ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

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Saggi per la scuola

ANTONIO GARGANO

Friedrich Nietzsche (1844-1900)

Con Nietzsche tocchiamo il culmine della parabola dell’irrazionalismo e giungiamo ad un anno emblematico, quello dell'inizio del secolo ventesimo:  Nietzsche è morto nel 1900. Da giovane è un lettore di Schopenhauer e la sua filosofia prende direttamente ispirazione da quest’ultimo, ma con un capovolgimento decisivo nelle conclusioni. Schopenhauer aveva sostenuto la mancanza di significato dell'esistenza: la vita è per lui animata da una cieca volontà di vivere, che non conduce da nessuna parte, è appunto cieca, esclude ogni finalismo. L’uomo è strumento dalla natura, che usa i singoli individui come marionette. La vita è priva di senso. Ne consegue il pessimismo: non è possibile progettare alcunché, non è possibile costruire un destino significativo per sé o per l'umanità. La volontà di vivere deve per Schopenhauer venir estinta superando l'inganno, e giungendo alla noluntas, all'esatto opposto della volontà.  La volontà di vivere deve capovolgersi nel suo contrario, bisogna approdare a quello che la religiosità buddhista ha chiamato nirvana: abbandono al nulla, estinzione di ogni moto di volontà. Schopenhauer vede nella volontà di vivere il cuore della realtà, l'equivalente della cosa in sé kantiana.  Attraverso il filo di Arianna del corpo, egli identifica la cosa in sé nella volontà di vivere, ma la respinge, predica il suo superamento, indica la via della sua estinzione.
Nietzsche accetta questo discorso, ma non nelle conclusioni: se la volontà di vivere è il cuore della realtà, dobbiamo accettarla con tutte le nostre forze. La volontà non deve essere smorzata, estinta, superata nella noluntas, bensí dev’essere fatta nostra, dev’essere acettata. Dobbiamo coincidere con la volontà di vivere, dobbiamo affermare quella che diventa cosí la nostra volontà di potenza, dobbiamo voler coincidere col nostro destino. Uno dei motti piú pregnanti di Nietzsche è: ego fatum, io sono il fato, coincido col mio destino. Per Nietzsche, la forza dell'uomo sta nella coincidenza con se stesso, nell'accettazione della vita, nella “fedeltà alla terra”. L'accettazione della volontà di vivere, che diventa volontà di potenza, implica una critica di tutta la cultura e la filosofia occidentali, critica a cui Nietzsche procede gradualmente, smantellando tutti i valori e i pilastri della civiltà occidentale, in quanto essa sarebbe fondata sulla rinuncia alla volontà di vivere.
La prima critica - prima sia dal punto di vista della storia della cultura, sia da quello della biografia di Nietzsche - viene rivolta alla civiltà greca. Da giovane Nietzsche era un filologo classico, un esperto della lingua e della letteratura greche; la sua prima opera importante è La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872), in cui capovolge le interpretazioni correnti sul mondo greco, che erano quelle di Winckelmann e di Goethe. Qual era l'immagine del mondo greco dominante al tempo di Nietzsche, immagine che poi in fondo è sopravvissuta anche nel nostro approccio ai Greci? La civiltà greca ha raggiunto un equilibrio, un'armonia. Winckelmann esalta le opere dell'arte greca in quanto ispirano l'idea di “nobile semplicità e calma grandezza", C'è una calma grandezza nella statuaria greca, che testimonia dell'equilibrio solare raggiunto da questo popolo. Il popolo greco, secondo Winckelmann e Goethe, è vissuto nella solarità mediterranea, è riuscito a raggiungere ed esprimere l'armonia, la proporzione, la misura. L'arte greca manifesta il perfetto accordo tra l'uomo e il mondo, le perfette proporzioni della figura umana, il divino ridotto a dimensione umana, un mondo sereno, di splendore, di luce, un mondo che si può porre sotto il segno di Apollo, il dio del sole, il dio della luce. Nel respingere questa interpretazione classica, Nietzsche sostiene che ad essa è sfuggita una componente fondamentale della civiltà greca, quella dionisiaca: la civiltà greca non si sarebbe svolta soltanto sotto il segno di Apollo.
La luminosità, la solarità, sono un emblema della ragione. In tutta la cultura occidentale quando si parla di sole, di luce, in termini metaforici si intende la ragione: basti pensare all'Illuminismo. Secondo Nietzsche invece c'è stata un'altra anima greca, quella veramente vigorosa, forte, energica, originaria, che non è stata solare, bensí notturna, e non è stata legata al dio Apollo, bensí a Dioniso, il dio delle tenebre, il dio della notte, il dio dell'ebbrezza.  Dioniso è l'equivalente di Bacco nella religione romana, è il dio del vino, dell'euforia, dell'ebbrezza. Nietzsche sostiene che lo spirito originario della civiltà greca è quello dionisiaco, non quello apollineo. Dioniso, in quanto dio dell'ebbrezza, è il simbolo del superamento del principium individuationis, di cui aveva parlato Schopenhauer: nella sobrietà, quando prevale la ragione, si scorgono netti i confini delle cose, i limiti di ciascun individuo; nel momento dell'ebbrezza, nel momento bacchico, invece, si supera il senso del limite, si arriva a toccare piú da vicino la volontà di vivere, che è qualche cosa di impersonale rispetto alla illusione dell'individualità dovuta al velo di Maja, per usare termini di Schopenhauer. Dioniso è quindi il dio della rottura del principium individuationis. E' il dio della notte, in cui tutto è indistinto, non c'è separazione fra le cose. È il dio della musica: la musica ci rapisce a noi stessi, implica un superamento dei confini dell’individuo, dei propri limiti, come già Schopenhauer aveva sostenuto. In un modo molto suggestivo, cosí Nietzsche descrive il dionisiaco ne La nascita della tragedia: «Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile e soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. La terra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente. Il carro di Dionisio è tutto coperto di fiori e di ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre. Si trasformi l’inno alla “gioia” di Beethoven in un quadro e non si rimanga indietro con l’immaginazione, quando i milioni si prosternano rabbrividendo nella polvere: cosí ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s’infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la “moda sfacciata” hanno stabilite fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di Maja fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria. Cantando e danzando, l’uomo si manifesta come membro di una comunità superiore: ha disimparato a camminare e a parlare ed è sul punto di volarsene in cielo danzando. Dai suoi gesti parla l’incantesimo».
Nella civiltà greca ci sono la notte, l'ebbrezza, la musica, il dionisiaco: affianco ad essi c'è il solare, c'è l'individuazione, c'è la ragione, c'è Apollo, dio delle arti figurative, che implicano immagini ben precise, ben determinate, quelle che erano state esaltate da Winckelmann. Nell’uomo greco sono presenti tutte e due le componenti: l'individuazione e la rottura dell'individuazione, il solare e il notturno, l'arte figurativa, ma anche la musica, Apollo, ma anche Dioniso. La civiltà greca arcaica riuscí a mescolare e bilanciare questi due elementi, poi si presentò un personaggio scomodo, il quale ruppe questo equilibrio, che si era espresso al massimo livello nella tragedia. La tragedia greca di Eschilo e di Sofocle è l'espressione più alta di questa civiltà fondata sulla compresenza delle due componenti: apollinea e dionisiaca. Questo equilibrio fu rotto da Socrate.  Col suo continuo dubitare, con la sua attitudine a sottoporre tutto alla critica, a ricorrere alla riflessione, a usare sempre la ragione, Socrate introdusse nella mentalità greca un elemento di distacco dalla realtà, in quanto l’uso della ragione implica pur sempre un mettere le cose a una certa distanza per poterle analizzare, una modalità opposta al coinvolgimento dionisiaco. L'influenza di Socrate si ripercosse anche sulla tragedia di Euripide, nelle cui opere i personaggi si dedicano a ragionare, a cavillare, a discutere. Con Socrate, che infetta Euripide, si rompe l'armonia di apollineo e dionisiaco della tragedia greca, si rompe l'equilibrio della personalità greca. Nasce una tendenza raziocinativa a non vivere le cose direttamente, in maniera sanguigna, immediata, ma a rifletterci sopra, a prendere le distanze, a criticare, e quindi si introduce una specie di tarlo, un elemento che indebolisce il vigore, lo spirito nativo, istintivo, che aveva fatto — secondo Nietzsche — la grandezza dei Greci, si diffonde una sorta di malattia. La Grecia classica viene vista come inferiore rispetto a quella arcaica: Nietzsche esalta soprattutto il momento delle origini, della forza, del sangue, del vigore, il momento notturno, mentre il momento del ragionamento, dell'intelletto, il momento socratico viene sminuito.
Ancora più forte è la critica a Platone, che ci avvicina al cuore del pensiero di Nietzsche. Platone è condannato ancora piú aspramente di Socrate in quanto egli ha concepito il mondo delle idee, ha sovrapposto al mondo sensibile un mondo ideale, svalutando cosí il mondo sensibile. Platone ha dato avvio a un gioco di rinvio all'al di là delle cose, un gioco di trascendimento che implica una svalutazione del mondo reale. Il platonismo, piú del socratismo, è un ostacolo alla realizzazione dell'uomo. Socrate introduce il tarlo del dubbio, la critica, la riflessione, Platone addirittura schiaccia il mondo sensibile, il mondo delle cose, subordinandolo al mondo delle idee che si sovrappone ad esso. I valori, le idee, la perfezione, l'eternità, sono esclusi dalla realtà sensibile e vengono riferiti al mondo delle idee; il mondo sensibile è un mondo imperfetto, è un mondo di copie delle idee, quindi è una realtà da cui bisogna fuggire. Nietzsche respinge soprattutto l'affermazione platonica per cui il corpo è il carcere dell'anima. Il fatto che il mondo ideale è superiore al mondo sensibile implica che l'anima è superiore al corpo, che l'aspirazione dell'uomo dev’essere quella di liberarsi dal corpo per entrare piú direttamente in contatto con l'idea. Nietzsche critica duramente la diminuzione dell'importanza del corporeo a favore dell'anima e del mondo ideale, e sostiene che il rifiuto del corpo, la priorità assegnata all’anima, all'ideale, al trascendente, a ciò che sta al di là del sensibile, è un fattore che dal platonismo passa nel cristianesimo.
Il cristianesimo è, secondo Nietzsche, una sorta di manifestazione del platonismo. Esso ha accolto da Platone l'idea che c'è un mondo superiore a quello sensibile, un mondo spirituale ricco di valori, che implica il bene, la felicità eterna, ecc., in nome del quale viene svalutato il mondo della carne, della materia, che a questo punto è soltanto una valle di lacrime da cui bisogna liberarsi.  La svalutazione del mondo sensibile in Platone ha generato la filiazione molto piú robusta che è il cristianesimo, con la sua svalutazione della corporeità, della materia. Come Platone aveva detto che il corpo è il carcere dell'anima, cosí il cristianesimo predica con molta piú energia che bisogna vivere di rinunce, evitare i piaceri corporei, puntare alla salvezza dell'anima, ma questo implica una svalutazione del mondo terreno. Tutto ciò che è trascendente, che è al di là del sensibile, tutto il soprasensibile rivalutato dal cristianesimo, porta alla svalutazione del sensibile, dell'al di qua, e implica — dice Nietzsche — una morale da schiavi, rinunciataria, una morale che egli disdegna. Nietzsche si domanda quali siano le virtú del cristianesimo , e risponde: l'umiltà, la rinuncia, il sacrificio, cioè le virtú degli schiavi, le virtú di chi è stato sconfitto e che, essendo stato sconfitto, fa apparire virtú quelle che invece sono sue debolezze. Chi non è riuscito a raggiungere la potenza, ad accumulare ricchezza, ad esprimere la propria forza, fa diventare valori quelle che sono le cause della propria sconfitta. Il messaggio cristiano afferma che gli ultimi saranno i primi, ma questa è una morale — sostiene Nietzsche — inventata dagli ultimi, da chi ha perso, è schiacciato, è sconfitto, ed erige a valori i motivi della sua sconfitta.  In che senso si tratta di una morale degli schiavi?  Si può ricorrere al racconto della volpe e dell'uva di Fedro: la volpe, non riuscendo a raggiungere l'uva, iniziò a dire: "Sarà acerba, sicuramente non è molto saporita, non è importante raggiungerla".  Questo è il ragionamento alla base della morale degli schiavi, o morale del risentimento, come Nietzsche la definisce.  Chi non è riuscito a raggiungere potenza, potere e ricchezza, afferma che potenza, potere e ricchezza sono qualche cosa di negativo, a cui è bene rinunciare in quanto si tratta di disvalori, mentre i valori sono esattamente opposti. Tutto quanto l'uomo debole non riesce a realizzare lo definisce negativo, un disvalore, mentre trasforma invece tutto quello che ha originato la sua sconfitta in un valore morale. Questa é la genesi della morale cristiana (ma anche di quella buddhista): un capovolgimento dei veri valori, che per Nietzsche sono quelli che egli non esita a definire valori aristocratici, i valori dell'affermazione di se stessi, il riuscire a primeggiare, a dare la propria impronta alle cose; questo è virtú, nel senso che ancora gli antichi riuscivano a capire, virtú come valore. Nel mondo cristiano invece, la virtú è diventata il suo opposto, cioè la debolezza.  La genesi della morale è dovuta al risentimento: ci si risente per non essere grandi e potenti, e per questo si esalta l'essere deboli ed umili.
Prima di affrontare la lettura di alcuni testi di Nietzsche vorrei mettere in rilievo che il suo ragionamento nasconde un errore decisivo. Nietzsche è oggi un pensatore di successo, viene visto come uno dei cardini della cultura del '900 e da molte parti viene accolta la sua critica della tradizione occidentale, ma c'è nel suo metodo un vizio di fondo. Qual è questo errore?  L'avere confuso il piano della genesi con il piano della validità. In Umano troppo umano (1878) e nella Genealogia della morale (1887), Nietzsche sostiene che se andiamo a ricercare qual è la genesi dei valori morali, troveremo che essa è sempre vile, bassa: l'invidia, la gelosia, l'impotenza, la debolezza, il servilismo danno luogo alle virtú. Non riesco a raggiungere l'uva che è troppo alta, la disprezzo, dico che è acerba, e che è meglio rinunciarvi: manifesto un risentimento, un'incapacità, un'impotenza, una debolezza. Le virtù sono generate da impulsi psicologici bassi, “umani, troppo umani”. Nietzsche trova le radici della morale nelle pulsioni piú spregevoli dell’uomo. Sostiene di voler fare il lavoro della talpa, di voler scavare per vedere che cosa c’è sotto la superficie dell'albero dei valori, e trova che le radici di quest'albero sono marce. La Genealogia della morale distrugge i valori mostrando come gli ideali in cui gli uomini credono sono generati da torbide passioni, da ottusi impulsi, dalla volontà di essere ammirati, dall'incapacità di primeggiare. Che cosa è grave in questa affermazione di Nietzsche? Con la svalutazione dei valori in base alla loro genesi Nietzsche ha compiuto un errore, confondendo il piano della genesi e il piano della validità, che sono distinti e separati.  Questa conclusione nietzschiana ha prodotto disastri, in quanto ha alimentato un disorientamento della cultura contemporanea.  In che cosa consiste questo errore?  Faccio un esempio. Consideriamo l'opera poetica di Leopardi: questa è valida, cioè ha un valore estetico, ha un valore di carattere universale, riesce a parlarci dopo due secoli, in quanto Leopardi è riuscito a esprimere valori di carattere estetico, di carattere anche morale e filosofico, ancora significativi per l'uomo contemporaneo. Ora, una tendenza genealogica di tipo nietzschiano su che cosa si sofferma?  Leopardi era una persona sofferente, psichicamente e fisicamente, aveva forse la tubercolosi, era un po’ gobbo, non veniva amato dalle donne, aveva una famiglia oppressiva, viveva in una condizione provinciale, in un'Italia molto arretrata e sonnacchiosa, ecc. ecc.; dalle turbe presunte o reali di Leopardi, dalla condizione familiare e sociale in cui è vissuto Leopardi, si cerca di trarre elementi di valutazione su L’infinito  o sul Sabato del villaggio e si tende a scambiare il piano del valore estetico con quello della genesi psicologica.  Queste due cose sono separate in maniera netta: basta fare la semplicissima considerazione che tantissimi altri giovani nell'Italia sonnacchiosa dei primi dell’Ottocento erano malati, vivevano in situazioni familiari disperate, vivevano in provincia e non hanno prodotto niente. Non c'è alcun rapporto necessario tra queste disgrazie, questo piano psico-sociologico, e il valore estetico delle poesie di Leopardi. Esse hanno un valore poetico, estetico, comunicativo, a prescindere dalla loro genesi. Una ulteriore testimonianza in questo senso può essere data dai poeti che hanno origini sconosciute, per esempio Shakespeare, sicuramente il piú grande genio tragico dell'età moderna, della cui vita non si sa quasi niente di certo, fino ad essere insicuri circa la sua stessa identità. Prendiamo da ultimo l'esempio forse piú clamoroso: "Dicunt Omerum fuisse caecum", si dice che Omero fosse cieco. Su Omero ci sono tantissime dispute. Il nostro Vico ha sostenuto che Omero non è mai esistito, non è altro che la voce della coralità del popolo greco delle origini. Di Omero non si sa niente, ma l'Iliade e l'Odissea  sono grandi poemi in cui viene raggiunto un piano eccelso di valori estetici, e in cui vengono espressi valori etici come la fedeltà, la lealtà, il coraggio, la dedizione, la sete di conoscenza, grandi moventi umani che sono ancora oggi validi e palpitanti: la genesi empirica dell'Iliade non è rilevante per avvertire il valore estetico e filosofico dell'Iliade. Esempi ancora piú lampanti si possono trarre dalla storia della scienza, le cui conquiste sono valide a prescindere dal carattere e dai moventi dei loro scopritori. Ammesso pure, e non concesso, che la genesi dei valori sia quella che Nietzsche ha identificato, ciò non toglierebbe niente alla validità dei valori, in quanto i valori devono essere sottoposti ad una analisi di carattere razionale, non a una ricostruzione empirica della loro genesi, che può al più portare a scoprire che qualcuno aveva una debolezza e l'ha fatta diventare forza: non è la ricostruzione empirica, psicologica, sociologica, storica, che conta, bensí la valutazione da un punto di vista razionale. I valori della civiltà occidentale greco-cristiana sono sicuramente, alla luce della ragione, estremamente solidi, a prescindere dalla loro possibile genesi empirica. Si deve inoltre rilevare che il valore supremo è la verità: Nietzsche, sostenendo le origini “basse” della verità e la sua sostituzione con la volontà di potenza, destituisce di ogni valore di verità le sue stesse argomentazioni, che alla luce del suo stesso pensiero diventano espressioni di una volontà di potenza particolare.
Nietzsche condanna la Grecia classica di Socrate e Platone, rifiuta il cristianesimo come morale degli schiavi, infine egli respinge il socialismo, che implica anch'esso l'atteggiamento della rinuncia, in quanto chi combatte per il socialismo pensa di operare per qualche cosa che si edificherà nel futuro: come il platonico o il cristiano rinunciano all'oggi per il domani nell'aldilà, cosí il socialista, il rivoluzionario, rinuncia all'oggi, sperando nel domani nell'edificazione della giustizia sociale, dell'eguaglianza, ecc. Platonismo, cristianesimo e socialismo sono accomunati dalla rinuncia all'oggi, al qui ed ora, al senso, alla materia, all'immediato, in favore di ciò che viene dopo, del trascendente.  Da questa critica emerge la proposta in positivo di Nietzsche: non l'avviarsi verso una trascendenza, ma il radicarsi nel presente.  «Enunciamola - dice Nietzsche - questa nuova esigenza: abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di cominciare a porre una buona volta in questione il valore stesso di questi valori, e a tale scopo è necessaria una conoscenza delle condizioni e delle circostanze in cui sono attecchiti, poste le quali si sono andati sviluppando e modificando (morale come conseguenza, come sintomo, come maschera, come tartuferia, come malattia, come fraintendimento; ma anche morale come causa, come terapia, come stimulans, come inibizione, come veleno).  Non essendo esistita fino ad oggi una tale conoscenza e non essendo stata neppure soltanto desiderata,  si è preso il valore di questi “valori” come dato, come risultante di fatto, come trascendente ogni messa in questione; fino a oggi non si è neppure avuto il minimo dubbio o la minima esitazione nello stabilire “il buono” come superiore in valore al “malvagio“, superiore in valore nel senso di un avanzamento, di una utilità, di una prosperità in rapporto all'uomo in generale (compreso l'avvenire dell'uomo).  Come?  E se la verità fosse il contrario?  Come?  E se nel bene fosse insito anche un sintomo di regresso, come pure un pericolo, una seduzione, un veleno, un narcoticum, attraverso il quale a un certo punto il presente vivesse a spese dell'avvenire?  Con maggior agio, forse, e con minor pericolo, ma anche con uno stile inferiore, piú volgare?... Cosí che precisamente la morale sarebbe responsabile del fatto che una in sé possibile suprema possanza e magnificenza del tipo uomo non è mai stata raggiunta?  Cosí che proprio la morale sarebbe il pericolo dei pericoli?». La morale potrebbe essere un narcotico, che invece di permettere all'uomo di scatenare tutte le sue forze, di concentrare tutte le sue energie nel presente, gli fa operare un rinvio, cioè lo spinge a rinviare tutte le speranze e tutte le aspettative in un aldilà, paradiso o  socialismo che sia. L'uomo in questo modo si indebolisce, si narcotizza, si avvelena e non esprime la sua “possanza” e la sua “magnificenza”.
«Ma vi siete mai chiesti abbastanza voi, a quanto caro prezzo si è fatto pagare l'innalzamento di ogni ideale sulla terra?  Quanta realtà dovette sempre essere a tale scopo calunniata e disconosciuta, quanta menzogna santificata, quante coscienze sconvolte, quanta “divinità” sacrificata ogni volta?  Affinché un santuario possa essere eretto, un santuario deve essere ridotto in frantumi: è questa la legge, mi si indichi il caso in cui non è adempiuta!... Noi uomini moderni, noi siamo gli eredi di una millenaria vivisezione della coscienza e di una tortura da bestie rivolta contro noi stessi: abbiamo in tutto ciò il nostro piú lungo esercizio, forse la nostra vocazione da artisti, in ogni caso il nostro affinamento e pervertimento del gusto. Troppo a lungo l'uomo ha considerato le sue tendenze naturali con un “cattivo sguardo”, cosicchè queste hanno finito per congiungersi strettamente in lui con la “cattiva coscienza”.  Sarebbe in sé possibile un tentativo opposto, ma chi è abbastanza forte per questo?  Vale a dire quello di congiungere indissolubilmente con la cattiva coscienza le tendenze innaturali, tutte quelle aspirazioni al trascendente, all'anti-senso, all'anti-istinto, all'anti-natura, all'anti-animale, insomma gli ideali esistiti sino ad oggi, che sono tutti quanti ideali ostili
alla vita, ideali calunniatori del mondo».  La morale della volontà di potenza di Nietzsche nel suo aspetto propositivo è enigmatica, sembrerebbe che essa debba consistere nel contrario della morale da schiavi: sono stati compressi il senso, l'istinto, la natura, l'animale, sembrerebbe che debbano essere ora valutati positivamente proprio il senso, l'istinto, la natura.
Nietzsche ha avuto un crollo mentale nel 1889. Aveva manifestato già in precedenza sintomi di una follia, che esplose quando abbracciò un cavallo nella città che prediligeva, Torino, e si mise a parlare con questo cavallo che era stato percosso dal suo padrone. Fino al 1900 egli è vissuto in una situazione molto delicata:  era malato di mente e la sorella, Elisabeth Förster Nietzsche, mise quest’uomo geniale, al centro di una sorta di rituale di visite di persone che si recavano a trovarlo, curiose di conoscere il genio. Soprattutto però Elisabeth compí un'operazione molto grave. Prima dell'esplodere della follia, Nietzsche aveva steso appunti per un'opera che si proponeva di intitolare La volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori. Quest'opera egli non l'ha mai potuta portare a compimento, ma la sorella ne ha raccolto i frammenti ed ha fatto stampare nel 1906 un libro intitolato: La volontà di potenza, libro che Nietzsche  non ha mai chiuso, non ha mai considerato completato. Ques’opera, in cui si delinea piú nettamente la parte propositiva della filosofia di Nietzsche, è un libro quindi mai scritto in quanto tale, che si è prestato alla strumentalizzazione da parte del nazismo, in quanto vi viene rivendicata la volontà di potenza, la volontà affermativa; ma volontà affermativa di quali contenuti? Di qualunque contenuto sia presente nella vitalità dell'individuo.  Quest’opera conteneva frasi in cui si accenna al superuomo come un uomo forte, biondo, con gli occhi azzurri, e i nazisti sostennero che il superuomo coincideva con l'uomo ariano che le teorie razziste di Rosenberg e di Hitler cercavano di individuare. I nazisti strumentalizzarono Nietzsche, o meglio strumentalizzarono il Nietzsche della Volontà di potenza deformato dalla operazione editoriale arbitraria della sorella.
Oltre che in quest'opera postuma, cosí purtroppo storpiata, nelle opere date da Nietzsche alle stampe viene predicato comunque che bisogna abbattere tutto ciò che  ha ostacolato l'istinto, il senso, l'animalità. Tutte le aspirazioni al trascendente hanno costituito l'anti-senso, l'anti-istinto, l'anti-natura, l'anti-animale, ora si domanda Nietzsche: «A chi rivolgersi oggi contro tali speranze e rivendicazioni? ... Avremmo contro di noi proprio gli uomini buoni; inoltre, come è ovvio, i pigri, i pacificati, i vanitosi, i sognatori, gli stanchi.... Che cosa offende piú a fondo, che cosa divide piú radicalmente se non dare a conoscere un po’ di quel rigore e di quella sublimità con cui trattiamo noi stessi?  E d'altro lato, con quanta compiacenza e amorevolezza ci viene incontro il mondo, non appena ci comportiamo come tutti e come tutti ci “lasciamo andare”!... Ci vorrebbe, per quella meta, una specie di spiriti diversa da quelli che sono proprio in quest'epoca verosimili: spiriti fortificati da guerre e vittorie, per i quali la conquista, l'avventura, il pericolo, il dolore, sono diventati addirittura un bisogno: ci vorrebbe per tutto questo, l'abitudine all'aria tagliente delle altitudini, alle peregrinazioni invernali, a ghiaccio in montagna in ogni senso, ci vorrebbe, detto in breve e malamente, appunto questa grande salute!...». L'uomo schiacciato dalla morale dev'essere superato, dev'essere sostituito da un uomo fortificato dal pericolo e dal dolore, abituato a convivere con il pericolo e con il dolore: anche questo è molto ambiguo.
La tendenza platonico-cristiana viene da Nietzsche chiamata “nichilismo”. Qui si presenta un problema terminologico: “nichilismo” viene dalla parola nihil, che in latino significa niente; quindi nichilismo significherebbe filosofia del niente, filosofia dell’annintamento di tutto, filosofia della negazione totale della realtà. Questo termine, coniato nella prima metà del Settecento in riferimento alla filosofia di Democrito, era entrato in moda proprio quando Nietzsche era giovane, diffuso nella cultura europea grazie a due grandi romanzieri russi: Turgenev  e Dostoevskij. Intorno al 1860, in Europa si diffonde questo termine. Nel famoso romanzo Padri e figli di Turgenev il protagonista è un nichilista. Turgenev dipinge la figura del nihilista in maniera bonaria: è un tipo che irride a tutti i valori, che prende tutto in maniera superficiale, che non ha alcun punto di riferimento, ma viene presentato in una maniera sostanzialmente positiva. I nichilisti compaiono anche in grandi romanzi di Dostoevskij, per esempio nell’Idiota, ma con un connotato negativo, riferito a persone che appunto sono disposte anche a distruggere la realtà per le loro idee fantastiche, sono mistici scontenti della realtà, i quali vogliono annientare, distruggere il mondo come esso è fatto adesso, lo vogliono annichilire per creare un nuovo mondo, che è un mondo nato dalla loro fantasia, ma sono in qualche modo invasati da un ideale religioso di una nuova umanità. Nietzsche riprende il termine nichilista, ma dice di usarlo in un senso diverso  da quello della città di San Pietroburgo, vuol dire cioè diverso da quello di Dostoevskij: «Il mio nichilismo non ha niente a che fare con una nuova religione, con le illusioni di poter creare una palingenesi, una riforma, una nuova nascita del mondo, il mio nichilismo è la presa d’atto dell’annientamento della vita e dell’annietamento di tutti i valori». Nietzsche si fa banditore del nichilismo, ma nel senso di una diagnosi dalla malattia dell’umanità europea. Questo comporta un problema: Nietzsche si vede come un nichilista, ma non nel senso che egli sia banditore del nichilismo, portatore della bandiera del nichilismo. Come un medico, egli ha fatto una diagnosi: l’Occidente è entrato in uno stato morboso, in uno stato di malattia a seguito della sua continua negazione della vita; avendo rifiutato la vita in tutta la sua storia, adesso l’Occidente si è sterilito, ha capito che anche il surrogato della vita, cioè i valori, sono qualche cosa di fittizio e a questo punto non crede più in niente; si prepara quindi un periodo caratterizzato dalla morte di tutti i valori; tutti i valori sono incardinati in Dio, Dio è il perno intorno a cui ruotano tutti i valori: entrati nell’età del nichilismo siamo entrati nell’età della morte di Dio. Nietzsche è il profeta che viene ad annunciare questo annientamento dei valori. Si può invece rinfacciare a Nietzsche di essere un nihilista nel senso che appunto egli stesso pretende di scardinare tutti i valori e di annientare tutti i punti di riferimento del pensiero occidentale.
Nietzsche si interpreta come un profeta, che annuncia la morte di Dio; il risultato di questa morte, le conseguenze della morte di Dio, quindi del nichilismo totale - egli sostiene - si vedranno nei prossimi due secoli. Trovo che questa affermazione profetica di Nietzsche sia molto significativa; Nietzsche è morto nel 1900 quindi, nel suo delirio profetico, i frutti del nichilismo, cioè del giungere alle sue estreme conseguenze del crollo dei valori e della morte di Dio, si sarebbe visto secondo lui nel Novecento e nel secolo attuale. In una pagina letterariamente molto pregevole de La gaia scienza (1882) Nietzsche scrive: «Non avete mai sentito parlare di quell’uomo pazzo che, in pieno mattino, accese una lanterna, si recò al mercato e incominciò a gridare senza sosta: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. Trovandosi sulla piazza molti uomini non credenti in Dio, egli suscitò in loro molta ilarità. Uno disse: “L’hai forse perduto?” e altri: “S’è smarrito come un fanciullo? Si è nascosto in qualche luogo? Ha forse paura di noi? Si è imbarcato? Ha emigrato?”. Cosí gridavano, ridendo fra loro. L’uomo pazzo corse in mezzo a loro e fulminandoli con lo sguardo gridò: “Che ne è  di Dio? Io ve lo dirò. Noi l’abbiamo ucciso
æ io e voi! Noi siamo i suoi assassini! Ma come potremmo farlo? Come potemmo bere il mare? Chi ci diede la spugna per cancellare l’intero orizzonte? Che facemmo sciogliendo la terra dal suo sole? Dove va essa, ora? Dove andiamo noi, lontani da ogni sole? Non continuiamo a precipitare: e indietro e dai lati e in avanti? C’è ancora un altro e un basso? Non andiamo forse errando in un infinito nulla? Non ci culla forse lo spazio vuoto? Non fa sempre piú freddo? Non è sempre notte, e sempre piú notte? Non occorrono lanterne in pieno giorno?... Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Come troveremo pace, noi piú assassini di ogni assassino?... La grandezza di questa cosa non è forse troppo grande per noi? Non dovremmo divenire Dèi noi stessi per esserne all’altezza? Mai ci fu fatto piú grande, e chiunque nascerà dopo di noi apparterrà per ciò stesso a una storia piú alta di ogni altra trascorsa... Vengo troppo presto, non è ancora il mio tempo. Questo evento mostruoso è tuttora in corso e non è ancora giunto alle orecchie degli uomini. Per essere visti e riconosciuti lampo e tuono hanno bisogno di tempo, la luce delle stelle ha bisogno di tempo, i fatti hanno bisogno di tempo anche dopo essere stati compiuti. Questo fatto è per loro ancor piú lontano della piú lontana delle stelle e tuttavia sono loro stessi ad averlo compiuto!». Gli uomini hanno ucciso Dio, hanno perso i valori o meglio li stanno perdendo, non credono piú in niente, precipitano senza una prospettiva. Le conseguenze dell’annichilamento, dell’annientamento di Dio e di tutti i valori si vedranno soltanto nelle generazioni future. Va sottolineato tra l’altro, che Nietzsche non afferma l’ateismo, ma analizza un fenomeno storico: gli uomini prima avevano prospettive, avevano punti di riferimento, avevano uno scopo della loro esistenza, avevano valori a cui si ispiravano e il rannodo di punti di riferimento era la religione, era Dio; adesso essi hanno ucciso Dio, vale a dire che storicamente gli uomini hanno perso questo punto di riferimento e ancora non si rendono conto di che cosa accadrà in conseguenza di questo. Il profeta, Nietzsche, che si identifica col profeta Zarathustra, lascia intravedere che verrà una nuova epoca, i cui contorni non sono chiari, in cui sembra quasi che l’uomo si debba sostituire a Dio, ma naturalmente non potrà essere l’uomo avvilito, l’uomo debole, l’uomo malato di cui Nietzsche fa la diagnosi, sarà un uomo diverso, un uomo dell’avvenire, sarà un superuomo. In sostanza il pensiero di Nietzsche si pone come una diagnosi della fine e della decadenza dell’Occidente. L’Occidente è stato roso, è stato indebolito da una malattia; questa malattia, che è il nichilismo, è giunta alle estreme conseguenze, siamo arrivati a una fase transitoria. Ci saranno due secoli che produrranno i risultati ultimi della morte di Dio, dopo di che si assisterà alla nascita di qualche cosa di diverso, del superuomo.
Nietzsche chiama “nichilismo” la tendenza della civiltà occidentale a creare valori trascendenti, in quanto questi a lungo andare, secondo lui, vengono smascherati, e chi li vede cadere si trova di fronte al vuoto, si trova di fronte al nulla, quindi si genera la sfiducia nei valori e il loro annientamento. Secondo Nietzsche, proprio perché i valori sono falsi, ad un certo punto vengono smascherati e crollano, si annichilano. Egli stesso compie un'opera di smascheramento del falso fondamento dei valori. I valori crollano, e gli uomini si trovano di fronte al nulla, precipitano, senza sapere verso dove stiano precipitando.  Ora invece, da un punto di vista esterno a Nietzsche, il nichilista è proprio lui, che disprezza tutti i valori, la filosofia nichilistica è proprio la filosofia nietzschiana.  Egli sostiene che il nichilismo è una conseguenza della debolezza, della falsità su cui sono fondati i valori occidentali.  «Il nichilismo, come stato psicologico subentra di necessità, in primo luogo, quando abbiamo cercato in tutto l'accadere un “senso” che in esso non c'è ....sicché alla fine a chi cerca viene a mancare il coraggio.  Il nichilismo è allora l'acquistar coscienza del lungo spreco di forze, il tormento dell'“invano”, l'insicurezza, la mancanza dell'occasione di riposarsi in qualche modo, di tranquillizzarsi su qualcosa ancora, la vergogna di fronte a se stessi, come se ci si fosse troppo a lungo ingannati... Quel senso potrebbe essere stato: l'“adempimento” di un supremo canone morale in tutto l'accadere, l'ordine morale del mondo; o l'accrescimento dell'amore e dell'armonia nei rapporti fra gli esseri; o l'avvicinamento a uno stato universale di felicità; o anche il dirigersi verso uno stato universale del nulla, una meta è ancor sempre un senso». Gli uomini si sono dati i più vari scopi: dal progresso, al nulla stesso; il nichilismo nasce quando cadono le braccia perché non c'è nessun senso, non ci si sta muovendo verso niente. Quale rimedio vede Nietzsche? Non bisogna comportarsi come se si fosse in cammino verso una meta, che sta oltre il presente, ma ci si deve radicare in ogni singolo momento: l'atteggiamento giusto sarà quello di non rinviare, ma di cogliere l'istante, non di vivere nel futuro o nel passato, bensí nel presente.
Una forte critica è rivolta da Nietzsche al senso storico: i suoi nemici sono quindi Socrate, Platone, il cristianesimo, il socialismo e ogni atteggiamento di carattere storicistico.  Nietzsche ha scritto un saggio intitolato Sull'utilità e il danno della storia per la vita.  La storia è dannosa per la vita, in quanto implica il rivolgersi al passato invece di concentrarsi nel presente. Il proiettarsi nel futuro del cristiano o del socialista è negativo in quanto gli toglie forza per il presente, il senso storico proietta nel passato e anch’esso sottrae forza per il presente; bisognerà quindi vivere in maniera non storica.  Nietzsche esalta il dimenticare. È importante dimenticare, il dimenticare dà forza: se sono troppo legato dai ricordi vengo bloccato. Viene in mente che Hitler in Mein Kampf sostiene che le masse sono molto propense a dimenticare, e l'uomo politico scaltro deve approfittare della tendenza delle masse a dimenticare subito qualunque cosa. Contro Nietzsche, dobbiamo pensare che il senso storico sia una forza dell'uomo. Non a caso a Hitler faceva comodo un'umanità priva di senso storico.
«I supremi valori, per servire i quali l'uomo dovrebbe vivere, in particolare, quando dominassero su di lui in maniera molto gravosa e dispendiosa: questi valori sociali sono stati edificati al fine di rafforzarne il tono, sopra l'uomo, quali fossero comandamenti di Dio, come “realtà”, come mondo “vero”, come speranza e mondo
futuro».  Si riferisce al socialismo, dice che caduta la trascendenza cristiana è nata un'ipotesi di come l'uomo dovrebbe vivere in un regno futuro di giustizia, un mondo futuro.  «Ora che si fa chiara la meschina derivazione di tali valori, l'universo ci appare perciò divenuto privo di valore, “privo di senso”... ma questo è solo uno stato intermedio».  È come se Nietzsche dicesse: «Siamo nell’epoca del nichilismo, sono crollati i valori, ma questa situazione è solo una situazione intermedia in quanto io, Nietzsche, vi annuncio che sta per nascere un altro tipo di uomo, un uomo completamente diverso, che non si limita al negativo, a dire no alla vita, ai valori che schiacciano l'esistenza e l'immediatezza, ma afferra il presente, il momento fuggente e tende realizzarsi tutto subito». Questo uomo che Nietzsche-Zarathustra non vede ancora, ma di cui sente che sta per arrivare, di cui si dice il profeta, è il superuomo.
La parte propositiva del pensiero di Nietzsche culmina nella teoria del superuomo.  Che cos'è il superuomo? È  un problema definirlo. C'è un netto scarto tra l'uomo  della civiltà occidentale, abituato alla rinuncia, e il superuomo. Il superuomo non è ben delineato per il fatto che non nasce dialetticamente, per usare i termini hegeliani e marxiani, da una trasformazione del presente: mentre per Marx il socialismo nasce dal capitalismo per contraddizione interna, per Nietzsche, come per tutti gli irrazionalisti, da una situazione all’altra c'è un salto netto. Nietzsche, come Kierkegaard, come Schopenhauer, non si fonda sulla logica dialettica, bensí sulla logica binaria dicotomica, a due termini: o una cosa o un'altra. È come se dicesse: «Il superuomo è semplicemente l'opposto dell'uomo, c'è tra l'uomo e il superuomo la stessa differenza che c'è tra l'uomo e la scimmia. Sono cose diverse: un superuomo non scaturisce dall’uomo, esso è un'altra cosa rispetto all'uomo». Nietzsche rifiuta la mediazione dialettica di stampo hegeliano, anzi considera Hegel il peggior esponente dello storicismo, rinnega la dialettica, ma rifiutando la dialettica respinge la mediazione e deve dire che il superuomo è semplicemente l'opposto dell'uomo: l'uomo è rinunciatario mentre il superuomo sarà affermativo. Quale sarà il carattere di questo essere superiore all'uomo?  Sarà un uomo radicato nel presente, che  non indebolirà le proprie energie vitali volgendosi al passato, o proiettandosi nel futuro. Alla teoria del superuomo è connessa la teoria dell'eterno ritorno dell'identico: il tempo non ha una direzione di sviluppo come in Fichte oppure in Hegel: non c'è una crescita, non c'è un progresso, bensí l'eterno ritorno dell'identico. Il tempo è come una clessidra che si gira continuamente e in cui gli stessi granelli di sabbia vanno su e giú alternativamente. L'eterno ritorno dell'identico implica che non c'è né passato né futuro, ma conta soltanto il presente. Il presente è tutto, e il presente coincide con l'eternità.
Leggiamo da Così parlò Zarathustra (1885) accenni a quello che potrà essere il superuomo. Non a caso Nietzsche ricorre a una immagine per cui Zarathustra, un profeta, viene ad annunciare in termini vaghi un'epoca futura. «Io vi insegno il superuomo.  L'uomo è qualcosa che deve essere superato.  Che avete fatto per superarlo?   Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l'uomo?   Che cos'è per l'uomo la scimmia?  Un ghigno o una vergogna dolorosa.  E questo appunto ha da essere l'uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna».  Tra il superuomo e l’uomo ci sarà la stessa differenza che c'è tra l'uomo e la scimmia: come noi guardiamo alla scimmia con compatimento, in quanto ci assomiglia, ma è un essere inferiore a noi, è una smorfia di uomo
æ dice  Nietzsche æ cosí il superuomo vedrà l'uomo come qualche cosa di inferiore: l’uomo possiede qualche tratto del superuomo, ma non è pienamente superuomo, come la scimmia sembra adombrare l'umanità, ma non è umana.  «Avete percorso il cammino dal verme all'uomo, e molto in voi ha ancora del verme.  In passato foste scimmie, e ancor oggi l'uomo è piú scimmia di qualsiasi scimmia.  E il piú saggio tra voi non è altro che un'ibrida disarmonia di pianta e spettro.  Voglio forse che diventiate uno spettro o una pianta?  Ecco, io vi insegno il superuomo!  Il superuomo è il senso della terra.  Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra!   Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze!  Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio».  Vale a dire vi avvelenano: questa è l'ultima parola d'ordine di Nietzsche, la fedeltà alla terra. Bisogna evitare ogni trascendenza, bisogna vivere nell'immanenza, essere fedeli alla nostra dimensione corporea e terrestre.  «Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire!   Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e cosí sono morti anche tutti questi sacrileghi.  Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell'imperscrutabile piú del senso della terra!  [...] L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo.  Un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi.  La grandezza dell'uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell'uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto».  Da una parte sostiene che bisogna sempre accettare il presente e quello che c'è, non vedere mai le cose nel loro sviluppo, dall’altra afferma che addirittura tutta la dimensione umana dev’essere vista come una transizione, un’epoca di passaggio.  «Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione.   Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all'altra riva». Nietzsche ricorre alla metafora propria della poesia: l'uomo diventa una freccia verso il superuomo, ma da un punto di vista razionale, filosofico, non ci si può accontentare di immagini poetiche come la freccia che sta viaggiando, come il tramonto che prepara un nuovo giorno, e cosí via. Circa il superuomo Nietzsche resta nel vago: è poeticamente suggestivo, ma filosoficamente insignificante. D’altra parte Benedetto Croce ha rilevato che Nietzsche è più poeta che filosofo.
Le teorie superomistiche di Nietzsche incontrarono un grande favore nella cultura del decadentismo europeo. Anche in Italia ebbero un grande accoglimento.  Il più grande degli imitatori italiani di Nietzsche (cosí è stato definito) fu Gabriele D'Annunzio, C'è però una differenza fondamentale tra il superuomo di Nietzsche e quello di D'Annunzio, in quanto il superuomo di Nietzsche si caratterizza per l’essere un personaggio sanguigno, affermativo, che vuol essere potente, forte, è un individuo che scarica tutte le sue energie in ogni momento, che si realizza tutto immediatamente nel presente.  Da tutte le espressioni in cui Nietzsche parla del superuomo si ricava che esso implica un'espressione di energie molto maggiore, più concentrata che nell'uomo.  Il superuomo di D'Annunzio invece è un superuomo estetico, è un superuomo estenuato. La differenza tra uomo e superuomo in Nietzsche consiste nel fatto che il superuomo è capace di affermare tutte le proprie energie in un momento, è un essere sanguigno, è una freccia che si proietta.  Invece il superuomo di D'Annunzio è un individuo estenuato dalla sua stessa sensibilità: la sua superiorità rispetto agli altri consiste nel fatto che è piú sensibile degli altri, che ha piú capacità di godimento estetico rispetto agli altri.  Il superuomo di D'Annunzio è il Claudio Cantelmo de Le vergini delle rocce: un individuo che si distacca dalla massa, che non vuole bere dove beve il gregge, come dice con disprezzo: la distanza tra lui e il gregge consiste nel fatto che l'uomo normale non riesce ad avere sensazioni raffinate, ad avere un senso raffinato, egli invece ha orecchie piú sensibili, ha uno sguardo piú acuto, è piú capace di cogliere le sfumature; la sua superiorità consiste in una capacità maggiore di godere tutte le nuances, le sfumature, che sfuggono all'uomo comune. Il superuomo dannunziano si fa prendere da sensazioni che lo incantano, lo affascinano, lo rapiscono, lo bloccano: è estenuato dalla sua stessa raffinatezza.  Per prendere un esempio basti pensare a La pioggia nel pineto, che è un'espressione di questa mentalità: per un uomo comune la pioggia nel cadere non produce sensazioni particolari, invece per D'Annunzio, per il superuomo estetico, ogni goccia che cade produce un rumore diverso, genera una sensazione diversa, e il poeta, il superuomo si distacca dalla massa in quanto è capace di cogliere sensazioni raffinate, differenziate, che sfuggono all'uomo comune. Inoltre il  superomismo di Nietzsche è proiettato nel futuro: il superuomo non è venuto ancora, non è ancora nato. Zarathustra è il profeta di un superuomo che verrà a dare inizio a una nuova epoca dell'umanità: il superuomo è il futuro. Nel superomismo dannunziano c'è il culto della bellezza e del passato: il superuomo è colui che sa cogliere meglio la bellezza, che sa meglio percepire le sfumature, che sa meglio scorgere le armonie che l'uomo normale non vede, ma per D'Annunzio c'è stata un'epoca in cui tutto questo è stato presente: l'epoca classica, l'epoca romana.  Roma è stata, “la madre della bellezza”, il superuomo dannunziano per realizzarsi deve volgersi al passato, alla grandezza di Roma, che è stata un'espressione del superomismo, nel senso che è stata una civiltà della forza e della bellezza.  Mentre il superuomo di Nietzsche sarà l'uomo del futuro, il superuomo di D'Annunzio ha un modello nel passato, nella grandezza di Roma: la bellezza è stata generata da Roma: quindi il superuomo dannunziano deve guardare al passato.
In conclusione si può dire che Nietzsche è un filosofo soprattutto distruttivo, (egli stesso sostiene di praticare una filosofia “a colpi di martello”), in cui la pars destruens ha un enorme sviluppo rispetto alla pars costruens: se vogliamo, tutti i filosofi da Socrate con il suo dubbio, per passare a Cartesio, a Kant, a Hegel, a Marx, presentano sempre da una parte un elemento di critica, una pars destruens, e dall’altra una pars costruens, una proposta, un elemento costruttivo. Direi che in Nietzsche la pars costruens è enormemente sovrasviluppata rispetto alla pars costruens. La parte distruttiva ha il sopravvento in quanto questa filosofia presenta come unico sbocco positivo l’affermazione della volontà di potenza. In questo si manifesta una notevole debolezza del pensiero di Nietzsche: per Nietzsche tutta la storia è stata una storia di progressivo annientamento della vitalità in nome di valori che sono falsi, ma tutto questo evidentemente deve essere frutto della volontà di potenza, perché se la volontà di potenza è il cuore della realtà, tutte le manifestazioni del nichilismo di cui abbiamo parlato, che ha portato all’annientamento della vita, paradossalmente per lui sono espressioni della volontà di potenza. Nietzsche è contraddittorio: tutte queste manifestazioni che sono da respingere, che hanno ammalato l’uomo, che lo hanno devitalizzato, sono essi stesse frutto della volontà di potenza.
Thomas Mann, che pure parla di Nietzsche con ammirazione e rispetto, rileva che due sono gli errori che turbano il pensiero di Nietzsche e gli diventano fatali. Il primo è un completo fraintendimento del rapporto fra istinto e intelletto, «come se quest’ultimo avesse un pericoloso predominio e non ci fosse piú tempo da perdere per salvar l’istinto dal suo prepotere. Se si pensa come nella maggior parte deglio uomini la volontà, l’istinto, l’interesse dominano e assoggettano completamente la ragione, il sentimento del giusto, allora l’opinione che si debba dominar l’intelletto con l’istinto appare qualche cosa di assurdo». Il secondo errore di Nietzsche è di «porre su un piano totalmente sbagliato il rapporto fra la vita e la morale, trattandolo come un contrasto», mentre «l’etica é bastone e sostegno della vita e l’uomo morale un vero cittadino della vita». E proseguendo la sua analisi della critica nietzschiana della morale. Thomas Mann nel saggio La filosofia di Nietzsche, apparso poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, scrive: «Quel che egli soprattutto rimprovera al cristianesimo é di aver tanto elevato l’importanza dell’individuo, cosí che non si poteva piú sacrificarlo.
Ma la specie, egli dice, si conserva solo con il sacrificio dell’individuo, e cristianesimo é principio antitetico a selezione. Il cristianesimo ha effettivamente abbassato e indebolito per secoli, fino a Nietzsche, la forza, la responsabilità, l’alto dovere di sacrificare uomini e ha impedito la nascita di quella energia della grandezza che “educando o annientando milioni di uomini mal riusciti forma l’uomo futuro e non perisce sotto il peso del dolore che essa stessa crea”. Chi ha avuto recentemente la forza di assumersi questa responsabilità? Chi si è imperdentemente attribuito quella grandezza e ha adempiuto, senza evitare, l’alto dovere di compiere ecatombi di uomini? Una marmaglia di piccoli borghesi megalomani alla cui vista Nietzsche sarebbe stato subito assalito dal piú grande accesso della sua emicrania».

 

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