per l'europa

ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

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YVES HERSANT
École des Hautes Études en Sciences Sociales

Per un’Europa una e molteplice

«Siamo angeli senza corpo in un mondo senza territorio»: sono le parole di un alto funzionario europeo, riferite a se stesso e ai suoi colleghi. Per presentare l’avvocato Gerardo Marotta, niente mi sembra più idoneo di questa formula che ne fornisce, sia pure a contrario, un’eccellente definizione. Infatti, non vi è niente di angelico nell’avvocato, ma una profonda umanità: il che, ontologicamente, è molto meglio, come Pico della Mirandola si compiaceva di ripetere. Nell’avvocato, inoltre, s’incarna il massimo dell’energia nel minimo del volume: è “una forza attiva”. Infine, se la sua volontà si estende a così largo raggio, ciò avviene perché opera in un’area particolare – l’Italia meridionale – dove si verificano le condizioni di una perpetua risorgenza. Ma ciò è anche dovuto alla solidità dei suoi riferimenti: lo Stato, la Storia, la Memoria. 
Egualmente, non si può dissociare l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici da un luogo anch’esso storico, il Palazzo Serra di Cassano. Di qui, nel cuore di Napoli, l’Avvocato svolge – da più di vent’anni – la sua prodigiosa attività: promuove la circolazione delle idee con le pubblicazioni, stimola la ricerca attraverso innumerevoli seminari, traduzioni, colloqui e congressi, conferisce borse di studio, organizza mostre d’arte e di architettura. Non limita la sua azione al campo delle scienze dello spirito, ma interviene (questo forse è meno noto in Francia) in quello delle scienze naturali e matematiche. Il suo orizzonte, d’altra parte, si estende ben oltre i confini dell’Italia meridionale, teatro di avvenimenti culturali decisivi fin dal tempo della Magna Grecia e giù di lì, passando per la Scuola salernitana, Bruno, Campanella, Vico, gli hegeliani di Napoli e gli uomini del Risorgimento, fino a Benedetto Croce e oltre. La sua sfera d’azione comprende l’Occidente, l’Oriente e i legami fra queste due aree culturali, il cui studio è dall’Avvocato promosso con convinzione. Il presidente Marotta, in un bel saggio che ho avuto l’onore di tradurre in francese, illumina la nostra riflessione, sempre più necessaria, sulla filosofia politica e il suo ruolo di orientamento nel processo di unificazione europea. In armonia con gli intendimenti di due appelli che l’Avvocato ha lanciato in favore dell’insegnamento della filosofia e dello sviluppo degli studi umanistici, l’Istituto stimola le coscienze con una vivacità tutta napoletana, esortandoci a resistere alla tentazione di impantanarci nel mercantilismo o nell’indifferenza.
Un’idea concreta della ricerca, una concezione esigente della cultura e un progetto politico unificatore: queste sono, ai miei occhi, le caratteristiche dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici da lui fondato. 
L’Istituto appare, in primo luogo, un insostituibile complemento dell’Università, al punto di farle concorrenza, quando necessario. Questo aspetto è stato illustrato da Giovanni Pugliese Carratelli, perciò mi limito a un breve cenno. L’istituzione universitaria è necessaria, e ad essa spetta il compito di conferire i titoli e di trasmettere il sapere. D’altra parte è facile constatare come a più riprese nel corso della storia emergano con forza organismi di libera ricerca che, nello spirito del Collège de France e dell’Accademia dei Lincei, svolgono un ruolo di rinnovamento del pensiero e nello stesso tempo di conservazione attiva della memoria culturale. La tradizione dev’essere proprio il contrario del conformismo, non può ridursi alla trasmissione passiva: questo è il convincimento di Gerardo Marotta e degli intellettuali della sua cerchia. Nello stesso tempo essi pensano, in contrasto con un pregiudizio diffuso (non solo nel largo pubblico, ma anche nei nostri ministeri e a Bruxelles), che la ricerca non debba essere al servizio del mercato: ridotta a un ruolo ancillare, essa non solo perde la sua nobiltà, ma la sua stessa ragion d’essere. Perciò l’Europa – si ripete instancabilmente all’Istituto – deve diffidare dal razionalismo tecnicistico che riduce il pensiero a mero calcolo, e deve guardarsi dall’abbandonare lo spirito del dubbio. Nel corso dei secoli, il vecchio continente ha sempre oscillato fra due modelli di razionalità: tra una certa idea di scienza universale e il gioco dell’ironia, tra la volontà di dominio sulla realtà e il desiderio di liberarsene. È chiaro quale sia l’accezione di razionalità oggi prevalente: il modello scientista orienta i nostri discorsi, indirizza le ricerche delle Università, condiziona il nostro stesso tempo libero. La seriosità, la logica mercantile, la concezione dell’essere come produzione hanno esteso il loro dominio pressoché ovunque. Il sapere è amministrato secondo una razionalità capace soltanto di misurarne la ricaduta economica: è il trionfo degli “esperti”. Nessuno vuol negare che l’Europa abbia un gran bisogno di tecnici, ma se si vuol conservarne l’“anima”, bisogna custodirne la tradizione di pensiero critico. Altrimenti – come sostiene senza mezzi termini G. Granel – c’è il rischio che l’Europa faccia la fine dell’America: «con l’imporsi metafisico-scientista del logicismo, si ha l’oscuramento totale della luminosità che rischiara l’orizzonte del nostro divenire, la quale non è che il riverbero dello splendore del giorno greco». L’Istituto ci ricorda l’incombenza di questi pericoli e, nello stesso tempo, ci offre gli strumenti per evitarli. Questo è il primo merito dell’Istituto.
L’Istituto inoltre ci sprona a una riflessione autentica sulla cultura: ecco il secondo dei suoi meriti, sul quale mi soffermerò più distesamente. La parola “cultura”, a quanto pare, è nella bocca di tutti, anche di quei funzionari che – non senza una punta di malevolenza – sono chiamati “eurocrati”. Certo, se i nuovi costruttori dell’Europa, a differenza dei padri fondatori, assegnano alla cultura un ruolo sempre più importante, non possiamo che compiacercene. È giusto, non esistono soltanto i problemi doganali, e le frontiere non sono soltanto quelle politiche. È un bene che questi funzionari portino una maggiore attenzione alle grandi questioni che, secondo le parole di Kundera, «aggregano i popoli in modo sempre diverso, creando linee di demarcazione immaginarie e mutevoli, al di qua delle quali però la memoria è sempre la stessa, uguale è l’esperienza, comune la tradizione». Bisognerebbe però rifiutare l’idea di una cultura con funzione consolatoria, perché di qui alla propaganda il passo è breve. Siamo sommersi da discorsi di maniera, dichiarazioni che vogliono tranquillizzarci, parole insinuanti. 
A questo punto è doveroso chiedersi se la cultura europea non debba temere proprio coloro che se ne proclamano difensori. Tanto più questa cautela è necessaria, in quanto loro non difendono la stessa cosa che intendiamo noi: l’uso dei termini si presta all’equivoco. Per esempio, non mancano gli “esperti” che, secondo la tradizione anglo-germanica, indicano con il termine “cultura” i modi d’essere e i gusti, i comportamenti e i modi di vita che caratterizzano i vari gruppi sociali, e che ne descrivono l’indole. Nella tradizione latina, al contrario, la stessa parola indica piuttosto ciò che per i tedeschi equivale alla “civilizzazione”: un insieme di valori che si può generalizzare ed esportare, che i popoli possono scambiarsi in nome della ragione universale. Queste due accezioni della parola “cultura” richiamano un’altra distinzione, che può sembrare accademica, ma non lo è: la cultura indicherebbe, grosso modo, tutto ciò che si trasmette socialmente, contrapponendosi a ciò che è “naturale”. Pertanto, considerata in una prospettiva estetica ed etica, la cultura si oppone alla barbarie; dal che derivano, nel dialogo Est-Ovest, numerosi malintesi. 
I fraintendimenti riguardo alla parola “cultura” non finiscono qui: gli europei si riferiscono infatti più o meno esplicitamente e secondo il caso, a tre diverse concezioni della cultura. Bisogna perciò distinguere fra tre suoi diversi modelli. 
Il primo modello è quello “patrimoniale”, che definisce la cultura come una ricchezza ereditaria, composta di monumenti e documenti da preservare. Essa si riceve e si trasmette: in metafora, la cultura ha a che fare con l’avere, più che con l’essere. La sfera della cultura risulta così quantificabile e misurabile, ed esige una politica che ne preservi l’integrità, proteggendola dall’innovazione, sia interna che esterna. Questo sistema rifiuta la dialettica come fattore di cambiamento.
Il secondo modello è quello “biologico”, che assimila la cultura a un organismo vivente. Si parla allora di “vita culturale” e si ammette che la cultura possa evolversi. Il sistema tollera variazioni, endogene o esogene, quando non minacciano la sua salute. Quest’idea della cultura è più sfumata, apparentemente meno xenofoba, ma si arresta alle “soglie della tolleranza”. 
Il terzo modello è quello dialogico e – come è stato illustrato da Edgar Morin (Penser l’Europe, 1987) – presuppone il contrasto. La cultura è definita come un incessante confronto di forze antagoniste: «… le interazioni fra popoli, culture, classi sociali e Stati […] hanno tessuto un’unità che è frutto di pluralismo e contraddizioni». In se stessa, come nei suoi rapporti con il mondo, la cultura europea attua una dialettica che è volontà di dialogo e autonegazione radicale. Perciò non può essere concepita come una realtà stabile e immobile. Lungi dall’essere una sedimentazione di valori, la cultura è descritta, secondo questo modello, come un vortice in perpetua agitazione, o come un cantiere in pieno fervore d’opera.
L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, che conosce le differenze fra queste diverse accezioni della cultura, ha optato per il terzo modello, e non ha scelto la via più facile. La cultura per l’Istituto non è un comparto dell’economia, né un semplice flusso di scambi del quale si dovrebbe ottimizzare la gestione. Né si ritiene all’Istituto che la cultura europea debba essere ridotta all’“eurocultura”, la cui principale funzione è quella di fabbricare consenso. (È noto che a Bruxelles quanto più il dibattito si fa aspro riguardo al prezzo del burro e della carne di agnello, tanto più si trova bello accordarsi consolatoriamente sulle “grandi” questioni, in realtà vuote di significato.) Più che esaltare liricamente il genio europeo, all’Istituto si preferisce porre questioni filosofiche e stimolare il giudizio critico. A un’eurocultura sentimentale, paga dei propri miti, si oppone una ricerca storica rigorosa. Così facendo, si portano alla luce le contraddizioni che ci tormentano e gli antagonismi che ci lacerano; si conosce il ruolo importantissimo del negativo, del pensiero critico e dell’ironia (che sono parte del nostro “patrimonio” culturale: la cultura europea è inconcepibile se si prescinde da questo continuo mettere in causa i presupposti della conoscenza, senza l’attacco incessante ai baluardi del sapere). 
All’Istituto si conosce la follia che ha percorso la nostra storia, ci si guarda bene dal relegarla in un angolo della memoria. Non c’è dubbio che in Europa sono nati il diritto dei popoli e la libertà, ma qui sono nati anche il genocidio, il delirio del razzismo e i peggiori nemici del genere umano. L’eredità europea include gli effetti perversi della ragione, l’asservimento alla tecnica, la deriva totalitaria. L’Europa non si costruisce con un’operazione di riduzione della complessità storica e un’educazione europea non può fondarsi sulla rimozione: al contrario è necessario meditare sulla storia. Non si tratta di coltivare uno sterile senso di colpa, ma di mantenere viva una memoria responsabile e acuire la consapevolezza dell’ambivalenza del nostro logos. 
D’altra parte, per rifiutare ogni mito consolatorio e ogni semplificazione indebita, è importante percepire la cultura nel suo aspetto paradossalmente molteplice e unitario. Storicamente la cultura è una, perché i popoli d’Europa hanno condiviso gli stessi principi (libertà di pensiero, interesse genuino per la conoscenza, l’ambizione teoretica di superare il finito…), gli stessi movimenti intellettuali (il cristianesimo, l’umanesimo, il razionalismo…), le stesse categorie concettuali (particolare/universale, fede/ragione, individuale/collettivo…). Anche sociologicamente la cultura è una, perché oggi più che mai il tessuto europeo è omogeneo: lo sviluppo delle classi medie, il livello economico, la libertà di espressione, un sistema previdenziale abbastanza sviluppato, la qualità della vita ecc. sono con ogni evidenza fattori unificanti. Gli europei condividono inoltre gli stessi problemi: droga, disoccupazione, crisi dello Stato, l’integrazione degli immigrati ecc. I modelli di vita dei giovani tendono ad essere gli stessi. Nei rapporti con il resto del mondo, accade anche che l’Europa si esprima con una voce univoca. Quest’evoluzione, ben nota, sembra imporre una conclusione: «I paesi dell’Europa comunitaria si sono definitivamente incamminati sulla strada dell’unità […] essi avranno ben presto una storia comune, fatta delle stesse esperienze, positive o negative, vissute in comunità di interessi e di aspettative» (Sergio Romano, Six manières d’être européen, a c. di D. Schnapper e H. Mendras, Parigi, 1990). 
Tuttavia non mancano gli argomenti, e non meno forti, per sostenere la tesi contraria: la cultura europea agisce a livelli molto diversi. È facile dimostrare che le grandi culture transnazionali (latina, slava, germanica) non sono intercambiabili; o che la stessa diversità delle lingue comporta differenze profonde nelle tradizioni dei popoli; e che si assiste ovunque a un riaffiorare dei particolarismi, un residuo pretenzioso del grande lavorio della Storia nelle nostre province. Ogni paese, ogni regione, proclama la sua eccezionalità: ed è vero che fra la Spagna e la Danimarca, e fra l’Alsazia e il Limousin corre un differenza maggiore di quella che divide la California dall’Illinois. La diversità di costumi, d’indole e di tradizione fa apparire il vecchio continente come un mosaico di minuscole realtà locali. La consapevolezza di questa ricchezza comporta per gli europei il rischio, indubbiamente, di scivolare nel particolarismo campanilistico, o nel relativismo culturale, per cui i prodotti dell’artigianato sono collocati sullo stesso piano delle cattedrali. Ma rivendicando la molteplicità di aspetti della loro cultura, gli europei hanno il vantaggio di poter meglio resistere all’omologazione tecnicistica e alla minaccia della standardizzazione.
Non è più tempo di chiedersi se l’Europa sia una o molteplice, occorre invece cominciare a pensarla simultaneamente come molteplice e una. La sua diversità è difficoltosa, eppure l’Europa deve restare aperta e multiforme; è nella sua non-identità che si scopre la sua identità. L’aspetto più prezioso della cultura europea dev’essere probabilmente individuato nel suo orrore per il sonno dogmatico, nella capacità di rinunciare all’eternità della certezza, nel rifiuto di «ammettere la perfezione dell’identità», come mette in evidenza L. Kolakowski, secondo il quale «l’attitudine a porsi in discussione e il rifiuto dell’autocompiacimento – il che avviene, certo, non senza una forte resistenza – è una caratteristica originale dell’Europa ed è una forza spirituale». Perciò l’Europa sarà tanto più Europa se non si chiuderà in se stessa, ma saprà collocarsi in una prospettiva dinamica. Il che significa, da una parte, confrontare la sua prospettiva odierna con quella di altri tempi e di altri luoghi; d’altra parte vuol anche dire (qui cito Jacques Derrida) che si accetta una necessità duplice e contraddittoria: quella di evitare insieme la parcellizzazione della cultura (il provincialismo intellettuale, l’introversione solipsistica) e l’omogeneizzazione culturale dettata da un centralismo autoritario. Dobbiamo contrastare la cultura standardizzata, senza però «coltivare, come fini a se stesse, le differenze minoritarie, i gerghi intraducibili, gli antagonismi nazionalistici, la passione per il campanile».
In breve, se l’Europa si caratterizza per diversità e continuità, cioè per una dialettica dell’uno e del diverso, e per una combinazione di esperienze innovatrici con una memoria innestata nella cultura classica, allora l’Istituto può esser riconosciuto come esemplarmente europeo. Le sue scelte culturali hanno un rispondente politico nel progetto di superare i nazionalismi. La parola “federalismo” – ne sono consapevole – suscita in Italia numerosi malintesi. Ma il progetto in questione, che io attribuisco all’Istituto, ha un significato positivo: contro la logica dell’interesse individuale, contro la degenerazione dello statalismo in burocrazia, contro lo sfaldarsi progressivo della coscienza del bene comune occorre fare delle differenze il principio stesso dell’unione. La cultura – notava Denis de Rougemont – tende a dissociarsi dalla vita politica e sociale per mancanza di un principio organizzatore (come la Legge per gli ebrei, il latino per i sacerdoti, la morale calvinista, o la Ragione); per cui non resta che «il Denaro, che è una misura senza vita». Ebbene, l’elaborazione di un principio organizzatore della cultura, la sua attivazione ai livelli di competenza pertinenti e l’esempio offerto su scala europea costituiscono il terzo merito dell’Istituto, non certo il minore.

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