ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

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Saggi per la scuola

ANTONIO GARGANO: KANT - LE TRE CRITICHE

Critica della ragion pRATICa 

Abbiamo iniziato a parlare di Kant definendolo un Giano bifronte, rivolto da una parte al Settecento, dall’altra all’Ottocento, da una parte al pensiero illuministico, di cui segna il culmine, dall’altra  a una cultura diversa, che sarà la cultura romantica. Abbiamo sostenuto: Kant è una figura complessa perché appunto si colloca a cavallo di due secoli, di due culture. A proposito della Critica della ragion pura abbiamo detto che è un’opera di stampo fortemente illuministico, in quanto in essa la ragione non riconosce alcun tribunale più elevato di se stessa, e si mette a giudicare le proprie capacità conoscitive, implicitamente sottolineando che al di sopra di sé, al di sopra della ragione, non c’è nessun’altra autorità. In questo senso, Kant rappresenta il culmine dell’Illuminismo, ma mentre l’Illuminismo si è tenuto fermo a una conoscenza del mondo finito e ha escluso ogni discorso metafisico, Kant, con le tre idee della ragione, manifesta l’esigenza di riappropriarsi di un discorso sull’assoluto, sull’infinito, su Dio, sul destino dell’uomo, avverte quindi l’esigenza di una metafisica, anche se nega la metafisica dal punto di vista conoscitivo. La Critica della ragion pura, che è un bilancio delle facoltà conoscitive umane, giunge all’affermazione che la matematica e la fisica sono scienze in quanto fondate sulle forme a priori, la metafisica, invece, non è una scienza: i tre enti oggetto della metafisica, Dio, anima e mondo, non sono oggetto di intuizione sensibile, di conseguenza su di essi non possono lavorare le categorie e pertanto di essi non si può avere conoscenza. Kant nega la metafisica nel senso tradizionale come tentativo di conoscenza di Dio, anima e mondo, ma ne avverte l’esigenza. Questa esigenza viene da lui ripresa, da tutt’altra angolazione, nella Critica della ragion pratica, che ci conferma pertanto l’impressione di una ambivalenza di Kant: l’appartenenza all’Illuminismo e l’andare oltre.
L’appartenenza all’Illuminismo la noteremo subito anche nella Critica della ragion pratica , che si fonda su una estrema fiducia nella ragione umana. Kant non pensa di doversi affaticare a dimostrare l’esistenza della ragione nel campo pratico: egli semplicemente afferma che la ragione è di per se stessa anche pratica. La ragione fa sentire la sua voce anche nella sfera dell’azione. Non c’è bisogno di chiedersi il perché: la presenza della ragion pratica va constatata semplicemente come un fatto. La ragione si fa sentire sotto forma di imperativo, quello che il linguaggio comune chiama “voce della coscienza”. Ecco, potremmo dire nel linguaggio corrente: per Kant in ogni uomo c’è la voce della coscienza. Questo fatto non va dimostrato. Kant ne parla come del “fatto” della ragione: qualcosa che dev’essere semplicemente riconosciuto. La presenza della ragione nell’uomo, dal punto di vista pratico, si avverte sotto la forma di imperativi, cioè di comandi che richiedono obbedienza. Su questi imperativi ci soffermeremo. Voglio però far presente subito, ai fini di un inquadramento generale di tutto il discorso, che anche nella sfera pratica la ragione si fa sentire dal punto di vista puramente formale. Nella Critica della ragion pura troviamo esclusivamente un’analisi delle forme trascendentali a priori della ragione: anche qui la ragione non ci dà contenuti. Nella Critica della ragion pura, nella sfera della conoscenza, la ragione ci dà semplicemente la forma: lo spazio, il tempo, le categorie. Il problema dei contenuti non riguarda la filosofia, che si occupa soltanto delle forme. La ragione ci fornisce le forme; i contenuti vengono dall’esterno, se vogliamo, vengono dalla cosa in sé. Nella morale è la stessa cosa: la ragione fa sentire la sua voce, abbiamo detto, ma si fa sentire indicando semplicemente la forma in cui bisogna volere le azioni, mentre i contenuti dell’azione morale sono estremamente vari, sono infiniti, sono offerti dalle più diverse circostanze. Possiamo quindi dire che un elemento di continuità tra la prima e la seconda Critica è questo: in tutt’e due i casi è al centro la ragione puramente formale, nel primo caso essa ci dà la forma del conoscere, ma i contenuti della conoscenza vengono dall’esterno; nel secondo caso ci indica la forma del volere, ma i contenuti del volere, i contenuti dell’azione dipendono dalle circostanze esterne. Stabilito che la ragione può dare soltanto la forma delle azioni morali, da che cosa essa è caratterizzata? La ragione ha una caratteristica fondamentale che le è connaturata: l’universalità. La ragione è la facoltà identica in ogni uomo. Questo ci porterà a considerare l’estremo rigore della morale kantiana, coerente con la sua impostazione fortemente illuministica.
Gli illuministi sono stati i padri teorici della Rivoluzione francese, che aveva tra le sue parole d’ordine appunto l’uguaglianza. L’uguaglianza scaturisce dalla centralità della ragione. Mentre il sentimento, le passioni, i gusti, sono variabili da individuo a individuo, la ragione è la facoltà presente in maniera identica in ogni individuo. Dalla centralità della ragione scaturisce immediatamente l’universalità, come scaturisce l’uguaglianza. La morale kantiana, quindi, essendo fondata sulla ragione, è una morale che si batte contro quelle che Kant chiama, con termine molto significativo, inclinazioni. I sentimenti, i gusti, le passioni, i desideri sono per Kant inclinazioni. Per questo pensatore, che era molto rigoroso anche nella sua vita privata, bisogna evitare le inclinazioni, che tendono a far deviare dal retto cammino. La ragione, quindi, implicherà una lotta con le inclinazioni, ma implicherà anche l’universalità. Si delinea un’altra analogia con la Critica della ragion pura: ancora una volta Kant recupera l’universalità all’interno della soggettività; in ogni soggetto umano c’è la ragione, e ispirandosi alla ragione l’uomo può trovare la via del corretto comportamento, del comportamento virtuoso, ma ogni altro uomo che si trovi nelle sue condizioni dovrà seguire il suo esempio, se si vorrà comportare in maniera buona, in maniera virtuosa.
Iniziamo a scorgere le caratteristiche della morale kantiana: essa è fondata sulla ragione e per questo  è una morale formale: la ragione ci indica la forma, ma non il contenuto delle azioni morali; essendo fondata esclusivamente sulla ragione, sarà una morale rigoristica, che escluderà le inclinazioni, le passioni, i sentimenti, i desideri, gli istinti dell’uomo; essendo fondata sulla ragione presenta ancora un’altra caratteristica forte, di tipo illuministico: è una morale universale, come universale è la ragione. Tutto questo fa dell’etica kantiana uno dei punti più alti di tutta la tradizione filosofica. Prima di Kant e dopo di Kant troviamo morali di ispirazione diversa, fondate sul cuore, fondate sui sentimenti, e quindi tendenzialmente soggettive, e questa è anche una tendenza prevalente oggi, quando spesso si sostiene che ognuno si deve comportare a proprio arbitrio. Per Kant, invece, il comportamento deve essere ispirato alla propria interiorità, ma non alla propria soggettività in generale: l’uomo è un essere composito, e deve farsi guidare da quella parte della propria interiorità che è la ragione, la quale è in contrasto con le altre tendenze. Un’ulteriore caratteristica della morale kantiana, che scaturisce anch’essa dalla centralità della ragione, è l’autonomia: ritroviamo la ragione in noi stessi, di conseguenza la morale kantiana è una morale della libertà, è una morale autonoma. Obbedendo alla voce della ragione, obbedisco a una voce che trovo all’interno di me stesso, e quindi sono autonomo (dal greco autós, se stesso, e nómos, legge: mi do la legge da me stesso, non ritrovo la legge all’esterno, non sono dipendente da costrizioni esterne, di conseguenza sono libero, in quanto la libertà consiste appunto nell’assenza di costrizioni esterne).
Avrete notato come, partiti dalla ragione, abbiamo parlato di uguaglianza, di universalità, ora di libertà: emergono due delle tre parole d’ordine della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, fratellanza. Kant si delinea come un pensatore attento alla Rivoluzione francese. Era metodico, faceva sempre la stessa passeggiata per le strade di Königsberg, tanto che si dice che i suoi concittadini regolassero gli orologi sui passaggi del filosofo, il quale una sola volta deviò dal percorso che seguiva ogni giorno, quando, in attesa di un dispaccio sullo sviluppo degli eventi della Rivoluzione, si inoltrò su una strada di campagna per andare incontro al corriere che portava le notizie. Fu l’unica volta che abbandonò il suo percorso abituale. È significativo che Kant abbia aderito agli ideali della Rivoluzione francese. Questo aspetto è stato oggetto di una ricerca approfondita dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici: Kant è stato costretto ad autocensurarsi per non incorrere nei rigori della censura prussiana, ma è stato un deciso sostenitore della Rivoluzione francese. Le parole d’ordine della Rivoluzione francese, libertà, uguaglianza e fratellanza, sono tutt’e tre presenti nella sua etica. La libertà, per l’autonomia della morale ispirata alla ragione propria di ogni uomo; l’uguaglianza, perché la ragione che ispira il comportamento è una facoltà universale; la fratellanza, che troviamo nella seconda formula dell’imperativo categorico, in cui Kant afferma che bisogna trattare gli altri e se stessi sempre come fini e mai come mezzi, quindi bisogna trattare tutti gli altri alla stessa stregua di noi stessi, come noi stessi, come fratelli.
Fatta questa premessa sulle caratteristiche principali della morale kantiana, vorrei proporre i brani che ho tratto dalla Critica della ragion pratica e da La metafisica dei costumi, cioè dalle due principali opere morali di Kant. Mi sembra utile iniziare proprio con la forte sottolineatura dell’esistenza del comando razionale. Dice Kant: «Anche se non vi fossero mai state azioni derivate da questa pura sorgente, non si tratta per noi di sapere se è avvenuto questo o quello, ma di sapere che la ragione comanda per sé, ed indipendentemente da tutti i fatti, ciò che deve avvenire; che quindi azioni, delle quali il mondo non ha forse mai ancora offerto il minimo esempio fino ad oggi e la cui stessa possibilità potrebbe essere messa in dubbio da chi tutto fonda sull’esperienza, sono tuttavia comandate inesorabilmente dalla ragione». Questa affermazione è molto importante: qui Kant prende le distanze da ogni empirismo nell’etica. Nell’etica non conta l’essere, cioè i fatti, bensí il dover essere, e questo è dettato dalla ragione. I fatti possono anche andare contro la ragione e quindi contro la morale, ma non tolgono niente alla validità degli imperativi morali. Siamo in una sfera completamente diversa da quella del concreto esistente: l’empiria, la conoscenza sensibile, l’accumulo di fatti. Può anche darsi che nessun uomo sia mai stato leale in tutta la storia dell’umanità, e quindi che non si possa qualificare neppure un individuo come leale, ma la lealtà è sicuramente un altissimo valore morale; anche se i fatti negassero che sia mai esistito un sol uomo leale, la lealtà varrebbe ugualmente di per sé. Questo appunto afferma Kant nella prosecuzione del brano: «Per esempio la pura lealtà nell’amicizia non è meno obbligatoria per ciascuno, anche se non vi fosse mai stato un amico leale sino al presente, perché questo dovere è implicito, come tale, anteriormente ad ogni esperienza nell’idea d’una ragione che determina la volontà secondo principii a priori. La rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto esso costringe la volontà, si chiama un comando (della ragione), e la formula del comando si chiama imperativo». Notate che il linguaggio è asciutto, direi drastico, quello che interessa a Kant è di fondare una morale ancorata nel soggetto, ma insieme oggettiva e quindi universale. Devo agire ispirandomi alla mia ragione, ma essa è uguale alla ragione di tutti gli altri, pertanto, se veramente starò seguendo la ragione, starò identificando un principio oggettivo universale, cioè un principio che tutti devono riconoscere, che tutti gli altri devono seguire. Nella mia interiorità, nella mia soggettività (soggettività sotto forma di ragione), trovo l’universale, come abbiamo già detto a proposito della conoscenza. «Tutti gli imperativi sono espressi con la parola dovere, ed indicano con questo la relazione tra una legge oggettiva della ragione e una volontà che, secondo la sua costituzione soggettiva, non è necessariamente determinata da questa legge». In queste due righe è racchiusa tutta la drammaticità della morale kantiana: la legge del dovere è una legge ogget-tiva, però, «…la volontà, secondo la sua costituzione soggettiva, non è necessariamente determinata da questa legge». C’è una lotta tra la volontà e il dovere, tra la volontà e l’imperativo, tra la volontà e la ragione. La ragione indica inesorabilmente il dovere, qualcosa di universale e di oggettivo, ma non è detto che la volontà si pieghi con scioltezza a seguire l’imperativo della ragione, perché la volontà, che è un’altra facoltà umana, può anche seguire la voce del piacere, la voce del desiderio, la voce della ricerca di felicità, la voce di interessi, di istinti; c’è una continua lotta all’interno dell’uomo, di ogni uomo. L’uomo è un fascio di forze, è complesso. La ragione deve avere la prevalenza, ma ci sono anche altre facoltà che tirano da altre parti, le inclinazioni. Si può pensare al grande modello classico di Platone. Ricorderete che Platone paragona l’anima a una biga alata: c’è l’auriga, la ragione che deve guidare il corso dell’esistenza, ma ci sono anche i cavalli bianco e nero che tirano in altre direzioni. I cavalli del mito platonico simboleggiano passioni e istinti. Kant si rifà al modello platonico: l’uomo non è monolitico, non è tutto di un pezzo, si potrebbe dire, bensí un fascio di forze che vanno in direzioni diverse. La ragione deve prendere il comando di queste forze. Nell’espressione che usa a questo proposito, Kant è estremamente rigido. Questo si spiega con la sua formazione, con la sua nascita prussiana, con la sua estrazione religiosa di stampo protestante radicale (Kant è nato in una famiglia pietista). Il protestantesimo per sua natura è già una confessione religiosa che dà spazio al rigorismo etico. È importante che lo sottolineiamo per capire bene la genesi della posizione di Kant. Per Kant, in quanto protestante, in quanto pietista, l’uomo nasce afflitto dal “male radicale”, dal peccato originale, come aveva predicato Lutero. Questo aspetto dell’etica protestante viene esasperato da Kant: l’uomo ha un male radicale, alla sua radice c’è qualche cosa che lo inquina, tende a farlo deviare, tende a farlo divergere dalla retta strada. Al contrario di Rousseau, Kant propone una concezione pessimistica dell’uomo. Avendo una natura debole, corrotta, l’uomo deve fare un enorme sforzo per imporsi la virtù; ci vuole un grande rigore morale per raddrizzare, come lui dice, questo fuscello che tende a crescere distorto. Egli riprende la dottrina luterana secondo cui l’uomo è macchiato dal peccato originale, e questa macchia gli impedisce di condurre spontaneamente una vita morale. Per essere buono, l’uomo non può seguire la  propria spontaneità, ma deve combattere con se stesso, deve fare uno sforzo su se stesso.
La filosofia romantica e la letteratura romantica tedesca, che rivalutano anche gli aspetti sentimentali e emotivi, criticheranno Kant a questo proposito. Schiller, il grande poeta romantico, ironizza sulla morale kantiana dicendo che essa consiste nel dover fare quello che uno non vorrebbe fare. Che cosa vuol dire con questo Schiller? Che Kant intende la morale in maniera drammatica, come una lotta continua dell’uomo con se stesso. A questa morale cupa Schiller e il Romanticismo contrapporranno la morale dell’“anima bella”. Per Schiller l’uomo deve armo- nizzare le passioni con la ragione e, secondo l’ideale greco, deve essere un tutt’uno armonioso in cui non ci deve essere una parte che prende la guida in maniera drastica soffocando altre parti anche nobili dell’uomo; i sentimenti vanno elevati e vanno fusi con la ragione fino a che, dice Schiller, il comportamento buono, il comportamento virtuoso, diventi qualche cosa di spontaneo. Per i Romantici, per Schiller, l’uomo deve avere una grazia e una dignità spontanee, deve agire bene non perché dominato da una specie di poliziotto interno, di autorità interiore che continuamente lo fustiga e lo spinge, ma deve agire virtuosamente perché perfettamente armonizzato tra sentimento e ragione; l’individuo, educato alla bellezza, agisce bene spontaneamente, segue la virtù senza costrizione; è persona elegante, mite, aperta verso l’altro non perché si deve continuamente forzare ad essere così, ad essere altruista, ma è altruista perché è riuscito ad armonizzare le sue facoltà e si comporta spontaneamente e naturalmente in maniera morale. In Kant invece c’è una concezione fortemente antagonistica, drammatica: l’uomo deve combattere continuamente contro le inclinazioni, la volontà di sua natura tende a recepire anche altri contenuti oltre il bene indicato dalla ragione.
La ragione, dicevamo, si fa sentire sotto forma di imperativi. «Se gli imperativi sono condizionati, se cioè determinano la volontà non semplicemente come volontà, ma soltanto in vista di un effetto desiderato, sono imperativi ipotetici.Gl’imperativi ipotetici rappresentano la necessità pratica di un’azione possibile come mezzo per qualche altra cosa che si vuole (o almeno è possibile si voglia) conseguire». Gli imperativi non hanno tutti lo stesso valore: vi sono gli imperativi ipotetici e l’imperativo categorico. Quello che ci riguarda dal punto di vista morale è l’imperativo categorico; gli imperativi ipotetici non sono imperativi morali, ma solo pratici. Stiamo parlando di un’opera che si chiama Critica della ragion pratica, che tratta di tutto l’agire: solo una parte delle azioni dell’uomo riguardano il bene, e sono le azioni morali poste sotto l’egida dell’imperativo categorico, ma la maggior parte delle azioni sono moralmente neutre e sono soggette agli imperativi ipotetici. Kant distingue gli imperativi ipotetici in due specie: gli imperativi dell’abilità e quelli della prudenza. Gli imperativi dell’abilità sono quelli che implicano di usare un certo strumento per raggiungere uno scopo, gli esempi possono essere tanti e sono banalissimi: se voglio scrivere, devo usare la penna, se voglio andare a Roma, devo prendere un treno. È chiaro che c’è un’ipotesi che subordina l’imperativo “devo usare la penna”, e cioè l’ipotesi che io voglia scrivere. Questi imperativi riguardano soltanto gli strumenti, i mezzi. Gli imperativi puramente tecnici, dell’abilità, gli imperativi ipotetici sono quelli che dominano la vita pratica di oggi. Sono convinto che Kant può essere molto utile per smascherare i limiti del modo di vivere impostoci dalla società dei consumi, in quanto egli considera il piano degli strumenti insignificante e subordinato. Per Kant quello che conta è “il regno dei fini”. Oggi per lo più, anche fra i giovani, non si pone mai il problema del fine e del significato di ciò che si vuole conseguire. Viviamo in una civiltà fondata sulla razionalità strumentale: ci sono formidabili strumenti tecnici per poter raggiungere fini che però non vengono posti in discussione. La nostra è una società in cui viene evitato il discorso razionale sui fini, sul perché bisogna vivere in un certo modo, su quali dovranno essere le finalità dell’esistenza, su quali dovranno essere le finalità dell’umanità in grande. Per Kant invece tutto è orientato verso il fine dell’uomo. Il fine dell’uomo è quello dell’autoperfezionarsi, cioè di migliorare la propria umanità. L’organizzazione del mondo contemporaneo in questo ha sconfitto Kant: gli uomini non si pongono il problema dei fini, e nei loro rapporti reciproci si usano come strumenti, vige una strumentalizzazione continua degli altri, e siamo spinti anche a una strumentalizzazione di noi stessi. Il prossimo non viene visto nella sua dignità di altro essere umano che ha la stessa possibilità di porsi fini che ho io; l’altro è semplicemente uno strumento. In questo senso è stato detto che la vittoria nella società contemporanea non è stata di Kant e della Critica della ragion pratica, ma di un avversario molto sottile di Kant, il marchese de Sade. Il marchese de Sade, da cui viene il termine che indica la patologia psicologica del sadismo, il godere nel fare del male agli altri, non era semplicemente un personaggio cinico, ma anche un pensatore sottile, e in alcune sue opere si è divertito a capovolgere la morale kantiana. Questa è orientata sul fatto che l’uomo deve essere sempre considerato come un fine in sé, l’uomo ha una sua dignità che gli viene dal fatto di essere dotato di ragione: ogni uomo deve essere rispettato come un valore in sé. Invece Sade argomenta il contrario: ogni uomo è uno strumento, ogni uomo ha valore soltanto in quanto mi serve per qualche cosa, se non mi serve a niente lo posso anche sopprimere, o lo posso sopprimere perché mi è utile sopprimerlo, ma in ogni caso l’altro è sempre uno strumento. Nel nostro secolo la Scuola di Francoforte ha rilevato che, per certi aspetti, la vittoria nel mondo contemporaneo non è stata della morale kantiana, ma della morale antagonista a quella di Kant, la morale del marchese de Sade. Nel nazismo, nei grandi fenomeni bellici della nostra epoca, e non solo in questi, i nemici, gli altri, sono semplicemente strumenti, non c’è rispetto dell’altro in quanto altro essere umano: l’altro essere umano è considerato come un oggetto da utilizzare. Molti fenomeni della nostra epoca si potrebbero mettere sotto l’egida di Sade, come ha fatto anche con molta acutezza Pierpaolo Pasolini, il grande scrittore e regista italiano scomparso tragicamente. Viviamo in una civiltà in cui sono seguiti solo gli imperativi ipotetici, cioè gli imperativi che ci indicano gli strumenti per raggiungere un fine, la validità del fine non viene messa in discussione.
Continuiamo a leggere Kant: «Tutte le scienze hanno una parte pratica, che si compone di proposizioni in cui si afferma che qualche fine è possibile per noi, e d’imperativi che indicano come quel fine possa essere conseguito. Questi possono perciò chiamarsi in generale imperativi dell’abilità. Le prescrizioni che segue il medico, per guarire radicalmente il suo malato, e quelle che segue l’avvelenatore per uccidere un uomo con certezza, sono di egual valore in questo senso, che le une e le altre servono ad attuare pienamente il loro scopo». Questo esempio fa capire bene la neutralità morale dell’imperativo ipotetico: il medico cha ha un fine buono, quello di guarire, e un avvelenatore che ha un fine cattivo, quello di uccidere, dal punto di vista dell’imperativo ipotetico sono equivalenti, l’uno e l’altro si porranno il problema di qual è lo strumento più adatto per il loro scopo. L’imperativo ipotetico è neutro dal punto di vista morale.
«Vi è d’altra parte uno scopo, che si può supporre come reale in tutti gli esseri ragionevoli (in quanto si applicano ad essi degli imperativi, in quanto sono cioè esseri dipendenti), uno scopo quindi che non soltanto essi possono proporsi, ma di cui si può con tutta sicurezza supporre che essi se lo propongono tutti effettivamente per una necessità naturale, e questo scopo è la felicità. E si può dare il nome di prudenza nel senso più stretto della parola all’abilità nella scelta dei mezzi per il proprio massimo benessere». Questo è il secondo e ultimo tipo di imperativo ipotetico: l’imperativo della prudenza. Kant sostiene che tutti gli uomini tendono al loro benessere, alla loro felicità, e quindi ci saranno imperativi che riguardano la ricerca della felicità, il perseguimento di questo fine, ma egli nega a questi imperativi il valore supremo di imperativi assoluti. «Per esempio dite a qualcuno ch’egli deve lavorare e risparmiare in gioventù, per non soffrire stenti nella vecchiaia: questo è, certo, per la volontà un precetto giusto e anche importante. Ma è facile vedere che la volontà qui è rinviata a qualche altra cosa, di cui si suppone ch’essa la desideri; e questo desiderio dev’essere lasciato all’arbitrio dell’agente stesso, sia che egli preveda altre risorse all’infuori di quelle che gli derivano dalle ricchezze già acquistate, sia che non speri di diventar vecchio, sia che pensi di rassegnarsi un giorno, in caso di bisogno, a sbarcare il lunario alla peggio». Kant voleva dire questo: l’imperativo della felicità, del benessere personale, in fondo è un imperativo soggettivo, non si può pretendere di elevarlo a imperativo universale valido per tutti gli uomini; tutti ricercano il proprio benessere, ma ognuno a modo suo, è un fatto decisamente limitato alla persona, alla soggettività in senso individuale. «La ragione, che sola può fornire regole implicanti la necessità, dà certo carattere di necessità anche a questo suo precetto (se no, non sarebbe imperativo); ma tal necessità è soltanto soggettivamente condizionata e non può esser supposta in egual grado in tutti i soggetti». Ognuno cerca questa felicità a modo suo, quindi gli imperativi della prudenza sono imperativi soggettivi, non siamo ancora alla sfera morale, alla sfera razionale universale che è solo dell’imperativo categorico. Continuiamo a leggere: «È proprio della legislazione della ragione questo, di non esigere che sia supposto altro che se stessa…». Che vuole dire? Quando l’uomo vuole la felicità, vuole il benessere, in fondo vuole qualcosa di esterno, non è ancora il volere la ragione per la ragione, cioè il bene identificato dalla ragione per il bene. Per Kant, invece, l’autonomia della morale consiste proprio in questo: che si vuole qualche cosa di interiore che non rinvia ad altro, il bene per il bene, la ragione per la ragione, non si vuole qualche cosa per qualcos’altro, ma perché è un bene in se stesso. Per la mia felicità posso desiderare, per esempio, di accumulare una somma di denaro, oppure di procurarmi la salute fisica, ma allora desidererò la salute fisica per essere felice, il denaro per essere felice, cioè un mezzo per qualche cosa di altro, invece il bene, il vero bene morale, è fine in sé, non è uno strumento per raggiungere un fine che sta fuori, che sta oltre. Il vero bene morale, la vera virtù, è premio a se stessa, è fine a se stessa, non è uno strumento per qualche cosa d’altro.
«… È proprio della legislazione della ragione questo, di non esigere che sia supposto altro che se stessa, perché la regola può valere oggettivamente e universalmente, solo se si afferma indipendentemente da quelle condizioni contingenti e soggettive, che distinguono un essere ragionevole da un altro. Si ha allora l’imperativo categorico, che comanda immediatamente una certa condotta, senza assumere a principio come condizione un altro scopo da conseguire mediante quella condotta». La caratteristica dell’imperativo categorico è di essere fine a se stesso, non mezzo per arrivare a qualche fine esterno. È fine in sé. Arriviamo alla famosa prima formula dell’imperativo. L’imperativo categorico è solo uno; infatti esso consisterà nell’applicare la forma della razionalità a tutte le azioni. Quale sarà la forma della razionalità? L’universalità. Agire moralmente che cosa vorrà dire? Agire secondo ragione. Ma agire secondo ragione, significa agire in maniera universale, agire in modo che chiunque altro al posto mio per agire moralmente debba fare la stessa cosa che ho fatto io. Bisogna agire in modo che la massima della propria azione (per massima s’intende il principio soggettivo specifico, la regola estraibile dal comportamento specifico) possa valere come legge universale. In altri termini, la prima formula dell’imperativo categorico implica questo: il procedimento che sto seguendo, che Kant chiama massima, il modo come potrei definire l’azione che sto facendo, posso pretendere che debba valere per legge universale, cioè che non debba valere solo per me in questa circostanza, ma per qualunque altro essere umano si trovi in circostanze analoghe. Devo poter essere sicuro che la regola, che sto seguendo implicitamente anche se non me ne accorgo, possa valere come regola universale, cioè che qualunque essere umano, per essere veramente morale, cioè razionale, la debba seguire. Si tratta di una morale fortemente improntata all’universalità. Ora dalle varie formule dell’imperativo cerchiamo di capire meglio in che cosa consiste questa universalità.
La prima formula dice: «Agisci soltanto secondo quella massima che tu nello stesso tempo puoi volere che divenga una legge universale»; c’è una accentuazione della universalità oggettiva: quello che fai deve valere come legge universale. Nella seconda formula dell’imperativo categorico è presente invece una accentuazione della universalità soggettiva: siamo sempre all’interno dell’universalità, ma lo stesso imperativo viene riformulato dal punto di vista del soggetto che si pone un fine. Infatti Kant dice: «Agisci in modo da trattare sempre l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo». Questa è la trasposizione filosofica del comandamento cristiano secondo il quale, appunto, bisogna non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi, o, meglio, si deve fare agli altri quello che si vorrebbe fosse fatto a se stessi. L’altro ha la stessa dignità mia, dev’essere considerato non strumento, ma fine, come io considero me stesso un fine: tutti gli uomini hanno pari dignità, perché tutti gli uomini sono ugualmente dotati di ragione. “Ama il prossimo tuo come te stesso”: tu sei un fine, ti consideri e ti devi trattare come un fine, non ti devi mai abbassare a essere strumento e non devi mai usare un altro. Dice Kant: «L’imperativo pratico è formulabile nel modo seguente: Agisci in modo da trattare sempre l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo. Il principio: – agisci riguardo a ogni essere ragionevole (a te e agli altri) in modo che nella tua massima esso valga sempre come fine in se stesso, è in fondo identico a quest’altro: – agisci secondo una massima che contenga nello stesso tempo in sé la possibilità di valere universalmente per tutti gli esseri ragionevoli. Infatti, dire che io nell’uso dei mezzi per qualsiasi fine debbo sottoporre la mia massima a questa condizione restrittiva che essa possa valere universalmente come una legge per ogni soggetto, è lo stesso che dire: il soggetto dei fini, cioè l’essere ragionevole stesso deve servire di principio a tutte le massime delle azioni non mai semplicemente come mezzo, ma come suprema condizione limitativa nell’uso di tutti i mezzi, ossia sempre nello stesso tempo come un fine». Qui il linguaggio può sembrare complesso, ma in queste parole c’è un insegnamento semplice e grandioso: l’unico fine che l’uomo si può porre è l’uomo stesso. Non c’è nessun fine superiore all’uomo. In questo senso, Kant si rivela un continuatore degli ideali più alti di tutto l’Umanesimo della civiltà europea moderna: l’uomo è l’essere dotato di maggiore dignità possibile, e il fine di tutte le azioni umane deve essere appunto l’uomo stesso, cioè il rispetto dell’essenza dell’uomo e il perfezionamento dell’umanità.
La terza formula è una sintesi delle prime due: la prima era sbilanciata sull’oggettivo; la seconda sul soggettivo; la terza dice: «Agisci in modo che la tua volontà possa valere come legislatrice universale». La volontà, che è qualcosa di soggettivo, deve valere come qualche cosa di universale, cioè di oggettivo. Nella terza formula, che è la più sintetica, la più chiara di tutte, il piano soggettivo universale e il piano oggettivo universale sono pienamente fusi. La volontà del singolo deve diventare legislatrice universale. Oggi non è facile comprendere questa affermazione perché per volontà, per singolo, per individuo, nel mondo contemporaneo si intende qualche cosa che è agli antipodi rispetto a Kant, cioè si intende l’arbitrio soggettivo. Si pensa che  l’individuo debba poter agire nel modo che crede, fare le cose che crede, ecc. Invece per Kant affidare tutto all’individuo non significa affidare tutto all’arbitrio, bensí affidare tutto alla parte più nobile dell’individuo e cioè alla ragione. In questa prospettiva, l’individuo coincide nei suoi punti di riferimento essenziali con gli altri individui. Oggi riferirsi alla volontà di una persona significa riferirsi a qualche cosa di assolutamente arbitrario, che varia da individuo a individuo, invece la volontà con la “V” maiuscola che si è appropriata dei contenuti della ragione per Kant è come l’Io penso, cioè vale per tutti gli uomini, è un qualche cosa di soggettivo ma di universale contemporaneamente. La posizione etica di Kant si spiega anche col fatto che egli vive nel periodo entusiasmante della Rivoluzione francese, in cui la borghesia europea spera di poter portare la liberazione e la fratellanza a tutta l’umanità. Kant è un grande filosofo dell’epoca della Rivoluzione francese. Spera che il comportamento di ognuno si possa armonizzare col comportamento di tutti gli altri in nome della ragione. Viviamo oggi in un’epoca in cui le parole d’ordine più avanzate della Rivoluzione francese sono state sconfitte. Dopo Kant hanno preso il sopravvento le tendenze più individualistiche. Per esempio già Schopenhauer ride di Kant, e si affida a una morale emozionale puramente individuale. Dopo Kant, dopo l’idealismo soprattutto, inizia una fase di decadenza che porta l’individuo a scostarsi dall’universale, e oggi “individuo” coincide con “arbitrio”, mentre per Kant “individuo” coincide con “ragione” e con “universalità”,  e  questo  si  spiega  con  la  grande  speranza che gli ideali rivoluzionari, libertà, uguaglianza, fratellanza, possano veramente unire tutta l’umanità e portarla in un’epoca nuova.
«Il fondamento, dunque, di ogni legislazione pratica risiede oggettivamente nella regola o nella forma dell’universalità, che (secondo il primo principio), la rende capace di essere una legge; e soggettivamente nel fine. Ma il soggetto di tutti i fini è (conforme al secondo principio) l’essere ragionevole come fine in sé. Da ciò risulta il terzo principio pratico del volere, come condizione suprema della sua conformità con la ragion pratica universale: cioè: [agisci secondo] l’idea della volontà di ogni essere ragionevole come legislatrice universale. Io chiamo questo principio il principio dell’autonomia della volontà, in opposizione ad ogni altro, che per questo io riferisco all’eteronomia». Qui Kant fonda il concetto dell’autonomia della sua morale. Autonomia in due sensi: autonomia significa libertà; la ragione è un contenuto interiore, e l’uomo che dipende dalla ragione dipende solo da se stesso. Kant contrappone la sua posizione all’eteronomia, cioè al dipendere non da sé ma da altro. Ma Kant in quello che considera “altro” fa rientrare per esempio anche il piacere, la sensibilità, la paura di un castigo eterno, ecc. Se invece di agire in base alla ragione si agisce in base al piacere, per Kant si sta agendo non in base alla propria libertà e autonomia; se si sta agendo in base al piacere si finisce con l’essere in qualche modo schiavi del piacere e cioè si è eteronomi, non autonomi. Anche se il piacere è qualche cosa che può essere molto personale, per Kant questo qualche cosa ci porta a dipendere da altro da noi; così se dipendo da emozioni come la paura, eccetera, sono soggetto a qualche cosa di esterno. Per Kant non bisogna dipendere dalle emozioni, non bisogna dipendere dal piacere, ma, per essere liberi, bisogna farsi guidare esclusivamente dalla ragione. Si può pensare a un esempio estremo: consumare droga può portare piacere, ma significa dipendere da qualche cosa di esterno, cioè far venire meno la propria libertà. È chiaro che dal punto di vista della morale kantiana l’assunzione di droga è una forma forte di subordinazione all’esterno e quindi implica rinuncia alla libertà. Drogarsi non implica autonomia, bensí eteronomia. “Autonomia” anche in un altro senso, più semplice: le morali che noi conosciamo per lo più sono morali eteronome, in cui il precetto morale viene dall’esterno, viene da una chiesa, viene da un’autorità, viene da un profeta, viene da un libro sacro. L’autonomia della morale kantiana invece implica che la legge morale si ritrova dentro l’uomo, non in un libro sacro, in una setta, in una gerarchia ecclesiastica, in un precetto che viene dall’esterno.
Consideriamo ora un altro punto decisivo: l’intenzionalità della morale. «La buona volontà è tale non in grazia dei suoi effetti o dei suoi successi… », si delinea un altro tema importante: non è detto che l’agire morale abbia successo, anzi l’uomo morale è spesso sconfitto. Posso tentare un’azione buona e essere impedito di attuarla, ma ciò non toglie niente alla mia bontà: basta avere l’intenzione buona. La morale kantiana è una morale decisamente intenzionale. Che cosa significa? Per essere buono, devo fare in modo che la mia volontà aderisca all’imperativo della ragione, ma si tratta di un’operazione tutta interna, perché la volontà è qualche cosa di interiore, la ragione pure è qualche cosa di interiore, e l’esterno è fuori gioco. Per essere buono devo far aderire la mia volontà all’imperativo dettato dalla mia ragione, se poi le condizioni esterne mi impediscono di agire bene, questo nulla toglie alla mia virtù. Se, per esempio, voglio aiutare una persona che è strangolata da un usuraio, ma non ho i capitali per liberarla, questo non toglie niente alla mia bontà: l’importante è che io voglia aderire all’imperativo della ragione. Oppure posso essere ammalato, posso essere in un momento di debolezza fisica, non riesco a impedire, per esempio, che una persona si faccia male, oppure che sia aggredita, vorrei evitarlo, ma sono bloccato dalla debolezza, dalla malattia, ecc., allora, anche se non riesco a realizzare l’intenzione, l’importante è che io abbia voluto che ci fosse una corrispondenza tra l’imperativo morale, tra l’imperativo categorico come si configurava in quel momento, e la mia volontà.
È opportuno a questo punto ribadire che l’imperativo categorico è uno solo: agisci in modo che la massima della tua azione possa valere come legge universale. Le massime delle azioni non dipendono dai contenuti, abbiamo detto, quei famosi contenuti che sono esterni a noi e possono essere infiniti. Quindi la morale di Kant serve di orientamento in qualunque circostanza, in qualunque epoca storica, in qualunque situazione. L’importante è che in ogni circostanza io cerchi di comportarmi come secondo me si dovrebbe comportare ogni altro essere umano che usi la ragione. I contenuti possono essere, anzi, sono senz’altro infiniti; possono variare da circostanza a circostanza, ma ho una specie di bussola per orientarmi da me in ogni singola situazione. In questo senso Kant si può paragonare a Socrate. Socrate ripeteva: «Conosci te stesso», non dava una regola morale, ma spingeva ciascuno a cercarla in se stesso. Così la morale di Kant non detta contenuti di azioni morali: i contenuti sono vari e ognuno si orienta in base alle circostanze con la propria bussola interiore, con la propria ragione. Ora torniamo però all’intenzionalità. Dice Kant: «La buona volontà è tale non in grazia dei suoi effetti o dei suoi successi, né della sua attitudine a conseguire questo o quello scopo proposto, ma soltanto per il volere, ossia per se stessa; e, considerata per sé sola, dev’essere stimata senza paragone superiore a tutto ciò che si può fare per mezzo di essa in favore di qualche inclinazione o anche, se si vuole, in favore della somma di tutte le inclinazioni. Quando pure per una speciale avversità della sorte o per l’avarizia d’una natura matrigna venisse a mancare a questa volontà ogni mezzo per attuare i suoi disegni; quand’anche essa non ricavasse nulla dai suoi più intensi sforzi; quand’anche non dovesse rimanere che la sola buona volontà (e s’intende che questa non è semplice velleità, ma implica l’uso di tutti i mezzi che sono a nostra disposizione) [questa volontà non deve rimanere astratta: fino a dove posso arrivare con le mie forze ci devo arrivare; posso non avere i soldi per aiutare la persona in difficoltà, posso non avere le forze per aiutare la persona aggredita, ma devo usare tutte le mie forze fino a dove arrivano], essa brillerebbe tuttavia per sé stessa, come una pietra preziosa, poiché trae da sé medesima tutto il suo valore». La volontà buona vale per sé e non per il successo esterno, perché il successo esterno è un fatto di contenuto, del mondo esteriore. «L’utilità o inutilità sua non può nulla aggiungere e nulla togliere al suo valore. L’utilità sarebbe soltanto come una incastonatura del gioiello, che può renderlo più maneggevole negli scambi o attirare su di esso l’attenzione di coloro che non sono ancora esperti conoscitori, non già raccomandarlo agli inten- ditori e determinarne il valore»: il successo dell’azione è la montatura che rende più bello il gioiello, ma il gioiello è la pura volontà.
Anche l’intenzionalità risale in ultima analisi alla formazione protestante di Kant. La grande polemica che ha portato alla riforma di Lutero è centrata su questo: non ci si salva per opere, ma per fede. Quello che conta per Lutero è il puro fatto intenzionale, cioè l’amare Dio, l’affidarsi fiduciosi alla grazia divina; tutte le opere, le opere buone, peggio ancora naturalmente per Lutero se erano trasformate in indulgenze, non valgono a niente. Nel fare queste affermazioni Kant rivela la sua natura di protestante: per il protestantesimo, ripeto, le opere non contano: quello che salva, quello che rende virtuosi è la fiducia in Dio. Questa concezione trapassa in Kant: il fatto che l’azione morale abbia successo pratico è una montatura aggiuntiva al gioiello, ma non ha un valore sostanziale. Ciò che conta è l’intenzione della retta coscienza, l’intenzione della volontà buona.
«La dignità del dovere non ha nulla che fare con le gioie della vita; essa ha la sua propria legge, essa ha anche il suo proprio tribunale…». Viene respinta ogni forma di eudemonismo. L’eudemonismo è una visione ottimistica per cui la virtù e la felicità coincidono: l’uomo virtuoso è anche un uomo felice, se non altro perché è in pace con se stesso.  Per Kant  invece l’eudemonismo non vale e la virtù può anche non essere ricompensata: per condurre una vita virtuosa si può anche soffrire, si può anche procedere di rinuncia in rinuncia, non c’è conciliazione di virtù e felicità. In proposito Kant è drastico: «Un uomo onesto, colpito da una grande sventura ch’egli avrebbe potuto evitare se avesse voluto trascurare il proprio dovere, non è ancora sostenuto dalla coscienza di aver mantenuto e rispettato nella sua persona la dignità umana, di non aver da arrossire di se stesso o da temere lo sguardo interno del proprio esame? Questa soddisfazione non è la felicità, senza dubbio, non ne è neanche una minima parte. Nessuno infatti s’augurerebbe di aver occasione di provarla, e forse neanche desidererebbe la vita in tali condizioni. Ma egli vive e non può sopportare di essere innanzi ai propri occhi indegno della vita. Quella soddisfazione è l’effetto d’un rispetto per qualcosa di ben diverso dalla vita, e al cui confronto anzi la vita con tutte le sue gioie non ha proprio alcun valore. Quell’uomo vive ormai solo per dovere, e non perché provi il minimo gusto della vita». Si respinge anche l’ipotesi di avere un gusto per la vita, ma in questo tipo di possibilità Kant vede la grandezza dell’uomo. L’uomo, a prescindere dal gusto per la vita, si può dedicare a grandissimi ideali che lo trascendono completamente, non lo riguardano nella sua persona, e per questo testimoniano del suo destino morale, della sua capacità di sganciarsi dal piano banale, empirico. Si può rinunciare alle gioie della vita, ma si prova intima soddisfazione per fatti completamente sganciati dalla propria corporeità. E Kant si conforta quando nota che tanta parte dell’Europa partecipa con slancio agli entusiasmi della Rivoluzione francese: questa, dice lui, è una testimonianza del destino morale dell’uomo, in quanto si tratta di un trasporto per cose che non portano nessun vantaggio personale e nessuna gioia personale.
Continuiamo a leggere Kant: «Se la determinazione della volontà ha luogo conforme alla legge morale, ma solo mediante un sentimento, di qualunque specie questo sia, che dev’essere presupposto perché la volontà abbia un sufficiente motivo di determinazione, e se quindi essa non si determina per la legge, allora l’azione avrà un carattere di legalità, ma non di moralità». Si delinea l’ultima caratteristica che voglio sottolineare della morale kantiana: essa è una morale estremamente rigorosa, o, meglio, rigoristica. Che cosa significa questo? L’uomo buono deve agire bene per amore del bene. Punto e basta. Se agisce per ossequio alla legge, per un motivo esteriore, allora sta agendo per legalismo, ma non per moralità. La volontà buona deve seguire l’imperativo categorico solo perché lo trova razionale, non per altri motivi. Due azioni possono essere tutt’e due ispirate alla legge, ma possono non essere tutt’e due morali. Perché un’azione sia morale deve essere compiuta con la propria intima adesione, con la propria intima convinzione. Ricorriamo a un esempio: in una stessa situazione due individui possono non uccidere un altro, non uccidere qualcuno che li stava aggredendo, ma uno lo fa per una partecipazione all’imperativo categorico, l’altro per timore della legge, perché pensa che possa essere incolpato per eccesso di legittima difesa. Tutti e due hanno agito secondo legalità, perché tutti e due non hanno proceduto a rispondere in maniera esagerata all’aggressione, ma uno ha agito moralmente, perché era intimamente convinto e seguiva il dettame dell’imperativo categorico, l’altro agiva soltanto per paura di incorrere in una pena e quindi agiva legalmente, ma non moralmente. Ci può essere una divaricazione tra legalità e moralità. «Conservare, ad esempio la propria vita è un dovere, e inoltre cosa per cui ognuno ha un’inclinazione immediata. Ora appunto per questo la cura spesso angosciosa che la maggior parte degli uomini vi dedica non ha nessun valore interiore, e la loro massima non ha nessun contenuto morale». È spontaneo salvare la propria esistenza. Questo fatto, pur corrispondendo a una legge morale che implica la salvezza di noi stessi, l’integrità del nostro corpo, per lo più non comporta un atteggiamento morale. Si bada al proprio corpo, alla propria salvezza, ma non per seguire un imperativo; lo si fa spontaneamente per un istinto di sopravvivenza. Esteriormente ci si sta comportando secondo un principio morale, ma, siccome non si sta aderendo intimamente a un imperativo categorico, non si sta agendo moralmente. «Essi conservano la loro vita conforme al dovere, ma non per dovere», cioè stanno seguendo legalmente la norma per cui non ci si deve uccidere, si deve badare al benessere del proprio corpo, ma lo stanno facendo in maniera conforme al dovere,  non perché lo sentano come un dovere. «Invece se delle sventure o un dolore senza speranza hanno tolto ad un uomo ogni gusto per la vita, se questo infelice, forte d’animo, e più irritato della sua sorte che non abbattuto o scoraggiato, desidera la morte e tuttavia conserva la vita, senza amarla, e non per inclinazione o per timore, ma per dovere, allora la sua massima avrà un contenuto morale». Se uno conserva la propria esistenza in condizioni normali non si accorge che sta aderendo anche a un imperativo morale, quello di mantenersi in vita; sta agendo automaticamente, per legalità, ma non per moralità, non sta rendendosi conto che deve aver cura di sé anche per un dovere morale. Quando però, per seguire l’esempio drammatico di Kant, un uomo è gravemente ammalato, è arrivato a un punto per cui sarebbe portato a odiare la vita, eppure continua a mantenersi in vita, allora scatta la norma dell’imperativo per cui si mantiene in vita non per un automatismo vegetale, ma per una scelta morale.
Veniamo ora alla parte finale della Critica della ragion pratica, quella in cui Kant ha fondato il primato della ragion pratica sulla ragion pura. Mentre nella prima Critica Kant tiene una posizione agnostica, cioè dice non si può conoscere niente di Dio e dell’anima, in quanto le categorie dell’intelletto si applicano solo ai materiali dell’intuizione, invece nella Critica della ragion pratica egli giunge a Dio e all’immortalità dell’anima, ma per una via che non è conoscitiva, è una via diversa; quella dell’esigenza dell’uomo morale. Questa esigenza si esprime con postulati. Il termine è preso della geometria; i postulati sono punti di partenza indispensabili per le dimostrazioni, ma non si possono a loro volta dimostrare. Si devono ammettere per veri, e in qualche modo se ne avverte la verità perché attraverso di essi si possono dimostrare tante altre cose, ma non si possono dimostrare essi stessi come veri. Ora, Kant nella Critica della ragion pratica arriva alla libertà, all’immortalità dell’anima e a Dio, come postulati morali, cioè come esigenze ineliminabili per la vita morale, come i postulati geometrici sono esigenze ineliminabili per la geometria perché se non si parte da essi le catene di teoremi non si possono sviluppare. Il ragionamento di Kant è questo: è vero che non si possono dimostrare, ma se attraverso di essi si possono dimostrare tante altre verità, indirettamente si può dire che sono veri anche i postulati in geometria, e lo stesso vale anche nella morale.
Il primo postulato è quello della libertà. Nella Critica della ragion pura non abbiamo trovato la libertà dell’uomo, che è anzi condizionato dalla cosa in sé, non può fare altro che porre ordine tra i fenomeni, ma è un anello della catena causale della natura. Nella Critica della ragion pura non c’è alcun accenno alla libertà umana, anzi, l’esistenza della libertà nel mondo è una di due possibilità delle antinomie della cosmologia razionale; ma per Kant non si può decidere se una antinomia o l’altra sia vera. Per Kant, insomma, nella Critica della ragion pura non c’è alcuna libertà. Invece nella Critica della ragion pratica  egli afferma che il primo postulato per l’uomo morale è la libertà. Il motivo è semplice: se non si ipotizza la libertà non c’è neppure moralità, in quanto l’essere morale implica lo scegliere tra il bene e il male, tra il vizio e la virtù. Se fossimo costretti da qualche meccanismo automatico alla virtù, se fossimo creature angeliche, non saremmo liberi e non saremmo morali. Se fossimo coartati automaticamente dalla nostra natura a seguire per forza la virtù, non ci sarebbe libertà. L’uomo si muove invece tra quel male radicale di cui abbiamo detto, cioè il peccato originale, se vogliamo usare i termini teologici, e la possibilità di seguire l’imperativo della ragion pratica. Abbiamo detto che l’uomo vive continuamente una lotta tra l’imperativo categorico e le inclinazioni. Se vive questa lotta, ciò vuol dire che l’uomo può scegliere due strade: vizio e virtù, bene e male. Perché ci sia una vita morale, ci dev’essere la possibilità di scelta tra queste due alternative. L’animale, che segue l’istinto in maniera automatica, è amorale, è fuori della morale, è al di qua del bene e del male, mentre invece la scelta tra bene e male implica la libertà. La moralità, che è scelta per il bene contro il male, per la virtù contro il vizio, implica la libertà.  «La volontà è una specie di causalità degli esseri viventi in quanto essi sono ragionevoli, e la libertà sarebbe la proprietà di questa causalità, d’agire indipendentemente da ogni causa estranea determinante»: la libertà significa agire indipendentemente da ogni causa estranea determinante; risaliamo all’intenzionalità: anche se le cause esterne mi sono di impedi- mento, sono libero di adeguare, però, la mia volontà all’imperativo della ragione. Provo a fare un esempio drammatico. Ammettiamo che una persona sia paralizzata, e non possa correre a salvarne un’altra che sta andando incontro a un pericolo; la causalità esterna le impedisce completamente di agire, ma questa persona, se vuole con tutte le sue forze salvare chi vede in pericolo, sta adeguando la propria volontà all’imperativo categorico di rispettare l’altro, di amarlo come se stesso, e allora, pur impedita fisicamente, pure impedita dal mondo naturale, dalla causalità esterna, sta vivendo la libertà di essere buona. Si può essere liberi di essere buoni anche se nella pratica non si riesce a fare neppure un millesimo di quel che vorrebbe fare. Per Kant la libertà dell’agire morale rende l’uomo completamente indipendente rispetto al mondo. «La volontà è una specie di causalità degli esseri viventi in quanto essi sono ragionevoli,…». In fondo vuol dire questo: «State attenti che per libertà non intendo lo svincolamento dalle leggi della natura e l’arbitrio. È vero che l’uomo in quanto essere morale non è soggetto alle leggi della natura, ma non vi illudete che nella sfera morale si possa agire a capriccio: la sfera morale avrà le sue leggi come le ha la sfera naturale, e queste leggi saranno le leggi della ragione». Ancora una volta Kant mette in guardia contro il concetto di libertà come arbitrio, come velleità. Per Kant la libertà non è arbitrio, il voler fare quello che pare e piace: la libertà è la razionalità, la libertà coincide con l’agire secondo i dettami della ragione. Agire secondo i dettami della ragione significa non agire a caso e non agire a capriccio, perché la ragione è tutto tranne che caso e capriccio. Faccio un esempio paradossale, per dire che per Kant la libertà coincide con la ragione quindi con qualche cosa che non è l’arbitrio, ma con una restrizione delle possibilità: si è liberi di uscire da questa stanza, ma solo dalla porta, dal balcone purtroppo non si è liberi di uscire perché ci si fa male, anzi ci si può addirittura sfracellare; è chiaro dalle più semplici osservazioni del comportamento che noi seguiamo ogni sorta di leggi quando siamo liberi di agire, se invece interpretassi la libertà nel senso assurdo in cui viene spesso interpretata oggi, cioè di arbitrio totale, questo significherebbe l’equivalente di considerare la libertà come la possibilità di uscire dal balcone. È chiaro che se sono libero, se uso quindi la ragione, mi guarderò bene dall’uscire dal balcone, non interpreterò, cioè, la libertà come arbitrio di poter fare tutto quello che voglio, ma come agire secondo quello che è razionale (ed è razionale uscirsene tranquillamente per la porta). Ora, Kant con queste sue affermazioni vuole dire: è vero che l’uomo si distacca dalla sequenza della causalità naturale, è libero, però questa libertà non è l’arbitrio, in quanto la libertà è adesione alla razionalità. «…come la necessità naturale è la proprietà che possiede la causalità di tutti gli esseri sprovvisti di ragione, di essere determinata all’azione dall’influenza di cause estranee». Poche righe dopo, dice: «Pertanto la libertà, quantunque non sia una proprietà del volere conforme a leggi della natura [cioè non ha a che fare con le leggi della natura], non deve tuttavia essere affatto esente da leggi, bensí deve piuttosto essere una causalità secondo leggi immutabili, ma di natura speciale: ché altrimenti una volontà libera sarebbe un non senso».
Gli altri due postulati sono Dio e l’immortalità dell’anima. Come viene fondata l’immortalità dell’anima? «Ma questo progresso infinito è possibile solo sotto il presupposto d’una persistenza infinita, come personalità, dello stesso essere razionale (ciò che si dice immortalità dell’anima)», L’uomo, per i motivi che abbiamo detto poco fa, non riesce a realizzare l’azione morale: ognuno di noi, nonostante gli sforzi, riesce a realizzare solo in maniera minima, se pure vuole agire moralmente, la bontà. Il disagio di ogni uomo che vuole vivere virtuosamente è l’inadeguatezza delle proprie forze, cioè il non riuscire ad agire veramente in maniera morale, e soprattutto il fatto che il mondo è dominato dall’immoralità, non è recettivo rispetto al bene. Per Kant, l’uomo morale, proprio perché vive questa frustrazione dovuta all’intenzionalità della morale, al fatto di avere intenzione di fare il bene e non riuscirci, ha una forte esigenza di postulare, cioè di immaginare, di sperare, che la vita abbia una prosecuzione, che la sua esigenza di perfezionamento e anche di successo nell’azione morale possa continuare all’infinito, che quindi non siano troncati improvvisamente, a un certo punto, la propria tensione morale, il proprio sforzo morale, ma che essi possano proseguire. L’aspirazione dell’uomo al continuo perfezionamento, la sua insoddisfazione per il fatto di non essere all’altezza delle situazioni, di non essere pienamente morale, lo spingono a sperare, a credere nell’immortalità dell’anima, nel fatto che possa avere un cammino infinito ancora da percorrere per realizzare perfettamente il bene. Infine il postulato dell’esistenza di Dio. Anche questo è collegato al discorso che stiamo facendo: «Ora l’essere razionale che agisce nel mondo non è anche causa del mondo e della natura stessa [cioè l’uomo, con la sua ragione, non è causa del mondo e della natura]. Quindi non vi è nella legge morale il più piccolo fondamento per un accordo necessario fra la moralità ed una felicità – ad essa proporzionata – d’un essere appartenente al mondo come parte e perciò da esso dipendente». L’uomo agisce moralmente, il mondo però non l’ha fatto lui, il mondo è refrattario alla sua azione morale e soprattutto il mondo non si concilia con lui e non gli dà soddisfazione, non gli dà la felicità. L’uomo, abbiamo detto prima, può essere virtuoso, ma contemporaneamente può essere anche infelice, può vivere una vita assolutamente priva di soddisfazioni, di gioia, di felicità. «Tuttavia nel compito pratico della ragion pura, un tale accordo è postulato come necessario: noi dobbiamo cercare di promuovere il sommo bene (che deve quindi essere possibile)È un dovere per noi promuovere il sommo bene, quindi non è solo un diritto, ma un bisogno necessario connesso col dovere il presupporre la possibilità di questo sommo bene. Il quale, poiché ha luogo solo sotto la condizione dell’esistenza di Dio, collega inseparabilmente la esistenza di Dio col dovere; il che equivale a dire che è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio». L’esistenza di Dio significa l’esistenza di un essere onnipotente nel quale si conciliano la virtù e la felicità, si concilia il voler fare il bene e il realizzare veramente il bene; per la sua onnipotenza Dio viene inteso come colui che tutto può e quindi può effettivamente realizzare il bene, mentre l’uomo vive la frustrazione di voler fare il bene e di non riuscire a realizzarlo.
I tre postulati della ragion pratica pongono questo problema: la Critica della ragion pura ci mostra un uomo condizionato dalla cosa in sé, che è uno dei tanti anelli della concatenazione degli eventi causali, che non è libero e non si può porre il problema di Dio e dell’anima; la Critica della ragion pratica ci mostra l’uomo, invece, libero di agire moralmente, che trova in se stesso la forza dell’azione morale, che trova una via pratica per arrivare a Dio e all’immortalità dell’anima. Tra le due Critiche c’è uno iato, c’è una distanza, c’è una contraddizione. È una contraddizione che Kant tenta di sanare con La critica del giudizio.

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