ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

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Saggi per la scuola

ANTONIO GARGANO

L'Umanesimo italiano


Il grande apporto della filosofia greca alla civiltà si può condensare nel concetto di logos, che segnala l’omogeneità tra la razionalità implicita nella realtà, nelle cose, nella natura e la razionalità propria della mente, dell’intelletto dell’uomo: tra l’oggetto e il soggetto, tra la natura e la mente umana ci sono elementi in comune. La razionalità presente nella natura si rispecchia nella razionalità dell’uomo; di conseguenza l’uomo può conoscere la natura e, con la tecnica, può dominarla. Questo è il grande patrimonio che la Grecia ci ha lasciato e senza il quale la civiltà europea occidentale e la civiltà mondiale stessa non sarebbero quali sono. Qual è il nuovo problema che ci porta l’età moderna? Si può dire che sia quello che riguarda l’altra metà dell’uomo. Nella storia della filosofia l’uomo tradizionalmente è diviso tra conoscenza ed azione, teoria e prassi. La Grecia ha dato un contributo decisivo alla teoria; la parola “teoria” è appunto di origine greca. I Greci ci hanno insegnato che la mente è perfettamente in grado di capire la realtà, che è logica, razionale. I Greci quindi ci hanno dato il contributo della teoria. Per i piú grandi filosofi greci l’ideale supremo era un ideale di carattere conoscitivo. Il motto di Socrate era: “Conosci te stesso”. Per Platone l’ideale cui l’uomo deve tendere è la contemplazione delle idee. In Aristotele non soltanto l’uomo deve aspirare al conoscere come supremo ideale, ma Dio stesso è pensiero di pensiero. Nei tre filosofi classici greci il fine dell’uomo in un modo o nell’altro è il conoscere. Che cosa succede per cui si apre il problema della pratica, dell’agire dell’uomo, che viene messo a punto nell’età moderna?
Tra i Greci ed i moderni ci sono Roma e il Cristianesimo. Il grande patrimonio che Roma ha lasciato all’umanità è il diritto. Nessun altro popolo è stato capace di coordinare i rapporti pratici tra gli uomini come il popolo romano. Roma ha creato una grandiosa civiltà del diritto: tutte le azioni umane, tutti i rapporti umani, sono regolati da leggi che hanno una loro coerenza, hanno un loro fondamento ragionevole. Questo patrimonio ci è stato tramandato grazie al grande lavoro dei giuristi che hanno messo insieme l’enorme raccolta del Corpus juris civilis promosso da Giustiniano (482-565). Dai Romani ci è venuto dunque l’ordinamento dei rapporti pratici. Il problema dell’azione viene posto dal Cristianesimo. Il virtuoso greco aveva come compito quello di contemplare, invece il Cristianesimo introduce la carità, la charitas, il doversi prodigare per il prossimo, il doversi guadagnare la salvezza eterna e per guadagnarsi la salvezza bisogna agire, bisogna compiere opere buone. Per il Cristianesimo è fondamentale il problema della salvezza, per salvarci dobbiamo agire bene. Viene investito in maniera centrale il problema dell’operare, della pratica, dell’agire virtuoso.
L’influenza del Cristianesimo nell’accentuazione dell’importanza della pratica, recepita dall’Umanesimo italiano, è riassunta da Eugenio Garin con una espressione molto incisiva. Eugenio Garin, nel suo celebre libro L’Umanesimo italiano, dice che fu Assisi a vincere nella lotta tra le varie correnti medievali e a dare l’impulso all’Umanesimo italiano. Che cosa vuol dire che fu Assisi a vincere? La spiritualità francescana per la quale non c’è un netto distacco tra l’uomo e Dio (basti pensare al Cantico delle creature: tutta la natura è animata dalla presenza della divinità, siamo affratellati a tutte le cose), dà una spinta verso una religiosità di tipo immanentistico, per la quale non bisogna rinnegare la natura. La cultura umanistica alla base del Rinascimento implica una forte rivendicazione della bellezza, dell’armonia della natura, che è parte dell’uomo. Questo non deve allontanarsi dalla natura e dalla corporeità per realizzare se stesso, anzi si può realizzare meglio proprio tenendo presente di essere anche corpo: è anche materia e non solo anima. Inoltre nella filosofia francescana si presenta il concetto di volontà, estraneo al mondo greco, un concetto nuovo, che si ritrova nell’Umanesimo civile. Il problema della pratica percorre tutta la civiltà moderna. Consideriamo ora questo primo deciso spostamento sul terreno dell’azione da parte dell’Umanesimo.
La parola “Umanesimo” ha avuto una grande fortuna. Essa indica un fenomeno storico circoscritto, preciso, ma ha anche un significato piú ampio, si parla infatti di “Umanesimo perenne”. C’è un Umanesimo classico, senza aggettivi, che ha le sue radici in Terenzio, il commediografo romano, il quale, in una formula ripresa da Cicerone, esprime l’essenza dell’Umanesimo perenne: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, “sono uomo e non considero niente di umano estraneo a me”, faccio parte della stirpe umana, tutto quello che è umano mi appartiene. A partire da questa celebre affermazione sono state elaborate varie posizioni filosofiche, visioni del mondo che mettono l’uomo al centro della realtà e che si possono in qualche modo fregiare del titolo di umanista. Per esempio in tempi recenti si è parlato di Umanesimo liberale, di Umanesimo socialista, e Jean Paul Sartre ha parlato di un Umanesimo esistenziale. Si usa quindi la parola Umanesimo in un senso che va al di là dei suoi confini storici.
Proviamo invece a concentrarci su quello che è l’Umanesimo storicamente considerato. Anche qui nascono problemi. In proposito è opportuno considerare le posizioni di due grandi interpreti dell’Umanesimo, Paul Oskar Kristeller ed Eugenio Garin. L’Umanesimo storicamente inteso è un fenomeno che inizia verso la fine del ‘300 e prosegue per tutto il ‘400, con una linea di separazione precisa: intorno al 1450 finisce l’Umanesimo civile, quello di Coluccio Salutati, di Leonardo Bruni, di Matteo Palmieri, l’Umanesimo impegnato nella vita civile fiorentina, e si sviluppa un Umanesimo di corte, che si impregna fortemente di teorie platoniche e ha come massimi rappresentanti Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Possiamo dire che l’Umanesimo è un fenomeno essenzialmente quattrocentesco, che nella prima metà del secolo, fino al 1450, è Umanesimo civile, legato alla Libertas florentina. Dopo il 1450 nasce un Umanesimo legato soprattutto alla corte dei Medici, impregnato di neoplatonismo. Questa svolta si spiega anche col fatto che nel 1453 Costantinopoli cade in mano ai Turchi e molti dotti di lingua greca emigrano da Costantinopoli, dalle terre bizantine, in Italia e insegnano il greco agli umanisti italiani. Nel 1468 Marsilio Ficino completa la traduzione dei Dialoghi di Platone, poi volge in latino anche l’opera di Plotino e di altri neoplatonici. Alla fine del ‘400 l’Umanesimo innesca la civiltà rinascimentale. Qual è la differenza tra Umanesimo e Rinascimento? L’Umanesimo è la ripresa della civiltà classica sulla base delle humanae litterae. Le humanae litterae non sono altro che le opere della letteratura latina al cui studio si dedicano gli uomini di cultura del ‘400, mentre il Medioevo si era concentrato sulle sacrae litterae, sulle Sacre Scritture. L’Umanesimo è quindi un fenomeno di letterati, di persone colte e di filosofi, invece il Rinascimento è la ripresa di tutta la civiltà nel suo complesso, ripresa che è stata messa in moto dal ritorno al momento di maggiore fulgore dell’uomo, al momento della civiltà greco-latina. Dopo la spinta dell’Umanesimo, dopo il ritorno agli antichi indotto dall’Umanesimo, il Rinascimento sboccia come civiltà complessiva, di cui fanno parte anche Leonardo, Michelangelo, Brunelleschi, Ariosto, Machiavelli, pittori, scultori, architetti, poeti, scienziati: non si tratta di un fenomeno letterario o filosofico, ma di un fenomeno di civiltà complessiva. Riepiloghiamo ancora. Il '400, secolo dell’Umanesimo, come fenomeno di ripresa delle lettere latine e in parte greche, che ispirano un ritorno all’antico. Questo ritorno all’antico fiorisce pienamente nel ‘500 come Rinascimento, appunto come nuova nascita. L’umanità sbocciata in Atene e Roma, torna, dopo i secoli bui del Medioevo, a nascere di nuovo. A questo punto è opportuno affrontare le grandi discussioni su qual è l’essenza dell’Umanesimo italiano del ‘400, attraverso le posizioni di Paul Oskar Kristeller ed Eugenio Garin.
Kristeller sostiene che bisogna vedere l’Umanesimo come un fatto circoscritto, tecnico: la ripresa di testi antichi da parte di letterati che si sono poi cimentati a rimetterli filologicamente in ordine. Kristeller sostiene che l’Umanesimo è un fenomeno letterario molto importante, ha dato luogo alla nascita della filologia, ma non ha molto di filosofico. In Il pensiero italiano del Rinascimento egli scrive: «L’Umanesimo fu in fondo un movimento culturale letterario ed erudito […]. Alcuni storici cominciano il Rinascimento col Cinquecento, altri col Quattrocento, altri vanno ancora piú indietro, ed il loro concetto del periodo sarà diverso secondo questi assunti cronologi […]. Io preferisco usare la definizione piú larga dell’Umanesimo e di estenderlo press’a poco dal 1280 al 1600, e di trattare come primo Umanesimo tutto il periodo che va dal tardo Dugento alla fine del Quattrocento». Non è un caso che Kristeller, che vede l’Umanesimo come un fatto erudito e tecnico, finisca con l’ampliare moltissimo le dimensioni cronologiche dell’Umanesimo, dal 1280 al 1600. Kristeller sostiene che gli umanisti sono coloro che si dedicano allo studio dei testi latini e cercano di ripristinarli nelle loro redazioni originarie. Ma questo aveva cominciato a farlo già Petrarca. Se si riduce l’Umanesimo all’amore per il testo antico - rileva Garin - si può risalire ancora piú indietro, invece l’Umanesimo non è semplicemente lo studio dei classici, ma è uno spirito diverso, è un atteggiamento diverso con cui si leggono i classici. Garin critica la affermazione del grande apologista cristiano Tertulliano secondo cui il Cristianesimo ha sostituito il portico di Atene con i templi di Gerusalemme. Una visione tradizionale è questa: la cultura greco-latina fu soppiantata dalla cultura cristiana. I portici di Atene, sotto i quali discutevano i filosofi greci, furono dimenticati e gli intellettuali nel Medioevo si rivolsero ai templi di Gerusalemme. Secondo Tertulliano, Gerusalemme ha sostituito Atene, invece Eugenio Garin dimostra che Atene e Roma erano ben presenti in tutto il Medioevo: i classici latini sono stati letti durante tutto il corso del Medioevo. Petrarca pare sia morto con un codice di Virgilio tra le mani. Il Medioevo non ha certo ignorato i classici latini. Scrive Garin: «Se vogliamo far coincidere l’Umanesimo con la lettura dei classici latini, dobbiamo anticiparlo addirittura ancora prima del 1280 e ci facciamo entrare dentro pure tutto il Medioevo». Continuiamo a seguire la posizione di Kristeller: «Il concetto moderno di Umanesimo come lo adoperiamo per il Rinascimento è derivato dal termine “umanista” che ebbe la sua origine nel tardo Quattrocento, e questo termine umanista per conto suo fu derivato dal concetto degli studia humanitatis. Ora quest’ultimo termine risale all’antichità e fu semplicemente ripreso nel Quattrocento con un significato piú preciso. Il ciclo degli studia humanitatis (grammatica, retorica, poesia, storia e filosofia morale) è ben documentato dal Quattrocento in poi, e vi sono testimonianze meno esplicite ma sufficienti per provare che anche il Petrarca, per esempio, fu considerato dai suoi contemporanei come un praticante di queste discipline». Quindi l’Umanesimo come coltivazione degli studia humanitatis che si estende per oltre tre secoli e mezzo.
Vediamo invece che cosa sostiene Eugenio Garin. In Educazione umanistica in Italia egli scrive: «Questa fu l’educazione umanistica: non, come a volte si crede, studio grammaticale e retorico fine a se stesso, bensí formazione di una coscienza davvero umana, aperta in ogni direzione, attraverso la consapevolezza storico-critica della tradizione culturale». Vuol dire un fatto molto preciso che riassume felicemente con un’affermazione apparentemente paradossale: la vera filosofia degli umanisti fu la filologia. Kristeller sostiene che gli umanisti sono filologi, Garin rileva che nella filologia, cioè nello studio, nel ripristino dei testi classici, gli umanisti furono filosofi, nel senso che lo sforzo di ripristinare i testi classici nella loro redazione originaria significa un fatto nuovo, implica l’avere senso storico, cosa che era mancata al Medioevo: ripristinare un’identità precisa e mettersi a dialogare con essa creandosi una propria identità.
L’espressione piú bella di questa mentalità è testimoniata da Machiavelli nella sua lettera a Francesco Vettori. Confrontandomi con l’altro riesco a costruire una mia identità: la mia personalità diventa tanto piú forte, quanto piú forti sono le personalità degli altri con cui mi confronto. Machiavelli si confronta con Livio e Tacito. Il grande merito dell’Umanesimo è la prospettiva storica: Virgilio, Cicerone, Livio ecc. sono messi a distanza storica ed entrano in dialogo con l’umanista che si confronta con loro, e nel confronto fa crescere la propria personalità. Il Medioevo aveva appiattito tutto. Virgilio, per esempio, veniva letto nel Medioevo, ma era visto come un precursore del Cristianesimo; la pietas di Virgilio veniva interpretata come una virtú precristiana. Il Medioevo aveva assorbito i classici latini nella dimensione cristiana, aveva quindi creato un’identità fittizia e non si era confrontato con i classici. Invece l’Umanesimo crea, dice Garin, la prospettiva storica: il classico è altro da me, lo rispetto perché è un grande interlocutore, ma è appunto interlocutore col quale mi confronto. Si pensi all’arte medievale e a quella rinascimentale. Nell’arte medievale - semplificando - tutte le prospettive sono schiacciate, non c’è il senso della profondità, invece uno dei grandi caratteri dell’architettura e della pittura rinascimentali è proprio il senso della prospettiva: gli oggetti sono in relazione spaziale reciproca e sono in relazione con il soggetto osservante che ha uno spazio profondo davanti a sé; gli oggetti sono distaccati dall’osservatore, dal soggetto. Quello che ha fatto la prospettiva rinascimentale in pittura l’hanno fatto gli umanisti nella cultura: hanno messo i classici a distanza da sé, li hanno collocati nella loro dimensione storica, ma nel fare questo li hanno fatti diventare grandiosi interlocutori di grandi intelletti. Veramente Firenze è diventata una seconda Atene, una seconda Roma. Continuiamo a leggere Garin: «Le litterae sono appunto il mezzo per dilatare la nostra personalità oltre la puntualità di una situazione, per metterla in rapporto con le esperienze esemplari della storia degli uomini. Infatti, e c’è qui un altro errore da correggere, gli autori alla cui scuola si viene mandati non sono solo greci e romani: sono i Padri della Chiesa o i moderni come Dante e Petrarca; sono tutti gli uomini veri». Garin contesta che l’Umanesimo sia nato solo dall’analisi di Cicerone e di Livio, in quanto gli umanisti leggevano e si confrontavano anche con i testi della Patristica oppure con Dante e Petrarca, che erano considerati i nuovi classici. Questo inquadramento di Garin riesce a spiegare meglio la costituzione delle biblioteche degli umanisti. Gli umanisti non leggevano solo Cicerone, ma anche Sant’Agostino e Petrarca, e pertanto nella formazione umanistica rientra tutta una serie di classici cristiani oltre ai classici latini. «Quel che conta è una preparazione morale fatta non di precetti, ma della conquista effettiva di una consapevolezza critica della propria umana condizione», cioè non la precettistica medievale, non l’autorità medievale fondata sulla formula ipse dixit: lo ha detto Aristotele e quindi è vero senza che ci si ragioni sopra. «Quel che conta è l’avvio al colloquio con coloro che espressero tipi perfetti di umanità, con i maestri veri: perché per comprenderli e nel comprenderli, scaturisce in noi quanto c’è di piú alto…».
In altri termini, per Garin l’Umanesimo non nasce dai contenuti dei libri antichi, ma dall’atteggiamento con cui gli umanisti leggono i testi. Non contano i testi latini studiati, che erano letti già nel Medioevo, ma conta l’atteggiamento con cui gli umanisti li leggono. Li leggono per porsi come interlocutori dei grandi del passato. «Quel che conta è l’avvio al colloquio con coloro che espressero tipi perfetti di umanità, con i maestri veri: perché per comprenderli e nel comprenderli scaturisce in noi quanto c’è di più alto […] . Analogamente quella honesta disciplina delle litterae, che era solo scuola della nuova umanità, ed avviamento alla vita civile delle città, che si erano ormai svincolate dai legami e dalle strutture feudali; quella che intendeva essere soprattutto formazione del popolo asceso al potere, e cioè della nuova aristocrazia cittadina, affermatasi con le industrie e con i commerci, non poteva non essere, nella sua direzione originaria, lontanissima da ogni umanesimo retorico, come da ogni ozio religioso o accademico. Le pagine dei nuovi maestri, come suonano condanna d’ogni sterile ascesi, cosí vedono negli studia humanitatis il mezzo migliore per preparare il buon cittadino».
Si profila l’essenza dell’Umanesimo civile: le letture dei classici non vengono fatte per erudizione, ma per creare la consapevolezza dell’uomo, in quanto cittadino, in quanto membro della polis. L’Umanesimo legge i classici nella loro dimensione di retaggio, di eredità latina o greca, li restituisce alla loro dimensione storica e si confronta con questa dimensione storica. La prima fase dell’Umanesimo è l’Umanesimo civile. Sulla scorta di Christian Bec, uno dei maggiori studiosi dell’Umanesimo civile, si può dire che questo è caratterizzato da quattro elementi: la vita attiva, la socialitas, la libertas e la dignità dell’uomo. Per quanto riguarda il primo punto leggiamo un brano di Coluccio Salutati, che era cancelliere della Repubblica di Firenze. Non si trattava di una carica secondaria: Coluccio Salutati coordinava tutta la politica estera di Firenze. Si diceva che le sue lettere fossero piú pericolose delle spade: riuscí a salvare la libertà di Firenze in tempi estremamente difficili. Ora, è significativo che in una lettera a fra’ Giovanni degli Angeli, pur nel rispetto di questo suo interlocutore, Coluccio Salutati, che costituisce un ponte fra Petrarca e l’Umanesimo civile maturo, si rivolge ad un frate (si tratta di una polemica col Medioevo) e gli scrive: “Tu con il ritirarti nella vita del chiostro non porti beneficio a nessuno. Quello che è importante invece è vivere la vita nelle città”. È un bell’esempio della nuova mentalità in polemica con la mentalità medievale: «E non credere – dice a fra’ Giovanni degli Angeli – che io mi sia mai affaticato per un vanto di vana gloria, come vedo che tu pensi, ma per il desiderio intenso di sapere e di comunicare ciò che Dio mi ha fatto conoscere, per giovare agli altri e ai posteri: in qualche misura, come altri hanno giovato a noi e al loro tempo; e mi sembra che ciò sia per i dotti non meno doveroso di quanto lo sia per i contadini il piantare alberi che debbano giungere ai loro discendenti. Tu - è cosa propria della santa rozzezza - giovi a te solo. Io mi sforzo di giovare a me e agli altri». Pur nel rispetto delle posizioni cristiane, chiama “santa rozzezza” la vita del chiostro, la vita monacale. La vita dell’assenza dal mondo è una “santa rozzezza”, in quanto giova soltanto all’individuo. «Io mi sforzo di giovare a me e agli altri». Nel De nobilitate legum et medicinae, lo stesso Coluccio Salutati si esprime con ancora maggiore chiarezza. Si deve tener presente che Coluccio Salutati restò fermo al suo posto durante il tumulto dei Ciompi, durante le pestilenze non volle mai andare in campagna per non lasciare Firenze, per non dare ai suoi concittadini il senso di una fuga per ragioni egoistiche: rischiò nei tumulti e rischiò il contagio della peste, ma volle sempre essere presente nei momenti difficili di Firenze: «Io, per dire il vero, affermerò coraggiosamente e confesserò candidamente che lascio volentieri, senza invidia e senza contrasto, a te e a chi alza al cielo la pura speculazione tutte le altre verità, purché mi si lasci la cognizione delle cose umane». Questo sarà un carattere decisivo del pensiero italiano, di Machiavelli, di Campanella, di Giambattista Vico: il pensiero italiano è interessato ai rapporti umani, alla vita civile, alla storia. Coluccio Salutati dice: “Vi lascio tutta la sapienza, basta che mi lasciate la conoscenza, la cognizione delle cose umane”. «Tu rimani pure pieno di contemplazione, che io possa invece essere ricco di bontà. Tu medita pure per te solo, cerca pure il vero e godi nel trovarlo. Che io invece sia sempre immerso nell’azione, teso verso il fine supremo; che ogni mia azione giovi a me, alla famiglia, ai parenti e, ciò che è ancor meglio, che io possa essere utile agli amici e alla patria e possa vivere in modo da giovare all’umana società con l’esempio e con l’opera». Gli umanisti sono molto impegnati sul piano della famiglia, che è il primo nucleo sociale. Basti pensare al trattato Della famiglia di Leon Battista Alberti: per gli umanisti la gestione della famiglia, l’attenzione agli affetti, l’allevamento dei figli, sono un fatto decisivo, perché appunto si tratta del primo embrione sociale. L’altro termine che ricorre è quello di patria: il patriota è colui che è assolutamente disinteressato rispetto a se stesso; patriota, per Coluccio Salutati, è il contrario di egoista. Il patriota è colui che ama la comunità, è pronto anche al sacrificio per i suoi concittadini.
La socialitas è il secondo cardine dell’Umanesimo civile. Anche i generi letterari prediletti dagli umanisti, lettere o dialoghi, implicano uno scambio. Sono rari i trattati, non ci sono sistemi filosofici umanistici, ma lettere o dialoghi, ispirati dalla socialitas, dalla dimensione fondamentale della comunità, dello scambio con l’altro. «Fra gli insegnamenti morali, - dice Leonardo Bruni - con i quali si forma e si educa la vita umana, tengono in certo modo il posto piú alto quelli che concernono gli Stati ed il loro governo, poiché una disciplina del genere tende a procacciare la felicità a tutti gli uomini». La politica è intesa in senso platonico, è la ricerca del bene comune a tutta l’umanità, a tutti gli uomini. «E se è ottima cosa dare la felicità ad uno solo, quanto piú bello sarà conquistare la beatitudine a tutto lo Stato? Poiché il bene quanto piú ampiamente si estende, tanto piú divino deve considerarsi; ed essendo l’uomo debole e ricevendo dalla società civile quella compiutezza e perfezione che non ha da sé, non vi può essere per l’uomo disciplina alcuna piú conveniente dell’intendere che sia la città, che lo Stato, e in che modo si conservi e perisca la società». La scienza fondamentale è quella delle cose umane, la politica: che cosa sia la città, che cosa sia lo Stato e quale sia la migliore condizione possibile dei cittadini. La socialitas, cioè l’imporatanza della comunità cittadina, è soprattutto sottolineata nei concetti di famiglia e di patria. Voglio solo ricordare La vita di Dante di Leonardo Bruni. Dante Alighieri viene fortemente rivalutato dagli umanisti civili e viene visto come il padre della socialitas umanistica in quanto, pur essendo uomo del Medioevo, Dante è stato colui che ha combattuto a Campaldino, ha lottato per Firenze, ha manifestato una grande passione civile.
Per quanto riguarda la libertas, anche questo concetto è fondato dal primo degli umanisti civili, Coluccio Salutati, che vedeva la libertà fiorentina come la ripetizione della libertà della polis ateniese e della libertà di Roma repubblicana. Sono molto vivi i passi di Coluccio Salutati contro la tirannide. Salutati rivendica la libertà come elemento primario per il fiorire della città e quindi della civiltà. Il tiranno è il peggior nemico della comunità, anzi i cittadini sono tenuti a considerarlo come fuorilegge, a combatterlo fino alla morte se è necessario, in quanto essendo un fuorilegge mette in pericolo il fatto decisivo della comunità. La comunità si regge sulla legge, se una volontà tirannica rompe la legge per imporsi essa rompe il vincolo della socialitas, della comunità, della città, e quindi va assolutamente respinta, perché, appunto, la libertas è strettamente legata alla socialitas. La socialitas è possibile in base alla legge: la convivenza civile, supremo bene, è possibile perché gli uomini vivono in società in quanto la legge li unifica, i rapporti umani sono regolati dalla legge come ci viene insegnato dall’eredità romana; il tiranno, essendo colui che attenta alla libertà, è insieme anche colui che attenta alla legge, e cosí facendo rischia di mettere in pericolo anche la socialitas, quindi va combattuto con tutti i mezzi.
Veniamo all’ultimo punto: la dignità dell’uomo, la centralità dell’uomo nell’universo. Questa centralità ha una teorizzazione precisa in Giannozzo Manetti. Per sollecitazione dell’umanista Giovanni Pontano, Alfonso d’Aragona indisse una gara con un premio per chi avesse scritto il miglior testo sulla dignità e l’eccellenza dell’uomo. Non contento dello scritto di un certo Fazio, egli spinse Giannozzo Manetti a cimentarsi con l’argomento. Giannozzo Manetti appose un’epigrafe a questa sua opera: “Agere et intelligere”, “agire e capire”, dove nel binomio l’azione precede la teoria, secondo la tendenza alla pratica, all’agire, che abbiamo detto propria dell’Umanesimo. L’uomo è grande soprattutto per le sue realizzazioni, l’uomo costruisce continuamente nuove realtà, è una sorta di secondo creatore. Lo scritto Dignità ed eccellenza dell’uomo di Giannozzo Manetti è ponte di passaggio al secondo Umanesimo, quello di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola.
Abbiamo detto che soprattutto dal 1453 arrivano in Italia i dotti bizantini, diventano accessibili le opere del pensiero greco in originale, fiorisce il neoplatonismo alla corte dei Medici, sbocciano due grandi personalità: Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Marsilio Ficino è un continuatore del neoplatonismo. Plotino, il fondatore del neoplatonismo, sottolinea l’unità della realtà; questo aspetto viene ripreso da Marsilio Ficino: il mondo è sostanzialmente uno. Si tratta di un concetto che Ficino estende in maniera molto significativa in direzione dell’unità della cultura: se il mondo è uno, la verità è una, tutti coloro che si sono cimentati con la verità, uomini di religione o filosofi, devono avere qualche cosa in comune. Per questa via Marsilio Ficino fonda un importante concetto della filosofia europea moderna, quello di tolleranza; gli ebrei, i cristiani, gli islamici, le varie tradizioni delle scuole platoniche, aristoteliche ecc. sono solo apparentemente molto diversi, ma si deve scavare alla ricerca di qualche cosa di unitario, infatti le grandi religioni e le grandi filosofie hanno avuto a che fare con qualche cosa di comune. Tutti coloro che cercano la verità cercano la stessa cosa. La sua maggiore opera è la Theologia platonica. Il titolo è molto significativo. Ficino vede in Platone un percursore della teologia cristiana: tra la filosofia greca ed il Cristianesimo non c’è una cesura, una rottura; il principe dei filosofi greci, Platone, è stato un percursore della teologia cristiana. Perciò Ficino parla di “teologia platonica”, e rivendica una “prisca theologia”, cioè una teologia precoce già presente tra i Greci e poi portata a maturità dai cristiani. Tra Grecia e Cristianesimo c’è un’unità di fondo.
Di Marsilio Ficino dobbiamo ricordare il concetto di tolleranza, il concetto di unione tra le culture e soprattutto tra la cultura greca e quella cristiana. Il terzo grande concetto introdotto da Marsilio Ficino, è quello di microcosmo: se il mondo è uno, ci sono profonde analogie e corrispondenze tra le varie parti della realtà. L’uomo stesso è un microcosmo, è come un universo in piccolo che rispecchia l’universo in grande. Questa è la base anche dell’astrologia: il movimento degli astri è qualche cosa che avviene in una dimensione macroscopica, gigantesca, la dimensione dei moti dei cieli però si riproduce nel piccolo della vita dell’uomo. Cosí inoltre tra le piante, gli animali, le pietre preziose e l’uomo si riscontrano analogie profonde. Lo stesso Lorenzo il Magnifico, coltivava in segreto la scienza delle corrispondenze tra pietre preziose e uomini, come pure molti personaggi di quest’epoca coltivavano la magia: se il mondo è uno, ci sono segrete corrispondenze tra le parti piú lontane e le parti piú piccole, tra il regno vegetale e quello animale, tra il regno animale e quello umano; ci saranno animali, piante, pietre preziose che influenzeranno un individuo in un modo e un altro in un altro. I minerali, i vegetali, gli animali e gli uomini fanno parte di un mondo unico e quindi possono entrare in contatto reciproco, possono avere influenze reciproche. La realtà è una, dice Marsilio Ficino, e al suo centro c’è l’uomo. L’uomo è un microcosmo, è il luogo in cui confluiscono tutti i raggi, in cui passano tutte le strade della realtà, che è unitaria.
Pico della Mirandola è stato un personaggio eccezionale. È morto a trentuno anni, nel 1494, esattamente nello stesso giorno in cui le truppe di Carlo VIII mettevano piede in Firenze, un giorno quindi particolarmente significativo, il momento della perdita della libertà italiana. Pico era principe di Mirandola, vicino Mantova, ma era anche il principe del paesino di Concordia, e si vantava di essere principe della concordia. Con una cultura profondissima, con la famosa memoria che è passata alla leggenda, Pico della Mirandola, era riuscito ad assorbire tutte le filosofie e tutti i testi religiosi disponibili all’epoca leggendoli anche nelle lingue originali. Conosceva l’arabo, l’ebraico, l’aramaico. Anch’egli neoplatonico, seguendo le orme di Marsilio Ficino, sosteneva che se tutto il mondo è uno si possono considerare le dottrine di tutte le religioni e di tutte le filosofie, e enuclearne verità comuni. Egli compí questo enorme sforzo elaborando novecento tesi, che si proponeva di mettere a confronto coi dotti di tutto il mondo conosciuto, a proprie spese, in Roma. Questo progetto lo portò ad essere perseguitato dalla Chiesa, a dover riparare a Parigi e a varie traversie. Premise alle sue tesi un testo introduttivo: L’orazione della dignità dell’uomo, che viene considerato il manifesto dell’Umanesimo, in cui si legge: «Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania, aveva ravvivato di anime eterne gli eterei globi, aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonchè, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sí grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo, pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n’era da largire in retaggio al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. Tutti erano ormai pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medi, negli infimi gradi. Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno quasi impotente, nell’ultima fattura; non della sua sapienza rimanere incerto in un’opera necessaria per mancanza di consiglio; non del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in sé stesso. Stabilí finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo cosí gli parlò: “Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai”. L’uomo non ha un posto preciso attribuito da Dio ma è faber fortunae suae nel senso piú alto del termine. L’uomo è faber fortunae suae, cioè artefice del proprio destino, ma non solo nel senso che ognuno, come diceva Leon Battista Alberti, può crearsi il proprio destino e può vincere la fortuna, bensí nel senso che l’uomo si crea da sé la propria collocazione nel creato, addirittura Dio gli dà il mandato in bianco di scegliersi quale posto del creato vuole occupare. “Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste, né terreno, né mortale, né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”. O suprema liberalità di Dio padre! O suprema e mirabile felicità dell’uomo a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere recano dal seno materno tutto quello che avranno [Il destino degli animali è già determinato dall’istinto, gli animali agiscono meccanicamente, senza libera scelta]. Gli spiriti supremi o dall’inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli. Nell’uomo nascente il Padre ripose semi d’ogni specie e germi di ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali sarà pianta; se sensibili sarà bruto; se razionali, diventerà animale celeste: se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio [l’uomo si può volgere ad bestias, ridursi ad essere animale, o diventare addirittura una creatura angelica e divina, dipende da lui] ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose. Chi non ammirerà questo nostro camaleonte? Chi dunque non ammirerà l’uomo? Che non a torto nell’antico e nel nuovo Testamento viene chiamato ora col nome di ogni essere di carne, ora con quello di ogni creatura, poiché foggia, plasma e trasforma la sua persona secondo l’aspetto di ogni genere, il suo ingegno secondo quello di ogni creatura. Perciò il persiano Evante, là dove spiega la teologia caldea, dice che l’uomo non ha una propria immagine nativa, ma molte estranee ed avventizie. Di qui il detto caldeo, che l’uomo è animale di natura varia, multiforme e cangiante. Ma a che ricordar tutto ciò? Perché comprendiamo, dal momento che siamo nati nella condizione di essere ciò che vogliamo, che è nostro dovere avere cura specialmente di questo: che non si dica di noi che essendo in onore non ci siamo accorti di essere diventati simili a bruti e a stolte giumente, ma di noi si ripetano piuttosto le parole del profeta Asaph: “siete idii e tutti figli del cielo”. Sí che, abusando dall’indulgentissima liberalità del Padre, non ci rendiamo nociva invece che salutare la libera scelta che egli ci concesse. Ci afferri l’animo una santa ambizione di non contentarci delle cose mediocri, ma di anelare alle piú alte e di sforzarci con ogni vigore di raggiungerle, dal momento che, volendo, è possibile».
Decisiva nell’Umanesimo è la concezione secondo cui l’uomo è un essere «intermedio», un essere in cammino. Questa intuizione è al centro dei momenti piú alti della storia del pensiero: la filosofia greca, l’umanesimo cristiano, il Rinascimento italiano, la civiltà romantica tedesca. L’uomo è collocato nel mezzo dell’universo, è «copula del mondo» e da questa posizione può tanto regredire, volgendosi verso le proprie componenti bestiali, animalesche, rimanere ottuso e schiavo dei meccanismi istintuali, quanto volgersi verso l’alto, alimentare la scintilla divina ch’è in lui fino a farla divampare. L’uomo non è un essere dato, fermo all’automatismo dell’istinto, come gli animali, bensí è - ripetono gli umanisti italiani - «faber fortunae suae», artefice del proprio destino. In questo sta la sua grandezza, la sua dignità: egli stabilisce da se stesso la propria posizione nel cosmo.
L’uomo è un essere perfettibile: questa è l’idea che anima l’Umanesimo. Come amplia di continuo l’ambito della propria libertà nei confronti della natura esterna a sé, superando gli ostacoli che questa pone alla sua affermazione, cosí di continuo l’uomo si confronta con gli ostacoli che all’espansione di ciò che è propriamente umano nascono nel mondo umano stesso. La piena realizzazione di sé, la piena libertà, non viene mai raggiunta dall’uomo, ma egli sempre di nuovo si pone in cammino verso la sempre piú compiuta realizzazione del suo mondo.

 

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