanga nei confini del concetto degli Stati sovrani, la proibizione dell’arma atomica è pura utopia. Poiché ogni Stato sovrano ha il diritto, ha il dovere di vivere e di difendersi: proibizioni ed ispezioni servirebbero solo a tessere reciproci inganni, ad accelerare ricerche, a moltiplicare esperimenti, allo scopo di essere i primi a possedere le bombe sufficienti per prendere alla sprovveduta il nemico.
Il problema si supera se non con la rinuncia alla sovranità militare da parte dei singoli Stati. Vi è forse qualcuno dei venticinque cantoni e mezzi cantoni svizzeri o dei quarantotto Stati nord﷓americani il quale abbia la menoma preoccupazione per l’uso eventuale della bomba atomica da parte di uno dei confederati? No; perché nessuno dei cantoni svizzeri o degli Stati nord﷓americani ha una qualsiasi potestà militare, la quale spetta unicamente alla confederazione. Le armi, siano palesi o segrete, sono studiate perfezionate fabbricate conservate dall’unico governo federale; ed i cantoni e gli Stati, priv’idi organizzazione militare propria, non hanno la possibilità di meditare ed attuare disegni contro altri cantoni o Stati facenti parte del medesimo corpo sovrano.
Su questa via sta l’unica speranza di salvezza. E una via lunga; ma occorre cominciare a percorrerla, se non si vuol perdere tempo in diatribe inutili od in camuffamenti ipocriti di propositi malevoli. Non giova delegare ad ispettori internazionali compiti assurdi; importa che gli ispettori siano anche i soli produttori. La prima esigenza è quella del trasferimento ad un corpo internazionale, ad un vero super﷓Stato, sia pure per il momento limitato nei suoi scopi, del possesso di tutte le materie prime, di tutti i giacimenti di minerali atti alla produzione della bomba atomica. Nessuna fabbrica dovrebbe esistere fuori di quelle appartenenti all’ente internazionale atomico, il quale dovrebbe trarre il suo personale da tutti gli Stati aderenti in condizioni di parità. Ma gli uomini appartenenti al corpo non sarebbero più funzionari americani o russi o inglesi od italiani o francesi ecc.; sarebbero funzionari dell’ente e legati da vincoli di fedeltà ad esso solo. Costoro, essendo parte di un ente produttore della bomba atomica e necessariamente periti nella conoscenza del punto nel quale la fabbricazione cessa di essere industriale e lecita e diventa bellica (sembra che un siffatto momento o punto esista e sia accertabile), non sarebbero dei meri ispettori spesso incapaci a penetrare nei segreti altrui; ma autori e partecipanti dei nuovissimi procedimenti tecnici, dei segreti più impensati e sarebbero in grado, in quanto ciò si possa sperare, di comprendere se in uno degli Stati consociati si proceda oltre il punto lecito, sì da poter denunciare alla società degli Stati firmatari il pericolo e dar tempo ad essa di reprimerlo. E poiché tra il momento in cui nella fabbricazione si valica il punto lecito e quello in cui la maledetta bomba atomica è perfetta pare intercorra oggi un tempo abbastanza lungo, gli Stati innocenti, avvertiti della minaccia proveniente dallo Stato malvagio, avrebbero il tempo di accingersi essi stessi alla produzione di bombe adatte alla controffesa.
Chi darà la forza al corpo internazionale monopolista dei giacimenti di materie atte a fabbricare bombe atomiche? monopolista della utilizzazione a scopi industriali di quella materia, od almeno controllore di quella utilizzazione? Chi vieterà ai singoli Stati sovrani di impadronirsi delle fabbriche atomiche esistenti sul loro territorio e di nascondere l’esistenza di giacimenti atti a produrre le necessarie materie prime?
Ardue domande; che occorre candidamente porci se vogliamo risolvere il problema della pace. Per ora ho cercato solo di dimostrare che un patto internazionale di bando della bomba atomica è proposito vano e probabilmente ipocrita; che altrettanto vano sarebbe un patto che, conservando la sovranità militare dei singoli Stati, facesse ingenuo affidamento su un corpo di ispettori internazionali; e che condizione necessaria per la repressione dell’uso della bomba atomica è il trasferimento della proprietà e dell’impiego di tutto ciò che serve alla sua produzione ad un ente internazionale superiore ai singoli Stati.
Ma è condizione possibile ed è essa sufficiente?

*«Corriere della Sera», 29 marzo 1948.

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