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Alfredo Ferrarin - Non uscire dalla stanza

9 aprile 2020

 

I.

È domenica 5 aprile, fuori è una bella e calda giornata di primavera. Tornano le prime rondini.

––––

Un vero sperpero.



II.

In questi tempi di reclusione, un amico russo, Dmitri Nikulin, mi ha mandato da New York una poesia di Brodskij. È sferzante come tutte le cose del poeta, ed è ironica e non significa quello che sembra: nella claustrofobica Unione Sovietica del 1970 è impossibile amare una gabbia e rendersi sordi a quanto sta fuori (nelle parole indimenticate di un detenuto alla fine di Cesare deve morire dei fratelli Taviani – che parla di sé, non di un regime –: «da quando ho scoperto il teatro, questo carcere è una prigione»). La chiusa della poesia è così sinistramente profetica che mi induce a fare una cosa che contravviene a qualsiasi serietà io abbia appreso nella mia educazione letteraria, che non ha molti principi se non due, giusti e saldi: uno è che non si apprezza una poesia se non nella lingua in cui è scritta, l'altro è che non si traduce da una traduzione. Non conosco, ahimè, il russo; e se non ci fosse questa quarantena andrei in una buona biblioteca (sul web circolano volenterose, tristemente e prevedibilmente inani prove di traduttori automatici da siti russi) a cercare qualcuno più affidabile di me – che provo a tradurla dall'inglese, con l'aiuto del mio amico che l'ha tradotta a sua volta. Saltano le rime, il gioco di parole tra le sigarette bulgare e il sole nel secondo verso, e la splendida allitterazione con le parole che finiscono tutte in 's' nell'ultima riga (sia maledetta la razza, come al solito). Metto però anche il link al poeta che la recita in russo. Di nuovo, io non capisco quello che dice, ma vi invito a ascoltarlo. La voce, la forza dolente ritmata in, assicura Dmitri, esametri dattilici, è memorabile come la persona e la sua scrittura. E perfino la sua tomba a San Michele a Venezia.

 

Joseph Brodsky, Non uscire dalla stanza

https://urldefense.proofpoint.com/v2/url?u=https-3A__www.youtube.com_watch-3Fv-3DpNinYdYpQhM&d=DwIFaQ&c=slrrB7dE8n7gBJbeO0g-IQ&r=j1umqtHgNcYxrseEHzq1Vg&m=37WMiCD1rPAqpHEQ4V-L0cNuSeiHvsP0wbnJdEaztoA&s=-1hUDAuwvyNFUF6hT_EVBnmdKyn8qaMuy7SywbN7GUE&e=

 

Non uscire dalla stanza, non far questo errore.
Se fumi le Scipka, a che ti servono le Solnze [= i soli]?
È tutto insignificante fuori, soprattutto gli strepiti di felicità.
Va' in bagno, e torna subito.

 

Oh, non uscire dalla stanza, non chiamare un taxi
perché lo spazio consta di un corridoio
che finisce in un contatore. E se dovesse entrare una ragazza
che apre le labbra invitante, falla sparire senza spogliarti.

 

Non uscire dalla stanza, fai finta di aver preso un raffreddore.
Che c’è più divertente di quattro mura e una sedia?
Perché lasciare questo posto se poi devi tornare tardi
La sera identico a com'eri, anzi, sbattuto?

 

Oh, non uscire dalla stanza. Balla la bossa nova

con un cappotto sul corpo nudo, con le scarpe ai piedi nudi.

Il pianerottolo odora di sciolina e cavolo sottaceto.

Hai scritto un sacco di lettere: un'altra sarebbe di troppo.

 

Non uscire dalla stanza. Oh, lascia la stanza ad immaginare

il tuo aspetto. E in genere, in incognito

ergo sum, come la sostanza fece notare, petulante, alla forma.

Non uscire dalla stanza! Mi sa che là fuori mica è la Francia.

 

Non essere stupido! Non essere come gli altri.

Non uscire dalla stanza! Cioè, lascia che i mobili facciano come gli pare,

confonditi con la carta da parati. Chiuditi dentro e barricati con l'armadio
per impedire di entrare a chronos, cosmos, eros, [razza], virus.



III.

Ho avuto molti studenti che si sono laureati in filosofia con me provenendo da un'attività professionale in altre discipline. Molti medici, spesso in pensione, e, chissà perché, diversi cardiologi – sempre i più bravi tra i non filosofi. Ricordo una cardiologa che scrisse una tesi sull'immaginazione in Spinoza; un'altra sulla libertà nella filosofia del diritto di Hegel; e infine uno, che vedo ancora regolarmente, che ha scritto su Kant, su Hegel, e pure tenuto una conferenza su Fichte. Per riserbo, non aggiungo altro e mi limito a dire che c'è una certa stima reciproca. Si chiama Paolo Donateo, ed è cardiologo all'ospedale di Lavagna. Ieri sera mi ha mandato questa lettera, che pubblico dopo avergliene chiesto il permesso. La condivido come una testimonianza preziosa, in prima persona, da parte di uno di quelli (e sua moglie è infermiera) che oggi ci piace chiamare i nostri eroi, dopo averli per anni denigrati (spesso ultimamente pure malmenati), facendoli lavorare a ritmi bestiali, tagliando i loro fondi, riducendone il personale e dirottando sul privato risorse pubbliche, sospettandone infine la corporazione intera di diffuse malversazioni nella gestione del denaro pubblico; eroi che, quando tutto questo sarà finito, speriamo non dover riconoscere, in un futuro anteriore, di aver nuovamente dimenticato. Perché la generosità non genera passioni calde; si riceve, se se ne ha l'occasione e non costa granché si ringrazia, e si tira dritto.

 

Caro Alfredo,

sono profondamente triste e resterò segnato per sempre da drammi quotidiani, occhi persi, sguardi vuoti, parole offuscate, famiglie separate da destini comuni che hanno condotto le vite di mariti in reparti e città diverse dalle mogli, senza più speranza di rivedersi né di avere notizie reciproche spesso per sempre; e mi fanno tenebrosa compagnia le urla di disperazione di quando un figlio sarà per sempre strappato ai genitori o viceversa. Perché di questo si tratta. E dei momenti terribili in cui devi (ripeto, devi) decidere di accompagnare alla morte chi soffre oramai da giorni senza più alcuna speranza. E devi dirlo ai familiari al telefono, i quali familiari non potranno mai più rivedere da vivo né da morto il proprio congiunto.
E non sarà mai stata raccontata a fondo la realtà del "dubbio intelletto" di coloro che non hanno rispettato le regole per sconfiggere un virus che, ad oggi, è uno stupido virus né sarà mai capito dalla stessa gente e dalle nostre "amministrazioni" (si fa per dire) quanto ci sia bisogno di medici e infermieri, tagliati nei decenni da stupidi politici che ora fanno a gara a chi vuol costruire l'ospedale più grosso o vuole acquistare macchinari o lancia campagne per avere infermieri e medici. Questa è la situazione.
[...] Paolo"

 

Si fa molto parlare in questi giorni di come sarà ricominciare. È diffuso il sentimento di quanti sperano che la crisi ci costringa a battere strade diverse e sia un'opportunità per prendere misure – economiche, politiche, sociali – in controtendenza rispetto ad anni recenti. Sarebbe urgente una dieta per il nostro mondo interconnesso, un tagliando per registrare la macchina liberandola dalle scorie di tutto il superfluo accumulato; sarebbe urgente pesare di meno sul pianeta. Sarebbe importante sviluppare modalità di lavoro e interazione che il mondo digitale che ci tiene a galla in queste settimane sembra poter offrire, purché dimettiamo stili acquisiti come privilegi, sprechi, la velocità come comodità – frenesie senza costrutto, come Hegel chiamava il movimento del pulviscolo. Staremo a vedere. Con il mondo in frantumi che dovrà riprendersi da uno scenario apocalittico, progettare modi inediti di farlo funzionare con maggiore giustizia, cooperazione e solidarietà è certo un dovere, oltre che un augurio. Come esser lievi alla terra: è di questo che si parla quando si parla di ripensare l'unione europea, il mercato, il lavoro, l'immigrazione, la distanza cui dovremo abituarci nei rapporti umani, l'idea di un futuro che non sia distopico, né l'enclave confortevole di quanti ci sono già asserragliati. «Un vaste programme». Ma è anche vero che, se non accade ora, quando dovrebbe succedere? 

Sarebbe dignitoso, però, mostrare un po' più sobrietà e onestà: una coscienza del contesto, che è noto ma non pare molto conosciuto. Ad esempio, chiedendosi quanto il nostro modello economico sia riformabile secondo tali propositi e compatibile con inviti alla moderazione, all'equità, alla condivisione (il virus non conosce classi, muri e neanche confini, si legge in questi giorni; non è vero, e comunque c'è da ribattere: per forza, classi, muri e confini li fanno gli uomini). Oppure, si può mostrare un senso della misura e della decenza non dimenticando che non gode di grande fortuna, soprattutto in Italia, la lungimiranza, perché non paga per uno sguardo a breve termine –– che sono poi la definizione rispettiva di guardare lontano e di miopia (non è la lungimiranza ma l'immaginazione come uno sguardo troppo lontano, che finisce per divenire ansiogeno, che Hobbes critica nella figura di Prometeo). Sono innumerevoli anni che si chiede di puntare su innovazione sostenibile, ricerca, ambiente; e altrettanti che i tagli a sanità, università, scuola, cadono puntuali con la scure di ogni nuovo governo (lo so, non ogni governo è uguale, ma uguali sono stati i tagli in questi anni). Al personale sanitario come a quello docente viene chiesto sempre di più di amministrare le perdite come dei curatori fallimentari (a cui ci avvicinano progressivamente anche gli adempimenti burocratici rigidi e le ottemperanze formali e vuote in ossequio a criteri grottescamente arbitrari). La speranza è una cosa, un'altra l'ottimismo; e la fretta di tornare al mondo di ieri, comprensibile per il disastro economico di milioni di persone in grave affanno, rischia di diventare, per quanti di noi ci saranno ancora, il sollievo per lo scampato pericolo. Che non è un buon auspicio.



IV.

La lettera di Paolo Donateo riecheggia per me alcuni punti che avevo toccato in una lettera ad amici americani una settimana fa. Parlava della morte, o, meglio, del morire, e dell'umanità come di una capacità di tendere ponti. Parlava dell'accompagnare i morti, di celebrare riti istituiti per condividere dolori e gioie in una veste esteriore in cui ci possiamo riconoscere, e dell'esercizio della memoria in liturgie laiche di rispetto e di civiltà –– tutto questo il coronavirus ci sta impedendo di osservare. I vivi e i morti non sono accomunati da qualcosa che è loro esterno e indifferente, la natura, la materia, il mondo («it snows on the living and on the dead», scriveva Joyce; è equanime la neve), ma dalla cura e dalla sollecitudine della memoria dei vivi che presta ancora un po' di essere a chi gliene ha dato e non è più. E questo non è semplicemente un dovere, ma più essenzialmente quello che ci rende umani.

È in un inglese meno difficile della traduzione di Dmitri di Brodskij, quindi la riporto com'era:

 

One dies alone. This is an essential truth whose brutality you need not have read Tolstoy or Kafka to be familiar with, and a simple fact which I cannot bring myself to finding especially tragic or frightening.

What is ugly about this virus is that now you die alone even literally. Your contact with the world is severed, nobody is allowed near you as your breathing progressively collapses. And when you are aware of what is going on you realize you will not have a chance to say good-bye, to hear the last words your loved ones meant to tell you, to welcome the last gestures they wanted to make, to remind them you owe a cock to Asclepius.

And there will be no funeral, no gathering of friends and family, no mourning other than in a private, virtually secretive form. The promise of a postponement of a memorial service is like a rain check likely never to be cashed. This death is not like being swept away by a stroke or heart attack, which robs you of your life suddenly and many times without your consciousness. Here thousands of people have one or two weeks of last thoughts they cannot communicate. This unusual kind of silence in the forced isolation, these few words forever lost, this impossibility of looking back and taking leave: this is new.

Humanity is about bridges, rites of passage, lay liturgies organizing the sharing of grief and joy, a civilized form of respect. I said to many of you in the past weeks that I did not know of anyone who was affected. Yesterday my father's cousin passed away. Like so many, he was infected by his family who did not know they were positive to the virus. If that adds to their pain, it also underscores how being human is about being able to accompany the dying, to remember together their life, to see them live on a little longer in ceremonies marked by the cadence of time.

The tacit pact between the dying and the living: this elementary, fundamental civility is what this virus is effacing.

Stay healthy.

 

Appunto, questo è l'augurio: state in salute. Non uscite dalla stanza. Verrà un momento per farlo, e per ripartire.

 

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