ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

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Saggi per la scuola

ANTONIO GARGANO: I SOFISTI, SOCRATE, PLATONE

SOCRATE

Il primo periodo della filosofia greca, quello dei naturalisti presocratici, è rivolto al mondo esterno, all’oggettività. I presocratici si interessano della natura, e a questo loro interesse per il mondo oggettivo corrisponde nella vita pratica delle poleis greche l’osservanza di valori imposti dalla tradizione, dall’autorità: valori in qualche modo “oggettivi”, accettati in maniera dogmatica, acritica. Nella prima fase del pensiero greco, nei naturalisti presocratici, si manifesta l’attenzione per l’oggetto, per ciò che è contrapposto all’uomo, per la natura, e si manifesta una tendenza all’oggettività anche nella vita etica. I naturalisti si interessano pressoché esclusivamente della natura; solo con i sofisti si verifica una rivoluzione antropologica e l’uomo viene messo al centro della riflessione filosofica.
L’irrompere dei sofisti sulla scena introduce — abbiamo detto — la soggettività nella riflessione filosofica; non soltanto l’attenzione si sposta dall’oggetto, cioè dalla natura, al soggetto, al mondo dell’uomo, ma si pretende che si possano avere solo punti di vista soggettivi. I sofisti in fondo sono anti-filosofi, la loro dottrina è la retorica, l’arte del ben parlare; ma perché la retorica diventa per loro decisiva? Perché non c’è più verità, non c’è più un riferimento oggettivo; quello che conta sono le convinzioni personali, individuali, soggettive, e queste non hanno una possibilità di verifica, di riscontro oggettivo, quindi si possono soltanto imporre le une o le altre, e si imporranno meglio se saranno veicolate attraverso bei discorsi: la retorica, l’arte del ben parlare, l’arte della persuasione, diventa fondamentale. Ma nella fase di degenerazione della sofistica, se non basta il bel discorso, se non basta la retorica per imporre la mia convinzione, potrò far ricorso anche alla forza, e infatti nella seconda sofistica si delinea il “positivismo del potere”. La sofistica può dunque considerarsi come il momento dell’affacciarsi deciso della soggettività nel mondo della filosofia.
Le figure di Socrate e di Platone ricostituiscono l’oggettività, ricostituiscono l’orientamento dell’esistenza in base a valori oggettivi, universali, che trascendono l’individuo, ma riescono a fondare col ragionamento questi valori oggettivi, quali il bene, la virtù, il coraggio, la giustizia. I punti di riferimento dell’azione pratica sia dell’individuo sia della collettività, tanto della morale quanto della politica, vengono ricostituiti su un piano oggettivo, ma in maniera ben diversa dalla tradizione, cioè da quello che era stato il primo momento della civiltà greca. Per sintetizzare, e per dare un’immagine netta della operazione che compiono Socrate e Platone, si può dire questo: la Grecia presofistica aveva contenuti giusti, contenuti veri: giustizia, aretè, saggezza, misura nel comportarsi, lealtà, rispetto dei genitori e degli dei, insomma i valori tradizionali. I valori-guida dei Greci arcaici erano giusti, orientati al bene, ma la forma in cui questi contenuti erano veicolati e venivano imposti era sbagliata: era la forma dell’autorità, l’autorità della tradizione o della religione olimpica, comunque qualche cosa di non sottoposto a un vaglio critico. I contenuti veri di morale privata e pubblica si imponevano nella società greca attraverso una forma sbagliata, la forma dogmatica, e dogma significa verità non dimostrata, accolta in maniera acritica. I sofisti in questo quadro costituiscono un passo in avanti, ma un passo in avanti contraddittorio. Essi propongono la forma giusta, che è quella dell’argomentare, del riflettere, del ragionare. I sofisti scardinano i valori tradizionali, sottoponendo tutto a discussione. Però, pur avendo instaurato la forma giusta, cioè il ragionamento, l’argomentazione, impongono o cercano di imporre i valori sbagliati, i contenuti sbagliati, cioè quelli della soggettività, dell’arbitrio, i contenuti legati all’individuo, per cui la morale sofistica finisce con l’essere o una morale in cui il bene coincide col piacere (edonismo) o con l’utile (utilitarismo). Per riassumere: nella Grecia presofistica abbiamo contenuti giusti e forme sbagliate; nei sofisti abbiamo una forma giusta, cioè l’argomentazione, ma contenuti sbagliati, cioè contenuti di carattere arbitrario, individuale. Il grande sforzo di Socrate e di Platone è quello di trovare un modo per identificare contenuti giusti, cioè i contenuti oggettivi di verità, di bellezza, di bontà, di coraggio, di virtù, attraverso la forma giusta, che è quella della riflessione critica, del vaglio razionale. In Socrate e Platone a un contenuto oggettivo cioè universale,  deve corrispondere una forma adeguata, cioè universale (e quindi razionale).
Sulla scorta di Hegel, si possono paragonare i sofisti agli illuministi; l’illuminismo implica la fiducia nella ragione, che illumina tutte le conoscenze e tutti gli atteggiamenti umani. I sofisti hanno avuto il merito di essere i primi illuministi, cioè i primi a sostenere che tutto deve essere passato al vaglio critico della ragione. Ma questo mettere al centro la ragione avviene in maniera ambigua, facendo sfociare tutto il loro discorso nell’idea che l’uomo è la misura di tutte le cose. A questo punto si ha una dissoluzione delle certezze, dei punti di riferimento della società tradizionale greca, animata da forti ideali che avevano portato anche, ad esempio, alla vittoriosa resistenza contro i Persiani. Faccio questa premessa anche per cercare di dare l’idea dell’atmosfera in cui avviene il fatto veramente sorprendente: la condanna a morte di Socrate, su cui ci soffermeremo in seguito. La condanna di Socrate si spiega con questa atmosfera: i valori tradizionali sono crollati ad opera del tarlo critico sofistico, provocando una grave crisi, che porta alla fine dell’egemonia ateniese, e Socrate viene appunto assimilato ai sofisti. C’è in proposito una frase molto efficace nel dialogo Sofista di Platone: «Il lupo assomiglia al cane, l’animale più selvaggio assomiglia all’animale più domestico». Questa affermazione un po’ enigmatica si riferisce evidentemente a Socrate; Socrate è stato scambiato per un sofista ed è stato condannato a morte perché è stato visto soltanto l’aspetto negativo della sua opera, il fatto che seminava il dubbio. La società ateniese non si è resa conto che non era un lupo come appariva, non era un lupo come i sofisti, bensí era un cane. Vale a dire che alla sua opera corrosiva, al tarlo critico, al dubbio, faceva seguire una parte costruttiva, la maieutica, la nascita della verità dall’intimo dell’individuo. Gli Ateniesi non intesero questa seconda metà dell’opera di Socrate, ma si soffermarono sulla parte distruttiva, e quindi lo condannarono a morte scambiandolo per il peggior sofista, per colui che aveva semplicemente distrutto i valori tradizionali, che non credeva negli dei e seminava l’ateismo e la corruzione tra i giovani. Anche a noi, se non stiamo attenti, Socrate si presenterà come un lupo, cioè sembrerà semplicemente un continuatore della sofistica, mentre invece è un eroe del pensiero, che dalla sofistica cerca di trarre le armi del ragionamento, ma per rivolgerle contro la sofistica stessa, al fine di edificare la verità su nuove basi.
Il metodo, la chiave decisiva che Socrate adopera per compiere questa operazione, consiste nel mostrare l’autocontraddittorietà della sofistica. Socrate riesce a dimostrare che quanto affermano i sofisti è falso, ma non perché eserciti anch'egli un’arte del bel discorso contrapponendo buoni sentimenti e valori edificanti ai valori distruttivi e all’atteggiamento individualistico dei sofisti, perché, se avesse fatto questo, Socrate sarebbe veramente stato anch’egli un sofista. Socrate invece respinge il discorso lungo, cioè il discorso che tende a muovere gli affetti, a persuadere, e adopera piuttosto la brachilogia, come viene detto nei dialoghi di Platone, cioè il discorso breve, composto di rapide domande e risposte, che portano a far emergere la debolezza, la contraddittorietà dell’avversario. Si tratta di un’arma di ricerca della verità molto importante: Socrate non contrappone una sua verità alle presunte verità dei sofisti, ma riesce a mostrare che queste sono internamente contraddittorie, cioè che si autocancellano. Ma, se si autocancella il discorso della soggettività e dell’individualismo, evidentemente è vero il discorso opposto, cioè quello dell’oggettività e della comunità, della socialità. Faccio alcuni esempi: la sofistica arriva all’affermazione che non c’è verità, ma l’affermazione che non c’è verità è autocontraddittoria, perché l’affermazione stessa pretende di essere vera, e allora mentre come sofista dico che non c’è verità, Socrate mi dimostra che, nel momento in cui sto affermando che non c’è verità, sto pretendendo però di dire una cosa vera, e quindi ammetto l’esistenza della verità. Allo stesso modo il sofista è un relativista: tutto è relativo, ma se affermo che tutto è relativo starò pretendendo però di dire qualche cosa di assoluto, e quindi starò ammettendo che la mia affermazione ha pretese di assolutezza, quindi sto riconoscendo che esiste un assoluto. Confutando i sofisti, Socrate dimostra che esiste la verità, che esiste l’assoluto, e naturalmente a questo punto si tratta di mettersi alla ricerca della verità e dell’assoluto. Teniamo dunque presente questo quadro di connessione, ma anche, nello stesso tempo, di netta distinzione di Socrate con la sofistica.
Il fraintendimento del ruolo di Socrate emerge con chiarezza nella commedia Le nuvole di Aristofane (del 423 a.C.), dove il filosofo viene presentato come abitatore di un pensatoio sospeso tra le nuvole. Socrate vive con la testa tra le nuvole, vive in un mondo vacuo di chiacchiere, di sofismi, si direbbe oggi, cioè di discorsi sottili, ma capziosi e falsi. A questo Socrate che vive nel pensatoio tra le nuvole si rivolgono prima un padre, poi un figlio; il padre, Strepsiade, cerca rimedio contro i suoi creditori, e Socrate gli fornisce una serie di argomentazioni per liberarsi dai creditori, ma, quale rappresentante del mondo arcaico, Strepsiade è un personaggio rozzo e non riesce a impadronirsi bene dei ragionamenti che Socrate gli suggerisce. Per questo preferisce mandare il figlio, Fidippide, che è più brillante, più giovane, più sveglio, a imparare lui le tecniche di argomentazione, ma Socrate gli insegna a liberarsi dell’autorità del padre, per cui il figlio finisce con l’esautorarlo, col bastonarlo addirittura. A questo punto Strepsiade, irritato, vedendo in Socrate colui che distrugge l’autorità paterna, l’autorità degli dei, colui che insegna a rendere più forte il discorso più debole, come dirà poi Platone, distrugge il pensatoio tra le nuvole di Socrate. Quindi anche Aristofane, che era una personalità molto attenta, molto brillante dell’Atene del V secolo, presenta Socrate come il più acuto dei sofisti.
Mi sono soffermato su Le nuvole di Aristofane, perché, come sapete bene, tentare di conoscere il “vero” Socrate costituisce un problema veramente arduo: Socrate non ha lasciato niente di scritto, e quindi si pone il problema di risalire alle testimonianze indirette del suo pensiero. Come è stato detto, Socrate fu un seminatore, ha sparso semi nella cultura ateniese, e questi semi hanno fruttato in maniera diversa, in dipendenza dal terreno in cui sono caduti. Possiamo dai semi cercare di risalire al seminatore, ma essi hanno fruttificato in maniera diversa. Delle fonti del suo pensiero quattro sono le più importanti; la prima, non però in ordine di importanza, sono le commedie di Aristofane. Ma è chiaro che le commedie di Aristofane ci danno indicazioni non affidabili sulla figura di Socrate, perché Aristofane lo ha frainteso considerandolo un sofista, inoltre da artista ci metteva del suo nel descrivere una figura così singolare come quella socratica. Una seconda fonte sono i Detti memorabili di Socrate, opera di Senofonte. Senofonte era un discepolo abbastanza fedele di Socrate, ma viene accusato dalla critica di essere stato un moralista, che ha voluto lasciare un bel quadro di questo suo maestro finito così tragicamente, quindi i suoi Detti memorabili sono una raccolta di belle citazioni, che dovrebbero essere socratiche, ma vengono decisamente abbellite da Senofonte per fornire un ricordo edificante del maestro. Se quindi Aristofane sicuramente ha peggiorato Socrate e lo ha messo in ridicolo da buon commediografo, Senofonte è caduto nell’eccesso opposto, cioè ha fatto un po’ di agiografia, lo ha visto come una specie di santo ante litteram e ha cercato di descriverne l’altezza morale. Disponiamo di altre due fonti più decisive. Fondamentale è quella di Platone. Le sue opere giovanili sono i dialoghi che si chiamano appunto “socratici”, in cui è molto difficile scindere la figura di Socrate da quello che invece pensa in maniera originale Platone. Per illustrare questo problema farò solo riferimento a un aneddoto riportato da Diogene Laerzio, un autore che descrive le vite dei filosofi antichi. Egli racconta che Socrate, alla vigilia del giorno in cui gli si presentò Platone, giovane e brillante aristocratico ateniese, che intendeva accodarsi al gruppo di coloro che lo seguivano, sognò un cigno che a un certo punto spiccava il volo dal suo grembo e se ne andava in cielo liberamente. Mi pare che questo aneddoto molto bello esprima tutta la difficoltà di risalire al pensiero originale di Socrate partendo da Platone; che cosa vuol dire infatti questo aneddoto? Lo splendido cigno si trova nel grembo di Socrate, però poi spicca un volo libero: Platone è una personalità filosofica di una tale grandezza che non può evitare, negli stessi dialoghi giovanili, di descrivere il Socrate protagonista dei suoi dialoghi con tratti che vengono da lui, da Platone. Scindere Socrate da Platone è molto arduo. Riepiloghiamo: Aristofane non è affidabile perché è troppo critico, Senofonte è troppo benevolo e troppo agiografico, Platone è troppo grande per non averci messo anch’egli del suo nel descrivere Socrate come protagonista dei dialoghi.
Anche l’ultima fonte, Aristotele, è discussa. Aristotele afferma che Socrate è una pietra miliare della storia del pensiero, perché ha scoperto l’universale e l’induzione. Tutto questo è criticato dagli storici della filosofia, però ha una base di verità: Socrate sarebbe colui che ha scoperto il fatto che al di là delle singole azioni giuste c’è la giustizia, al di là dei singoli atti di coraggio c’è il coraggio, cioè avrebbe segnato la strada, che sarà poi pienamente percorsa da Platone, dell’elevazione dall’individuale, dal particolare, da quello che colpisce i sensi, all’universale. Socrate, “scopritore del concetto”, secondo Aristotele avrebbe individuato l’universalità e il metodo per raggiungerla, cioè il metodo induttivo, che è quello che va dal particolare all’universale. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un filosofo di primissima grandezza, che evidentemente ha interpretato quello che è stato il vero messaggio di Socrate. Allora, per ricostruire questo vero messaggio, non resta che cercare di considerare anche le vicende di Socrate; perciò nell’ultima parte della nostra conversazione ci soffermeremo a leggere qualche passo dell’Apologia di Socrate, cioè del discorso che egli avrebbe tenuto in sua difesa prima di essere condannato a morte, e poi a considerare il suo atteggiamento alla vigilia dell’esecuzione della condanna a morte.
Socrate rimane in gran parte un personaggio enigmatico, ma, paradossalmente, proprio per questa sua enigmaticità, finisce con l’avere un’influenza, non solo nella storia del pensiero, ma anche nella storia più generale della civiltà, talmente grande da essere stato paragonato da qualcuno a Cristo, proprio per il fatto che, pur non avendo lasciato un messaggio scritto suo proprio, ha esercitato un’influenza grandissima. L’influenza esercitata nei secoli da Socrate dipende in fondo dal fatto che egli ha diffuso come insegnamento fondamentale quello che diceva ironicamente di avere letto sul frontone del tempio di Delfi, cioè il famoso “conosci te stesso”. Il messaggio di Socrate è l’invito a riconoscere e coltivare la propria capacità di orientarsi nel mondo sulla base della propria autocoscienza. Socrate dà questo contributo alla civiltà occidentale, mentre altre civiltà sono schiacciate dall’autorità, dalla tradizione e non si risollevano mai da questo peso. Socrate dona all’uomo occidentale la centralità di se stesso: la verità c’è (al contrario di quello che dicono i sofisti), però essa scaturisce dal proprio intimo; la convinzione non può essere altro che un possesso personale, raggiungibile soltanto con lo sforzo personale, e quindi ognuno dei discepoli di Socrate è un buon socratico proprio in quanto manifesta una personalità diversa dall’altro. Aristippo e Antistene, ad esempio, dicono cose molto diverse da Platone: sono tutti e tre socratici, ma sono buoni discepoli di Socrate proprio perché sviluppano ognuno una propria personalità. Socrate ha insegnato che ognuno non deve cercare punti di riferimento esterni, non deve cercare la verità fuori di sé, bensí dentro di sé. Diventa chiaro che è stato coerente nel non scrivere, perché in fondo scrivere significa ipotizzare che si siano raggiunte verità, e che queste verità si possano andare poi ad attingere nei libri. Scrivere, per Socrate, sarebbe stato contraddittorio con l’essenza della sua dottrina: se la verità deve scaturire dall’interno dell’uomo, dare all’individuo l’appoggio esterno di un libro, che magari col passare del tempo acquista sempre più un’aura di autorità, significa dirgli: «Non preoccuparti di misurarti tu stesso con la realtà, di raffinare le tue capacità critiche, il tuo spirito di osservazione e la tua intelligenza, non ti preoccupare, perché tanto la verità sta scritta lì, nel libro. Ti puoi anche addormentare, puoi fare a meno dell’uso del tuo intelletto, tanto la verità la puoi attingere facilmente con uno sforzo esteriore». Con il suo “conosci te stesso” Socrate ci ha lasciato un messaggio perenne, che è ancora valido, ma ci mette nella difficoltà di ricostruirne la figura, per cui in fondo ognuno si ritrova il suo Socrate, perché paradossalmente ognuno si avvicina tanto più a Socrate quanto più è se stesso.
Come si metteva in moto il meccanismo di avvicinamento a se stessi? Socrate ha esercitato un metodo per rimettere ognuno sulla traccia di se stesso. Il padre dell’esistenzialismo, Kierkegaard, ha detto che Socrate è un barcaiolo, nel senso che traghetta gli individui dalla sponda dell’ottusità, dell’agire semplicemente per sentito dire, all’altra sponda, quella dell’autocoscienza, per la quale si agisce non in base al sentito dire, alle mode o alle autorità, ma perché si è convinti di quello che si fa; messo l’individuo sull’altra sponda, il barcaiolo se ne va via. Socrate cioè riesce a compiere questo prodigio: di far passare l’individuo, l’uomo occidentale, dal sonno, dall’ottusità del vivere credendo in valori mai controllati criticamente (oggi si direbbe il vivere secondo la tradizione, o secondo la moda, che sono due varianti diverse di un atteggiamento antisocratico), all’autocoscienza, alla sorveglianza critica, ma questa sorveglianza critica ognuno la deve esercitare da sé. Una volta che ha portato il passeggero sulla sponda, il barcaiolo Socrate lo lascia a se stesso nella terra dell’autocoscienza, della critica, della razionalità, che ciascuno deve esplorare da se stesso.
Come operava Socrate questo passaggio da sponda a sponda? Con un metodo, termine che, come sapete, viene dal greco odós, che significa strada. Socrate trova una strada per fare questo, insegna un metodo, che, come ogni buon metodo nella storia della filosofia, consta di una pars destruens e una pars construens. La parte distruttiva è quella che ha più colpito gli Ateniesi ed ha portato, come abbiamo detto, a identificarlo come un sofista. Se si vogliono costruire atteggiamenti giusti, proiettati verso la verità, bisogna prima distruggere la concrezione di false credenze che l’individuo si porta dentro, bisogna prima sgombrare il terreno e poi si può cominciare a costruire l’approccio alla verità. La parte distruttiva ha come sua prima manifestazione l’ironia. Questa non significa disprezzo dell’altro, implica infatti tra l’altro anche una forte autoironia di Socrate. Per dare un’idea dell’ironia socratica vorrei leggere una parte dell’Apologia di Socrate, cioè del suo discorso difensivo quale Platone ce lo ha raccontato. Socrate viene portato in tribunale con l’accusa di avere seminato la corruzione e l’ateismo tra i giovani, di indagare le cose della natura, di non credere negli dei. Egli si difende pressappoco così: «Si è sparsa la voce di una mia tracotanza, di una mia superbia, di una mia pretesa di sapere, ma in effetti tutto questo è nato dal mio amico Cherefonte, che è andato all’oracolo di Delfi e ha sorprendentemente appreso dall’oracolo che io ero l’uomo più sapiente». Procede dicendo ai suoi accusatori, ma anche al pubblico degli Ateniesi: «Voi sapete che Cherefonte fu mio amico sin da giovane, parteggiò per il vostro partito democratico, con voi condivise il recente esilio e con voi ritornò. Voi sapete come era impetuoso Cherefonte in ogni sua impresa; un giorno andò a Delfi e osò consultare l’oracolo su questo. Cittadini non borbottate. Cherefonte chiese dunque se c’era qualcuno più sapiente di me, e la Pizia [cioè la sacerdotessa portavoce del dio di Apollo] rispose che non c’era nessuno. Su ciò vi potrà dare testimonianza suo fratello qui presente, perché Cherefonte è morto». Cherefonte dunque, amico di Socrate, va a consultare l’oracolo; col riferimento alla consultazione dell’oracolo Socrate vuol dire: «Io non disprezzo la religione olimpica: mi si accusa di ateismo, ma io non voglio distruggere i vecchi valori. Cerchiamo solo di capire che cosa essi significano. Li voglio accogliere, ma ponendoli su nuove basi, quindi accetto che ci sia un oracolo, però non possiamo fermarci al vecchio atteggiamento per il quale il messaggio dell’oracolo viene accolto passivamente. Esso deve essere passato al vaglio della ragione, deve essere sottoposto ad una interpretazione razionale: l’oracolo ha detto che io sono l’uomo più sapiente, apparentemente è una cosa falsa, infondata, eppure non può avere sbagliato; ma in che senso sarà vero quello che ha detto? Devo mettermi a cercare di capire in che senso questo è vero».
«Guardate perché vi dico questo: sto per spiegarvi donde ebbe origine la calunnia. Udito il responso riflettei: che cosa vuol dire il dio, a che cosa allude? Sono consapevole di non essere sapiente né poco, né molto, che cosa vuol dire allora quando afferma che sono il più sapiente di tutti? Certo non mente perché non gli è lecito; per molto tempo restai incerto su che cosa volesse dire. Poi controvoglia mi volsi a cercarlo e mi recai da uno di quelli considerati sapienti, convinto che soltanto così avrei confutato il responso e mostrato all’oracolo:costui è più sapiente di me, ma tu dicevi che ero io”». Socrate si mette in giro, alla ricerca di qualcuno più sapiente di lui, per smentire eventualmente l’oracolo, e si imbatte prima di tutto in un uomo politico. «Esaminandolo a fondo non è necessario che ne dica il nome, basti dire che era un politico col quale, valutando e discutendo, mi successe ciò che sto per dirvi mi parve che egli sembrasse sapiente a molti altri e soprattutto a se stesso, ma che non lo fosse. Allora provai a mostrargli che credeva di essere sapiente, ma non lo era, e così diventai odioso a lui e a molti dei presenti. Allontanandomi, ragionai tra me stesso: “Di costui sono più sapiente. Forse nessuno di noi due sa nulla di bello e di buono, ma costui crede di sapere qualcosa e non sa, mentre io non so e non credo neppure di sapere, pare dunque che almeno in questa piccola cosa io sia più sapiente di lui: ciò che non so non credo neppure di saperlo. Di qui mi recai da un altro di quelli considerati ancora più sapienti e ne ricavai la stessa opinione, anche in questo caso divenni odioso a lui e a molti altri». Si inizia dunque in questo modo a diffondere l’odio per Socrate in Atene, ma quel che più importa è che qui viene fondata la famosa teoria del sapere di non sapere: Socrate non ironizza semplicemente verso l’interlocutore, ma anche verso se stesso, e si riconosce non sapiente; però, mentre l’altro ha la tracotanza di credere di sapere, pur essendo ignorante, ed è quindi doppiamente ignorante, Socrate, sapendo di non sapere, è in possesso di una certezza molto solida. Può sembrare un gioco di parole, ma in effetti con questa formula Socrate compie proprio la scoperta dell’atteggiamento filosofico: il sapere di non sapere. La filosofia greca classica, quella che appunto parte da Socrate, la filosofia rinascimentale, la filosofia classica tedesca, cioè i più alti momenti della storia della filosofia, hanno proprio questo concetto al centro: l’uomo è un essere intermedio. Socrate col ‘sapere di non sapere’ vuol dire che l’uomo è un essere intermedio tra ignoranza e sapienza, tra imperfezione e perfezione e quindi, essendo intermedio, sta al centro. Quello di Socrate è un grande discorso umanistico: l’uomo non è un animale immerso nella totale ignoranza, non è un bruto, non ha un destino segnato da meccanismi istintuali, ciechi, che deve seguire per forza nell’ottusità permanente, e non è neppure un dio onnisciente. L’uomo non è assolutamente ignorante e non è completamente sapiente, è un essere intermedio, e in questa situazione intermedia sta la sua grandezza: non essendo né ignorante, né sapiente, sa di non sapere, ma questo sapere di non sapere vuol dire che sa già qualche cosa. Quindi non è assolutamente ignorante e sta sulla strada del sapere. C’è in embrione in questa formula socratica tutta la storia della filosofia, ma anche in qualche modo della stessa civiltà occidentale: l’uomo non è un ente dato una volta per tutte come gli altri enti della natura, che obbediscono a un meccanismo a cui non possono sfuggire; l’uomo invece è perfettibile, si crea da sé, può ascendere alla consapevolezza e può diventare migliore, può progredire, e la filosofia è l’atteggiamento propriamente umano perché meglio esprime la natura intermedia e in cammino dell’uomo. La filosofia è qualche cosa di perennemente intermedio, perché significa amore del sapere, non possesso del sapere, implica una tensione continua al sapere: l’atteggiamento filosofico è l’atteggiamento propriamente umano. L’uomo è filosofo se è veramente uomo, perché appunto sa di non sapere, cioè si trova teso verso la conoscenza, verso la sapienza: non le raggiunge mai pienamente, ma vi aspira di continuo. Si apre così la strada al progresso indefinito per l’umanità, alla perfettibilità; sia il singolo individuo, sia l’umanità nel suo complesso sono perfettibili: l’uomo non è ignorante e non è assolutamente sapiente, non raggiunge mai l’onniscienza, ma si avvicina indefinitamente al sapere e alla conoscenza, quindi è filosofo nel senso che sta continuamente sulla strada, ha sempre il desiderio, l’amore del sapere, anche se non lo riesce a raggiungere mai appieno.
Il primo meccanismo del metodo di Socrate, l’ironia, consiste nello scuotere le certezze. Di fronte ad esempio a Eutifrone, che sta andando in tribunale a denunciare il padre credendo di sapere che cosa sia la pietà e la giustizia, oppure nell’incontrare lo stratega Lachete, che è sicurissimo di sapere che cosa è il coraggio, Socrate agisce ironizzando su queste loro presunte certezze e facendo crollare la sicumera, la tracotanza dei suoi interlocutori. Crollate le certezze, subentra il momento più drammatico, il dubbio, che costituisce il secondo momento della pars destruens del metodo di Socrate. Il dubbio che si ritrova nella storia della filosofia può essere di due tipi. Ci può essere un dubbio scettico o sofistico o sistematico, che è quello dei sofisti, è il dubbio che rimane fine a se stesso: si dubita perché non c’è niente di vero e si rimane in una atmosfera di incertezza; ci dobbiamo accontentare delle opinioni perché la verità non si può raggiungere. Anche i sofisti ricorrevano al dubbio, ma il loro era un dubbio scettico, cioè fondato sull’ipotesi che non c’è verità, ovvero un dubbio sistematico, nel senso che esso diventa un sistema filosofico. Gli Ateniesi sbagliarono credendo che il dubbio di Socrate fosse di quel tipo. Invece il dubbio di Socrate è metodico, cioè è una strada verso la verità. In altri termini, mentre col dubbio scettico, sistematico, si parte dal dubbio per rimanere all’interno del dubbio, col dubbio socratico, col dubbio metodico, si parte dal dubbio per arrivare alla verità: il punto d’approdo è del tutto opposto. Il meccanismo che innesta il dubbio è molto semplice, si può usare molto facilmente, e se si usa bene è efficace, mentre se si usa male è solo distruttivo: è la domanda ti èsti, che significa “che cosa è”? Socrate mette in moto il dubbio semplicemente chiedendo che cosa è quello che sta facendo l’interlocutore, e questo dà lo spunto ad Aristotele per dire che Socrate è lo scopritore del concetto; infatti chiedere: “che cosa è?” significa chiedere l’essenza di una cosa, cioè quello per cui una cosa è quello che è e si distingue dalle altre, cogliere il cuore di una cosa, la sua essenza, espressa dal concetto.
Prendo un esempio da un dialogo di Platone, l’Eutidemo. Di fronte al problema di come è giusto comportarsi Eutidemo, sollecitato da Socrate, si dice sicuro di saperlo risolvere, e cade nell’errore in cui cadono tutti coloro a cui si chiede che cosa è quello che stanno facendo: inizia a enumerare i comportamenti giusti: «Ecco, per esempio, fra i comportamenti giusti ci metteremo sicuramente il non mentire, il non ingannare e il non rubare», ed è convinto di avere detto, in questo modo, cose giustissime, di avere sbaragliato l’avversario. Socrate gli replica pressappoco: «Allora siamo d’accordo che sarà giusto non mentire. Ma se, per esempio, io sono uno stratega, sono un generale, e i miei soldati stanno subendo un rovescio militare, sono scoraggiati e rischiano di essere travolti, ma li rassicuro che stanno per giungere i rinforzi e allora essi riprendono coraggio e riescono a capovolgere le sorti della battaglia, a respingere il nemico e a salvarsi; so che i rinforzi non stanno arrivando e quindi dico una bugia, ma con questa bugia salvo la vita dei miei uomini e capovolgo le sorti di una battaglia. Ho mentito, ma ho agito bene o ho agito male? È giusto quello che ho fatto, oppure non è giusto?». Naturalmente Eutidemo deve riconoscere che è giusto, e quindi che ci possono essere casi in cui è giusto mentire. Allora egli si trincera dietro l’affermazione che sicuramente sarà giusto non ingannare. E Socrate ribatte più o meno: «Ma se sono il padre di un bambino ammalato che non vuol prendere una medicina amara e gliela mescolo con una gradevole pietanza, cosicché la prende senza accorgersene e guarisce nonostante la sua avversione per la medicina, certo, l’avrò ingannato, ma per il suo bene, quindi l’inganno in quanto tale sembra a prima vista qualche cosa di sicuramente ingiusto, ma un inganno come quello descritto non si potrà chiamare ingiustizia». Naturalmente Eutidemo deve acconsentire, ma si arrocca sul furto, e dice che rubare è sicuramente una cosa scorretta, che non si deve fare. Socrate gli porta quest’altro esempio: «Se ho un amico che è in una crisi di scoramento e sta per prendere una spada per uccidersi e io gli rubo la spada e lo salvo, poi, quando gli è passato il momento di abbattimento, gli spiego che l’ho salvato sottraendogli temporaneamente la spada, non avrò fatto bene?». Eutidemo deve accettare che questo sarà un comportamento irreprensibile. Socrate procede sempre in questo modo, quindi finisce con il seminare il dubbio, certo, ma un dubbio orientato a far prendere consapevolezza che non si può accettare un precetto a occhi chiusi, non si può dire: rassicuriamoci, ci sono questi contenuti di comportamento, come il non mentire, il non ingannare, che sono giusti. Anche nel discorso di Lachete si fanno una serie di esempi: questo generale afferma che il coraggio consiste nel gettarsi a capofitto nel pericolo, ma Socrate dimostra che quella è una forma di ignoranza, in quanto non rendersi conto del pericolo è ottusità, è temerarietà, non è coraggio. La mentalità comune si rassicura nel fatto che ci sono una serie di contenuti buoni, una serie di contenuti giusti, una serie di contenuti coraggiosi. Socrate riesce a dimostrare invece che non si può stare così tranquilli: non sono accettabili elenchi di azioni giuste o coraggiose. Ognuno di noi dovrà orientarsi con la sua capacità critica, usare la ragione vagliando le alternative, cercare l’essenza autentica delle virtù. Si tratta di acquisire anche un abito, una capacità di orientamento, una chiarezza mentale che non si possono facilmente conquistare imparando a memoria formule, oppure impadronendosi una volta per tutte di una dottrina.
La parte distruttiva del metodo comprende l’ironia e il dubbio. La parte costruttiva consiste nella maieutica. Socrate dice, scherzando su se stesso, di esercitare l’arte della maieutica, quella che realmente aveva praticato la madre, cioè l’arte della levatrice. Si paragona alla madre e afferma: «Come mia madre aiutava a venire alla luce esseri umani, aiutava i corpi a partorire, assisteva le donne gravide, io aiuto a partorire le anime degli uomini, le menti degli uomini. Il mio dialogare serve a far emergere la verità, che è già contenuta nell’individuo». Per Socrate la verità non può mai venire dall’esterno, essa è un parto interiore, è presente nell’individuo, anche se viene per lo più schiacciata dalle false opinioni. La verità viene soffocata, ma permane all’interno; Socrate non può insegnarla, ma può aiutare a farla venire alla luce, sgombrando il terreno dalle false credenze, dai falsi punti di riferimento, e facendo emergere la capacità di pensiero dell’interlocutore.
C’è in Socrate una grande fiducia nelle capacità critiche, nelle capacità di orientamento, nella ragione umana. È importante sottolineare questo aspetto, perché, arrivati a questo punto, si può pensare che, traendo tutto dall’individuo, Socrate sostenga un individualismo di tipo sofistico. Invece Hegel, nostro punto di riferimento, afferma che Socrate è un individuo cosmico-storico, è una di quelle personalità che hanno prodotto una svolta nella storia umana. Quale rivoluzione ha portato Socrate? La rivoluzione della libertà dell’autocoscienza: non sono più accettati contenuti tradizionali, dogmatici, autoritari; tutti i contenuti devono scaturire dall’interno dell’individuo. La coscienza deve attingere il vero in se stessa, questo è il messaggio socratico: «L’uomo deve pervenire alla verità per opera propria», spiega Hegel. Questo è il messaggio universale di Socrate, questa è la scoperta di Socrate. Però Hegel aggiunge: «Il vero pensiero pensa in modo che il suo contenuto non è meno soggettivo che oggettivo». Per Socrate il cogliere un contenuto con il pensiero significa cogliere un qualcosa di oggettivo, non esprimere un contenuto personale, nel senso deteriore di individuale, di arbitrario, portato di altre facoltà quali il sentimento, la passione, l’istinto. Se, abituato alla dialettica, alla maieutica socratica, uso la ragione, secondo Socrate raggiungo un elemento oggettivo, che traggo da me, perché la ragione sta in me e non è l’oracolo che devo andare a consultare a Delfi, ma è uno strumento che mi mette in contatto con l’oggettivo, con l’universale. Raggiungere un contenuto con uno sforzo personale di carattere razionale significa cogliere un contenuto di carattere universale. Viviamo invece in una situazione in cui i contenuti più arbitrari vengono proposti come modelli di esistenza e come punti di riferimento. L’insegnamento socratico è completamente opposto: i contenuti che possono riempire le nostre esistenze sono infiniti, ma i contenuti giusti sono pochi e vanno identificati sulla base dello sforzo del ragionamento, della vigilanza critica.
Socrate non ha predicato bene e razzolato male. Nell’uso della razionalità è stato coerente fino alla fine, fino a bere la cicuta. Torniamo all’Apologia: Socrate prosegue la sua indagine, e, dopo i politici, va a visitare i poeti. Anche i poeti sembrano molto sapienti per le opere che compongono, ma in effetti non sanno neppure dar bene ragione di quello che hanno scritto, in quanto frutto d’ispirazione. Eppure i poeti pensano di essere sapienti e pretendono di sapere anche quello che non sanno. Quindi sono più ignoranti di Socrate, e così pure gli artigiani, diremmo oggi i tecnici, i professionisti, che cadono in un altro errore: possiedono un sapere particolare, sanno fare bene i falegnami per esempio, sanno costruire bene le navi, ma sapendo fare bene questo si illudono di poter discettare anche su tutto il resto. E naturalmente su tutto il resto dicono stupidaggini, perché affermano cose non maturate secondo una esperienza, secondo una riflessione Anche i tecnici finiscono con l’essere più ignoranti del filosofo, cioè di colui che è consapevole della propria ignoranza.
Vorrei anche riferire le riflessioni di Socrate sulla morte, che rivelano la coerenza del suo atteggiamento razionale. Socrate afferma che bisogna aver paura di quello che si sa possa recare danno, ma rispetto a ciò che non si conosce non si può avere un atteggiamento di terrore e di fuga: «Temere la morte infatti non è altro, cittadini, che credere di essere sapiente senza esserlo e credere di sapere ciò che non si sa, perché nessuno sa se la morte non sia il maggiore di tutti i beni per l’uomo, ma tutti la temono come se sapessero con certezza che è il maggiore dei mali; e non è ignoranza questa, anzi la più biasimevole, credere di sapere ciò che non si sa? In questo forse cittadini sono differente dalla maggior parte degli uomini, questo è il punto su cui posso dire di essere più sapiente di qualcuno, che non sapendo abbastanza delle cose dell’Ade non credo neppure di saperne, so invece che commettere ingiustizie e disobbedire a chi è migliore di noi, dio o uomo, è cosa brutta e cattiva, perciò davanti ai mali che so essere mali non temerò e non fuggirò mai quelli che non so se siano anche beni. Sicché anche se ora mi assolveste, dando torto ad Anito, il quale diceva che non si doveva farmi comparire qui fin da principio, o, una volta che ero comparso, non si poteva non condannarmi a morte, perché, vi diceva, se io fossi scampato alla condanna, i vostri figli, praticando gli insegnamenti di Socrate, sarebbero stati tutti completamente corrotti, — se di fronte a ciò mi diceste: “Socrate, noi ora non ascolteremo Anito, ma ti assolveremo a patto però che tu non passi più il tempo in queste ricerche a filosofare, e se sarai sorpreso a farlo ancora morirai”. Se dunque, come ho detto, voi mi assolveste a queste condizioni, vi direi: “Ateniesi, io vi voglio molto bene, ma obbedirò al dio piuttosto che a voi, e finché avrò respiro e ne sarò capace non smetterò di filosofare, di esortarvi, di dare indicazioni a chiunque di voi incontri, dicendogli come al solito: “Ottimo tra gli uomini, tu che sei Ateniese, della città più grande e più illustre per sapienza e potenza, non ti vergogni di prenderti cura delle ricchezze per accumularne il massimo, della reputazione, degli onori, e di non curarti e preoccuparti dell’intelligenza, della verità e dell’anima perché diventi la migliore possibile?». Proseguendo nel suo discorso Socrate esorta di nuovo giovani e vecchi a non curarsi né del corpo, né delle ricchezze prima e più intensamente che dell’anima in modo che essa diventi la migliore possibile. Egli dice: «Io sono stato uno che ha curato anime, che ha fatto il levatore, l’ostetrico di anime, questo farò fino alla fine. Non datemi la grazia a condizione che io smetta di filosofare, perché smettere di filosofare non mi è possibile, in quanto la filosofia è l’essenza dell’esistenza dell’uomo». Ancora nell’Apologia è detto: «Qualcuno potrebbe forse dire: “una volta andato via da noi Socrate, non sarai capace di vivere silenzioso e tranquillo? Questo è il punto su cui è più difficile convincere alcuni di voi, se dico che questo significa disobbedire al dio e che perciò è impossibile che io stia tranquillo, voi non mi crederete, come se facessi ironia, se invece dico che il bene massimo per l’uomo è il discorrere ogni giorno della virtù e delle altre questioni su cui mi sentite discutere esaminando me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta, crederete ancora meno a queste mie parole». Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta: l’uomo è per sua natura animato dall’intelligenza, se all’uomo non è permesso conoscere, ragionare e discutere, la vita sua non è vita umana, è vita vegetativa. Di nuovo a proposito della morte c’è nell’Apologia un brano molto bello in cui si dice: «La morte o consiste in un sonno senza sogni o è continuazione della coscienza». Nel primo caso è paragonabile all’oblio totale di sé, e Socrate dice di non ricordare notti più piacevoli di quelle in cui non ha sognato niente e si è risvegliato nella piena inconsapevolezza di quanto gli era passato nella mente durante la notte. «Quindi se la morte è la perdita totale della coscienza, cioè io non sono più io, allora è la cosa più bella che mi è capitata e non mi fa paura. Se invece continuo a rimanere me stesso, allora anche gli altri saranno rimasti loro stessi, quindi io nell’Ade mi troverò molto meglio che qui, perché qui posso parlare con voi che siete persone intelligenti, Ateniesi, cittadini della città più civile del mondo, ma nell’Ade incontrerò Omero, Esiodo, i grandi poeti, i grandi condottieri del passato e quindi lì potrò discutere, cioè potrò continuare ad esercitare l’arte del dialogo, con tutti i grandi delle generazioni precedenti. Se non rimango me stesso non mi importa della morte, e se rimango me stesso, come gli altri, con cui continuerò a dialogare, non mi fa paura la morte e accetto la condanna».
Vengo ora all’ultima parte della vicenda di Socrate, ricostruita nel discorso del Critone, cioè il dialogo intitolato da Platone col nome di questo discepolo (e pare quasi coetaneo) di Socrate. Pronunciata la condanna, Socrate deve bere la cicuta. Ma egli ha settanta anni e la condanna a morte è stata decisa con una piccola minoranza di voti; c’è chi è disposto a chiudere un occhio, e Critone ha trovato il modo di corrompere i carcerieri: Socrate potrebbe lasciare facilmente la prigione. In questo famoso dialogo Critone va da Socrate, a dirgli che il giorno dopo la condanna verrà eseguita (era stata sospesa perché si era in un periodo durante il quale per motivi religiosi non si potevano eseguire le condanne a morte e quel periodo stava finendo). Critone cerca di muovere gli affetti di Socrate ricordandogli i figli, anzi fa leva su tutte le possibili corde perché accetti di fuggire dal carcere. E arriva a dire: «Se tu non fuggi, noi, i tuoi amici più fraterni, saremo rimproverati per non aver voluto sborsare il danaro per farti uscire, faremo una gran brutta figura». Cerca proprio di trovare tutti gli argomenti per indurre Socrate a uscire dal carcere e a salvarsi, ma non ci riesce.
La morte di Socrate è un fatto di una gravità enorme, perché implica che l’uomo che usa la ragione, cioè il filosofo per eccellenza, è rifiutato dalla comunità, la polis non lo accetta, non c’è la fa a sopportarlo e se ne libera nella maniera più violenta, condannandolo a morte. La morte di Socrate significa una sorta di divorzio, di separazione netta, di frattura, tra l’uso della ragione e la società. Di fronte a questo gravissimo evento alcuni seguaci di Socrate prenderanno la via della fuga, come i cinici, come Diogene il quale si apparterà dalla comunità. L’altra soluzione, esattamente opposta, è quella di Platone: la vita umana è vita di comunità, ma la vita della comunità deve essere regolata dalla ragione. La soluzione di Platone sarà non soltanto che il filosofo resta nella città, ma deve restare come sovrano della città: i filosofi devono diventare i reggitori dello Stato.
Come reagisce Socrate alla condanna da parte dei suoi concittadini? L’epilogo della vita di Socrate è veramente un fatto su cui riflettere, perché lo scopritore dell’autocoscienza viene condannato a morte non soltanto mentre è innocente, ma essendo convinto di avere fatto del bene alla città. I processi in Grecia si dividevano in due parti: nella prima si perveniva alla condanna o all’assoluzione. Poi c’era una seconda parte, in cui si stabiliva quale pena dovesse avere il condannato. Socrate viene condannato di stretta misura. A questo punto c’era da decidere se comminargli la morte o altre pene, e come condannato poteva scegliere di proporne una. Socrate dice di poter proporre al massimo una piccola multa: è povero, ma gli amici gli darebbero un aiuto. Però non propone neppure questo. E invece fa un discorso in cui afferma: «Sono stato come un tafano, un insetto che punge un animale sonnacchioso», paragonando la città a un cavallo generoso, ma un po’ assonnato. «Io sono stato l’insetto che vi ha tenuto svegli, se me ne vado, voi vi addormenterete e finirete nell’ottusità. Sono stato un dono del dio alla città, quindi, semmai, mi dovreste dare una pensione — come si direbbe oggi — mi dovreste ospitare nel Pritaneo. Come pena propongo dunque di essere onorato come chi ha reso un alto servigio alla città». Socrate è pienamente consapevole non solo di essere innocente, ma anche di aver reso un grandissimo servigio alla città, cioè di aver aperto le menti di tanti giovani alla consapevolezza. Allora perché accetta di rimanere nel carcere e addirittura di bere la cicuta? Va rilevato che questo tipo di condanna capitale implicava che il condannato dovesse personalmente infliggersi la morte, bevendo questo veleno potentissimo.
Socrate: «Caro Critone, il tuo zelo vale molto se accompagnato da una certa correttezza, altrimenti, quanto più è grande, tanto più mi è grave. Bisogna esaminare se dobbiamo fare o no ciò che tu dici — cioè fuggire — perché io non ora per la prima volta, ma sempre sono stato tale da prestare ascolto a niente altro di me, che alla ragione, la quale calcolando [cioè vagliando il bene e il male], mi è parsa la migliore». Il ragionamento è pressappoco questo: «Di tutte le componenti della mia personalità ho sempre seguito la ragione, e adesso non mi posso mettere a seguire le altre voci. Allora, se la ragione mi dirà che è bene fuggire, fuggirò, ma se la ragione, contro il mio istinto vitale, che è l’istinto più forte, mi dirà che devo rimanere, resterò e accetterò la condanna a morte. Non posso, ora, ripudiare i ragionamenti che facevo in passato, neppure se questo comporta il dover affrontare la morte». Riprende il discorso che Critone ha fatto sulle opinioni dicendo: «Riprendendo prima di tutto il discorso che hai fatto sulle opinioni, dicevamo bene o no, in passato, che ad alcune opinioni bisogna prestar mente e ad altre no?». Il discorso di Socrate è questo: le opinioni sono tante, ma non tutte sono equivalenti, pertanto esse devono essere comparate tra di loro e quella che la ragione indica come più giusta va seguita. Le opinioni non sono tutte equivalenti, quindi ad alcune bisogna prestar mente, ed altre no. «O questo era ben detto prima che dovessi morire, mentre ora è diventato chiaro che si parlava per parlare ed era veramente un gioco di bambini [cioè non abbiamo fatto i filosofi così, perché discettavamo del mondo: noi parlavamo di noi stessi]. Desidero esaminare con te, Critone, se quel ragionamento sembrerà diverso ora che sono in questa situazione o lo stesso, e se quindi lo lasceremo andare o l’ascolteremo. Quelli che credono di dire qualcosa hanno sempre detto, mi pare, ciò che ho detto poco fa, cioè che delle opinioni umane bisogna apprezzarne molto alcune e per nulla altre; questo, Critone, non ti pare ben detto? Umanamente parlando tu sei almeno fuori dal pericolo di dover morire domani e la disgrazia presente non ti dovrebbe dunque influenzare. Osserva allora: non ti sembra ben detto che non bisogna apprezzare tutte le opinioni degli uomini, ma alcune sì e altre no, e neppure di tutti gli uomini, ma di alcuni sì e di altri no? che dici non è ben detto?». Critone risponde che è ben detto. «E che bisogna apprezzare le buone opinioni e non le cattive, e buone sono quelle dei saggi e cattive quelle degli stolti?». «Come no». «E come si diceva in questa altra questione? Un uomo che si dedica alla ginnastica e la sta praticando, presta attenzione alla lode e al biasimo e all’opinione di ogni uomo, o soltanto di colui che è medico o maestro di ginnastica?». Critone: «Soltanto di questo». «Dunque deve temere i biasimi e fare buona accoglienza alle lodi di questo solo, non dei più. Egli deve dunque comportarsi, cioè fare ginnastica, mangiare e bere, nel modo che sembrerà a quell’unico che è un competente intenditore, e non nel modo che sembrerà a tutti gli altri insieme, è così? E chi non ascolta quello solo e disprezza la sua opinione, le sue lodi e apprezza invece quelle dei più, anche se non sono affatto competenti, non ne subirà qualche danno?». Questo è un tipico ragionamento socratico: si fa cioè una piccola digressione e si concorda sul fatto che non bisogna accettare l’opinione dei più (se vogliamo, è contro il principio di maggioranza bruto, che è sempre ottuso, perché la maggioranza può anche volere l’errore, la distruzione, la morte, o, più semplicemente, scempiaggini). Allora non si dovrà accettare l’opinione dei più; se ci troveremo di fronte a un problema di buona crescita o di buona cura del corpo staremo a sentire l’opinione dei più o l’opinione del maestro di ginnastica e del medico? È ovvio che ascolteremo il medico e il maestro di ginnastica. Il discorso prosegue: qui si tratta non del bene del corpo, che è secondario, ma del bene dell’anima; dobbiamo fare adesso quello che ci dicono i più, oppure quello che implicano la giustizia e la coerenza con se stessi? E la coerenza e la giustizia implicheranno che si debba accettare la condanna a morte. Perciò Socrate riprende: «Allora guarda. Se ce ne andiamo di qui contro il volere della città, facciamo male a qualcuno, e precisamente a chi meno si dovrebbe, o no? E ci atteniamo a ciò che abbiamo riconosciuto giusto o no?». Critone: «Non so rispondere alla tua domanda, Socrate, perché non capisco». Socrate: «Allora considera la cosa così: se mentre siamo sul punto di scappare di qui arrivassero le leggi e l’insieme della città, si fermassero davanti e dicessero: “Dicci, Socrate, che cosa hai in mente di fare? Con questa azione a cui ti accingi non pensi forse di distruggere noi, le leggi, e l’intera città per quanto sta in te? Credi che possa ancora esistere e non essere sovvertita quella città in cui le sentenze pronunciate non hanno forza, anzi sono rese inefficaci e distrutte da privati cittadini?. Che cosa risponderemmo, Critone, a queste e altri simili parole? Molte cose si potrebbero dire, soprattutto da parte di un retore, in difesa di questa legge infranta, la quale prescrive che le sentenze pronunciate abbiamo vigore. Risponderemo ad essi che la città ci ha fatto ingiustizia e non ha sentenziato rettamente? Risponderemo questo o che cosa?». Critone: «Questo, per Zeus! Socrate». Si solleva questo problema: se me ne vado contravvengo a una legge; quale legge? La legge per cui la sentenza che è stata emessa deve essere anche eseguita. Sono stato condannato a morte ingiustamente, ma secondo legge, e c’è inoltre una legge che implica che le sentenze devono essere efficaci; devo dunque bere la cicuta, se non bevo la cicuta il risultato significativo non è che mi salvo la pelle, ma è che offendo le leggi. Ma le leggi che cosa sono? Le leggi sono la stessa città, perché la città, la polis, che equivale allo Stato, si fonda sulle leggi; la convivenza tra gli uomini è possibile per il fatto che è regolata da leggi, senza le leggi esiste semplicemente — scusate il gioco di parole — la legge della giungla, la sopraffazione reciproca. La comunità è possibile esclusivamente sulla base della regolamentazione dei rapporti fra i suoi membri, in base a norme che devono essere rispettate da tutti: nel momento in cui infrango la legge, io, Socrate, di fatto ripudio la città, ripudio la comunità. Questo è il ragionamento importantissimo che fa Socrate: «E che cosa risponderemmo se le leggi dicessero: “Socrate, ci siamo accordati anche in questo, tu e noi, o piuttosto di attenerci alle sentenze pronunciate dalla città?”. Se ci meravigliassimo delle loro parole forse risponderebbero: “Socrate non meravigliarti delle nostre parole, ma rispondi: anche tu sei solito servirti del domandare e rispondere. Che cosa hai da rimproverare a noi e alla città per cercare di distruggerci? Prima di tutto, non siamo noi che ti abbiamo fatto nascere? Non è per mezzo nostro che tuo padre sposò tua madre e ti generò? Rispondi dunque: a quelle leggi tra noi che regolano i matrimoni rimproveri di non essere buone?. “Non rimprovero nulla, risponderei”. “E a quelle che regolano l’allevamento e l’educazione dei figli in cui anche tu sei stato educato? Le leggi dirette a questo scopo non hanno disposto bene, prescrivendo a tuo padre di educarti nella tecnica delle Muse e nella ginnastica?”. “Bene, risponderei”. “Sia, ma poiché sei nato e sei stato allevato ed educato, potresti dire in primo luogo di non essere nostro figlio e nostro servo tu e i tuoi progenitori? Se è così, credi che tra te e noi i diritti siano uguali, e che tu hai il diritto di ricambiare qualsiasi cosa noi tentiamo di farti? O mentre di fronte a tuo padre o al tuo padrone, se ne avevi uno, il tuo diritto non era uguale a loro, non avevi cioè il diritto di ricambiare i mali che ne subivi e di ribattere se oltraggiato e percuotere se percosso o altre cose simili: di fronte alla patria e alle leggi, invece, questo ti sarà permesso, per cui se noi tentiamo di mandarti a morte ritenendolo giusto, cercherai in cambio, per quanto ti è possibile, di mandare a morte noi, le leggi e la patria, e dirai che facendo questo agisci giustamente, tu che pratichi veramente la virtù?”». Qual è il ragionamento di Socrate? Sono nato perché c’erano leggi che regolavano il matrimonio, altrimenti non sarei venuto alla luce; sono stato allevato grazie a leggi che tutelavano l’educazione dei bambini; ho potuto sopravvivere perché c’erano leggi che garantivano la giustizia, la sicurezza, ecc. Per tutta la mia vita ho accettato le leggi: «Non me ne sono andato —  dice — non sono emigrato, né ho cercato di persuadere la città a fare leggi migliori, quindi le ho accettate; ora non posso, nell’unico momento in cui le leggi non sono a mio favore, non rispettare questo patto e distruggere le leggi, dare questo esempio così nefasto  perché così mi conviene. La mia convenienza infatti non conta, quello che conta è la legge come garanzia della comunità». Questo fa capire molto meglio tutto il discorso precedente: Socrate incentra tutto sulla coscienza, ma la coscienza individuale entra in contatto con contenuti oggettivi, con contenuti talmente oggettivi che l’individuo, anche in base all’istinto più profondo che ha, quello di sopravvivenza, non si può ragionevolmente contrapporre a essi; tra questi contenuti che la ragione riconosce ci sono anche le leggi che rendono possibile la comunità.
Tutto ciò implica da parte di Socrate una concezione del potere e dello Stato opposta rispetto a quella dei sofisti e molto importante. Per i sofisti viene prima l’individuo e poi lo Stato: l’individuo fa nascere lo Stato per una sorta di contratto che gli individui stipulano tra di loro, accordandosi perché ci siano regolamenti, leggi. I sofisti sono contrattualisti: gli individui, accordandosi tra di loro, creano regolamenti per vivere rispettandosi reciprocamente. In questa concezione dei sofisti c’è un fondamento soggettivo: la legge nasce dall’accordo degli individui, se l’individuo è in disaccordo, in casi estremi si sottrae anche alla legge. La concezione socratica invece è una concezione per cui lo Stato, cioè la polis, la patria, come egli dice, viene prima degli individui, perché l’universale viene prima del particolare; l’individuo si deve adeguare all’universale, non può sopprimere l’universale o sostituirsi ad esso: non c’è un contratto fra gli individui che dà luogo alle leggi, ma il singolo cittadino ha un contratto con le leggi, che non a caso sono personificate nel racconto di Socrate. Le leggi sono lo Stato organizzato, che è precedente a lui e che gli ha permesso di nascere. Esse costituiscono la vita stessa della comunità, la quale si è data determinate forme di convivenza, che precedono il singolo individuo. Il filosofo, anche con il suo spirito critico, non può sopprimere arbitrariamente, e meno che mai per un interesse personale, quello che è il retaggio della vita associata, cioè le leggi. Esse hanno una maestà infinitamente superiore, vengono prima di lui; egli non le ha fatte nascere, ma sono le leggi che hanno fatto nascere lui. È un ragionamento molto importante; oggi predomina una tendenza soggettivista che vede lo Stato come secondario rispetto all’individuo, invece lo Stato è precedente dal punto di vista logico rispetto all’individuo.
Socrate: « “Osserva, dunque”, potrebbero continuare le leggi: “Se è vero ciò che diciamo, cioè che non è giusto ciò che ora cerchi di farci, noi che ti abbiamo generato, allevato, educato, che abbiamo partecipato a te e a tutti gli altri cittadini tutti i beni di cui disponevamo, tuttavia dichiariamo di avere dato a chiunque degli Ateniesi lo desideri, in quanto è nato ed è iscritto come cittadino, e conosca le faccende della città e noi leggi, la possibilità, se non siamo di suo gradimento, di prendere le proprie cose e andarsene dove vuole. Nessuna di noi leggi ostacola o vieta a chi di voi vuole andare nelle colonie di farlo, se noi nella città non siamo di suo gradimento, o di risiedere in qualche paese straniero, o di andare dove vuole con le proprie cose; ma chi di voi rimane qui e vede il modo con cui pronunciamo le sentenze, amministriamo la città nel resto, costui di fatto ormai ci ha dato il consenso che farà ciò che noi ordiniamo, e se egli non obbedisce commette ingiustizia in tre modi: primo, perché disobbedisce a noi che lo abbiamo generato; secondo, perché disobbedisce a noi che lo abbiamo allevato; terzo, perché dopo aver consentito a obbedirci, né obbedisce, né cerca di persuaderci se non facciamo bene qualche cosa [le leggi sono cioè perfettibili se uno le persuade, cioè persuade la polis]. Infatti noi proponiamo e non imponiamo rudemente di fare ciò che comandiamo, ma lasciamo la scelta di una delle due cose, o di persuaderci, o di eseguire, mentre egli non fa né una cosa, né l’altra. Socrate, obbedisci a noi che ti abbiamo allevato e non apprezzare i figli, la vita, ogni altra cosa più della giustizia, affinché giunto nell’Ade tu possa dire tutto questo in tua difesa a quelli che comandano laggiù; come qui lo scappare non sembra meglio, né più giusto, né più santo, né per te, né per nessun altro dei tuoi, così non sarà meglio neppure là una volta che tu vi sia giunto”». Socrate, secondo me, non si vuol riferire alle leggi dell’Ade, né crede di trovare qualche giudice ultraterreno; qui c’è un concetto più profondo: le leggi dello Stato sono la continuazione delle leggi stesse della natura; il mondo è un cosmo, cosmo significa tutto ordinato: se si viola l’ordine nelle leggi umane è come se si violasse un ordine cosmico, il che costituirebbe il classico peccato di ybris, di tracotanza, di prepotenza individuale. «Ora te ne vai, se consenti, dopo aver subito ingiustizia, non da noi leggi, ma dagli uomini, [cioè: se offendi noi leggi ti allontani dal consesso umano, non ti sottrai solo alla legge]. Se fuggirai così vergognosamente, ricambiando ingiustizia con ingiustizia e male con male, violando i patti e gli accordi assunti con noi e facendo male a coloro a cui meno dovresti, cioè a te stesso, agli amici, alla patria e a noi, finché vivrai noi ti perseguiteremo e laggiù le nostre sorelle, le leggi dell’Ade, non ti accoglieranno benevolmente, sapendo che per quanto sta in te hai cercato di distruggere anche noi. Non lasciarti convincere ad assecondare le proposte di Critone più che noi».
Critone a questo punto si arrende, e Socrate il giorno dopo beve la cicuta e muore. È un fatto molto significativo che il filosofo della critica incentrata sull’uso delle facoltà razionali dell’individuo proprio sulla base di queste facoltà razionali identifichi non solamente un universale astratto, il bene, il vero, ma un universale concreto nelle leggi dello Stato, e le accetti al punto da bere egli stesso la cicuta pur potendo sottrarsi a questo; mi sembra che senza questo epilogo la figura di Socrate potrebbe dare adito a interpretazioni ancora soggettivistiche, ma dopo che accetta questo tipo di morte apre veramente la strada a Platone, cioè alla nuova fondazione dell’oggettività.
È importante riferirsi a un “universale concreto”, perché tra legge e giustizia ci può essere una differenza, cioè ci possono essere leggi ingiuste; ma non è un caso che Socrate usi quella parola che abbiamo letto alla fine del Critone, cioè ‘persuasione’. Le leggi gli dicono: “Tu non ci hai persuaso a migliorarci”. Infatti le leggi possono essere lontane dalla giustizia e quindi possono essere migliorate, ma solo se, appunto, per migliorarle si accettano quali sono, quali si presentano storicamente determinate. In quella frase che insegnamento si può cogliere? A meno di ipotizzare che sull’esempio di Socrate si debba accettare qualsiasi martirio da parte di qualsiasi Stato, sia pure ingiusto, bisogna cogliere invece questo messaggio: che le leggi dello Stato possono essere lontane dalla giustizia, e allora il compito del cittadino sarà quello di farle progredire verso la giustizia. La giustizia è l’ideale delle leggi, quindi se le leggi sono troppo distanti da essa il mio compito sarà quello di farle progredire verso la giustizia; ma la giustizia che cosa è? È uno dei grandi ideali universali. Allora l’antagonismo rispetto alle leggi sarà possibile? Sì, secondo l’insegnamento di Socrate, ma soltanto da un punto di vista più universale, più vicino all’universale, non da un punto di vista più particolare. In altri termini, se sono Socrate nella cella alla vigilia dell’esecuzione della condanna a morte non posso fuggire. Ed egli giustamente non fugge, perché altrimenti farebbe prevalere un principio individuale di utilità personale contro un principio più universale incarnato dalle leggi finora accettate. Posso criticare le leggi, ma le posso criticare soltanto da un punto di vista più universale. Faccio un esempio molto banale; di fronte a una legge fiscale ingiusta l’atteggiamento giusto, socratico, non è quello di dire: “Non pago le tasse, faccio l’evasore fiscale”. Se la legge fiscale è ingiusta, non posso contrappormi ad essa sulla base della mia individualità, bensí operando perché diventi più equa. La legge è sottoponibile a critica, ma solo da un punto di vista più universale di quello che essa incarna. È opportuna la presenza all’interno della comunità di una forza che faccia emergere una maggiore universalità: questa forza è data dalla filosofia. Ma la filosofia è stata espulsa dalla polis con la condanna a morte di Socrate. Si è aperto un grave problema che sarà affrontato da Platone.

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