Stampa questa pagina

Gerardo Marotta - Gli Hegeliani di Napoli nel Risorgimento e dopo la seconda guerra mondiale

Per Gerardo
26 aprile 2020

 

Dopo la seconda guerra mondiale, da cui, come ricorda Calamandrei, eravamo sfuggiti brancolando come dall’asfissia di un immenso incendio, il teatro della cultura europea fu caratterizzato da una visione che poneva da una parte il mondo del capitalismo e del liberismo economico e dall'altra il mondo del comunismo e della pianificazione economica. Queste concezioni del mondo occupavano le menti delle classi dirigenti, ma non s'intravedeva una memoria storica capace di collegare dialetticamente quella contrapposizione ai grandi accadimenti che avevano determinato l'assetto e le costituzioni dell’Europa dagli eventi della Rivoluzione francese fino alle due guerre mondiali, e gli effetti, sulla storia d'Europa, dell’irrazionalismo e delle filosofie deteriori che continuavano a esercitare la loro influenza negli anni del dopoguerra.

A Napoli, la presenza di Benedetto Croce, una grande figura del liberalismo europeo, che già aveva combattuto una vigorosa polemica contro il positivismo agli inizi del secolo, continuando la battaglia di Antonio Labriola, fu di grande incoraggiamento per il gruppo di giovani che facevano capo all’Associazione Cultura Nuova e al Gruppo di Studi Antonio Gramsci. Quei giovani, grazie allo scritto del Croce La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900 fecero propria la tradizione filosofica e politica del pensiero risorgimentale degli hegeliani di Napoli da Spaventa a De Sanctis ad Antonio Labriola, e collegarono quella tradizione alla Rivoluzione francese, alla Rivoluzione napoletana e alla filosofia classica tedesca. Quel gruppo giovanile si era reso consapevole che quella tradizione di pensiero era, durante gli anni del Risorgimento, fiorita sul robusto tronco della filosofia classica tedesca, la quale, come aveva affermato lo Heine, era «la trasposizione nel pensiero della Rivoluzione francese». Quel gruppo di giovani si era dunque reso consapevole che la strada maestra per la formazione delle nuove generazioni e di una vera classe dirigente che poteva creare l’Europa dell’Umanesimo – e non l’Europa del profitto e della corsa all’arricchimento –, era quella segnata dalle lotte, dal carcere e dall’esilio degli hegeliani di Napoli e in particolare da Bertrando e Silvio Spaventa che negli anni delle lotte risorgimentali avevano visto con chiarezza come la filosofia italiana del Rinascimento soffocata in patria dai roghi e dalle torture (Bruno e Campanella e innumeri altri martiri del pensiero) fosse trasmigrata in Europa dando vita alla grande filosofia europea da Spinoza a Hegel. La grande intuizione di questo gruppo giovanile riapriva la strada che si era smarrita dopo il bagno di sangue e la distruzione della cultura napoletana provocata dalla repressione della Repubblica Napoletana nel 1799. A seguito della soppressione degli uomini di cultura che avevano aderito alla Repubblica Napoletana, l’Europa aveva perduto la memoria del grande patrimonio dell’Umanesimo meridionale costituito da Giordano Bruno e Tommaso Campanella fino a Gianvincenzo Gravina, a Giambattista Vico, alla Scienza della Legislazione di Gaetano Filangieri. E perciò l’Europa che uscì dal congresso di Vienna non fu quella della Scienza della Legislazione e dell’Umanesimo, ma fu l’Europa del profitto e della corsa all’arricchimento riassumibile nella frase di Benjamin Constant «francesi arricchitevi!».

Dell’insegnamento di Bertrando Spaventa è stato dato un quadro preciso da Teodoro Sträter nelle sue corrispondenze da Napoli indirizzate alla rivista “Der Gedanke” di Berlino sulla filosofia italiana e sul risorgimento dell’Università di Napoli ad opera degli hegeliani reduci dalle carceri e dagli esili; quell’Università che nell’ultimo decennio prima dell’Unità era in un tetro e desolato squallore, come ha ricordato Benedetto Croce in La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900. «L’importanza storica di Spaventa», aveva scritto Sträter nella seconda lettera del 1865, «consiste proprio nel fatto che egli, come nessun altro finora in Italia, ha esposto con chiarezza ai suoi connazionali questo rapporto del pensiero italiano con la filosofia europea, e inizia così ora a fondare una vera e propria scuola: la sua Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella università di Napoli del 1861 è da questo punto di vista un’opera d’importanza storica in Italia, in quanto in essa ha riassunto l’intera storia della filosofia moderna fino a Hegel e a Gioberti in una panoramica di grande chiarezza e comprensibilità, e in tal modo ha formulato nella maniera più acuta i problemi del pensiero moderno». Nella prima lettera del 1864 Sträter aveva affermato che, «se la filosofia moderna avrà mai un futuro, e deve attendersi una vita più intensa e un più ricco sviluppo, tutto questo non sarà né in Germania, né in Francia o in Inghilterra, bensì in Italia, e in particolare su queste meravigliose coste del Meridione, dove un tempo i filosofi greci hanno già pensato i loro pensieri immortali. Ciò che distingue la maniera di filosofare di qui dalla sempre più soffocante erudizione libresca che sa di chiuso in Germania, è la caratteristica vitalità, l’intensa energia, il vivace temperamento: in tutti questi Italiani che si dedicano adesso alla regina delle scienze, in particolare però nel professor Spaventa e nei suoi discepoli, la filosofia è diventata veramente quello che dovrebbe essere dai tempi di Fichte: vita, azione, carattere personale, vorrei dire religione del cuore e non una semplice occupazione mentale fra le altre. […] Spaventa infatti possiede in questo senso qualcosa di socratico nella sua personalità: sa trovare nell’anima dei suoi giovani ascoltatori il punto dove deve prorompere la pura sensibilità per l’intera e piena verità dialettica della moderna coscienza e del moderno sapere; ed egli si trova nella situazione favorevole di poter sostituire l’oggettività spirituale – la Chiesa romana – , che egli dissolve nella loro interiorità, con un’altra oggettività, cioè il vero Stato moderno e il suo pieno dispiegamento alla libera religione, alla libera arte e alla libera scienza».

Ecco perché a Napoli la battaglia di quel gruppo giovanile che si stringeva intorno all’Associazione Cultura Nuova e ai seminari del Gruppo di Studi Antonio Gramsci e la presenza combattiva di Benedetto Croce e del suo magistero fu di grande ostacolo alla prepotente invadenza del positivismo che imperversava da ogni parte con le schiere dei salveminiani protagonisti da una parte di un filo di pensiero nettamente antirisorgimentale che si fregiava, accanto alla figura del Salvemini che era ancora vivo e combattivo, di grandi personalità martiri dell’antifascismo come quelle di Piero Gobetti e dei fratelli Rosselli che erano stati appunto allievi di Gaetano Salvemini e ne avevano condiviso le idee antifasciste ma anche quella concezione negativa dello Stato unitario e del Risorgimento come conquista regia e mancata rivoluzione di popolo. Dall’altra parte, si era formato, negli anni della lotta al fascismo, proprio intorno al pensiero di Salvemini, un gruppo agguerrito di meridionalisti, che in una funesta contrapposizione fra nord e sud dell’Italia, rivendicavano, in polemica con lo Stato unitario, una visione regionalista e perfino separatista del Mezzogiorno, indicando la questione meridionale come conseguenza negativa del Risorgimento.

Per queste ragioni, la battaglia di quel gruppo giovanile, che operò a Napoli negli anni tra il 1947 e il 1954, da una parte, era diretta contro le teorie anarchiche antistataliste da Proudhon alla teoria marxista dell’estinzione dello Stato, dall’altra, si concentrò sulla difesa del Risorgimento come la grande rivoluzione italiana che aveva dato vita allo Stato unitario «non come effetto di impetuosi interessi economici o di fanatica religione ed orgoglio di stirpe», scrive Croce nella Storia del Regno di Napoli, «ma mosso e animato da dignità morale, rischiarato da luce intellettuale, non angusto nella sua rivendicazione della patria, benevolo e fraterno verso gli altri popoli, amici e nemici, e solo desideroso che gli italiani riprendessero tra di essi e con essi il loro posto nell’opera comune della civiltà moderna». La questione dello Stato fu posta da quel gruppo giovanile al centro della polemica contro l’antistatalismo di tutta quella parte politica e culturale che comprendeva vasti settori dei partiti democratici, dal Partito d’Azione a quelli della sinistra e che non potevano comprendere, proprio per il loro filo di pensiero antistatalista, che la fondazione dello Stato unitario era stato, proprio quello, il grandioso risultato della rivoluzione risorgimentale, un concetto che aveva ben compreso Golo Mann quando scrive che la rivoluzione risorgimentale in Italia fu «come l’eco più possente che la Grande Rivoluzione avesse mai avuto, qualche cosa di più decisivo e di più fortunato di quella rivoluzione stessa, perché l’Italia era un concetto del tutto nuovo, mentre la Francia era già esistita da lungo tempo». In Italia la “rivoluzione unitaria” e il nuovo Stato inflissero colpi durissimi ai residui feudali sempre risorgenti, che si ripresentano, tuttora nel nostro paese, sempre animati dalla stessa natura predatoria.

Fu inutile l’appello a studiare il pensiero di Gramsci e furono un elemento di contraddizione le posizioni del Togliatti per la ripresa degli studi sul Risorgimento e sull’opera degli Spaventa e di Antonio Labriola e dello stesso pensiero di Hegel; questo era già stato oggetto a suo tempo, negli anni seguiti alla prima guerra mondiale, di appassionati seminari a Torino del gruppo giovanile socialista che aveva visto lo stesso Togliatti e Antonio Gramsci protagonisti nella promozione di dibattiti sulla “Grande Enciclopedia” dello Hegel. Ma il Togliatti nonostante la sua grande autorità e il suo prestigio, non riuscì a portare a termine, sulle orme di Antonio Labriola, la rivoluzione contro il cuore anarchico delle ideologie di tutta la sinistra europea, mentre la polemica contro il concetto e la figura dello Stato montava irresistibile nella cultura e nella politica europea e il gruppo giovanile di Napoli dové combattere contro il dilagante positivismo antistatalista. Quel gruppo, oltre che dagli studi hegeliani, traeva nutrimento dalla memoria della Rivoluzione napoletana del 1799 e dell’altissimo pensiero politico napoletano – una memoria sempre ravvivata dagli studi di Benedetto Croce –, proponendo ai giovani la grande tradizione del pensiero meridionale da Bruno a Campanella a Vico, e Filangieri e Paolo Mattia Doria e Francesco Mario Pagano come i grandi pensatori dello Stato moderno.

Questa premessa può aiutare a comprendere le ragioni che hanno portato alla creazione nell’anno 1975 dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e alla sua grande battaglia per la ripresa degli studi su Filangieri, Genovesi e Pagano e sulla Rivoluzione napoletana del 1799, nonché sull’hegelismo napoletano come altissimo pensiero guida del Risorgimento italiano e come erede dell’Umanesimo meridionale. Accanto alla memoria della nostra storia, fervevano nell’Istituto gli studi sulla grande storiografia di Mathiez, Lefebvre e Soboul sulla Rivoluzione francese, nonché gli studi sulla filosofia classica tedesca e la pubblicazione di centinaia di ricerche su questi temi.

L’abbandono della vera filosofia e della tradizione politica “in senso alto” provocò la crisi della grande cultura europea e l’Europa fu trascinata nella rovina. Proprio Benedetto Croce aveva già scritto nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 che fin dall’inizio del Novecento, «si insinuava qualcosa di mal sicuro e di poco sano. […] la coscienza morale d’Europa era ammalata da quando, caduta prima l’antica fede religiosa, caduta più tardi quella razionalistica e illuministica, non caduta ma combattuta e contrastata l’ultima e più matura religione, quella storica e liberale, il bismarckismo e l’industrialismo e le loro ripercussioni e antinomie interne, incapaci di comporsi in una nuova e rasserenante religione, avevano foggiato un torbido stato d’animo, tra avidità di godimenti, spirito di avventura e conquista, frenetica smania di potenza, irrequietezza e insieme disaffezione e indifferenza, com’è proprio di chi vive fuori centro, fuori di quel centro che è per l’uomo la coscienza etica e religiosa».

Dopo la seconda guerra mondiale e “la distruzione dell’Europa” i governanti avevano il dovere di realizzare l’Europa dell’Umanesimo per concretare quelle speranze e quell’unità politica e morale europea preconizzata e invocata dai martiri nei campi di concentramento e dagli uomini e dalle donne che si sacrificarono eroicamente nella resistenza europea e non videro mai i frutti del loro immenso sacrificio. 

L’Italia riuscì a riscuotersi dagli anni bui del fascismo e, ricollegandosi alla grande tradizione del suo più alto pensiero politico, approvò la Costituzione che fu l’ultimo atto dell’epopea del Risorgimento. Ma con la scomparsa dei grandi filosofi e statisti che avevano resistito al fascismo, da Francesco Saverio Nitti a Benedetto Croce a Adolfo Omodeo a Piero Calamandrei, si rifece spazio quella «mediocrità endemica della classe dirigente italiana» (Nitti), quella mediocrità endemica che Nitti aveva denunziato già prima dell’avvento del fascismo. Scompariva anche Luigi Einaudi e la sua instancabile battaglia per dar vita ad un solo Stato europeo e ad una sola volontà politica che avrebbe posto fine alle guerre civili fra i singoli Stati. Con lui scompariva anche tutta una generazione, da De Gasperi ad Adenauer a Schumann a Spaak a Kreisky che condividevano con Einaudi il programma degli Stati Uniti d’Europa. Le classi dirigenti europee attesero soltanto alla ricostruzione delle città distrutte ma abbandonarono a se stesse le nuove generazioni, provocando in tal modo la crisi della ricerca e della formazione e la profonda e irreversibile crisi delle università. Sembra sia stato vano il sacrificio di diecine e diecine di milioni di uomini e tanto sangue dei popoli europei! Solo nella cultura e nella vera filosofia è la salvezza. È per questo che facciamo nostro l’appello di Thomas Mann: «Ciò che oggi sarebbe necessario è un umanesimo militante, che scopra la propria virilità e si saturi della convinzione che il principio della libertà, della tolleranza e del dubbio non deve lasciarsi sfruttare e sorpassare da un fanatismo, che è senza vergogna e senza dubbi. Se l’umanesimo europeo […] non è più in grado di rendere la propria anima consapevole di se stessa andrà in rovina e ci sarà un’Europa il cui nome non sarà più che un’espressione e da cui sarebbe meglio rifugiarsi nella neutralità fuori del tempo».

 

Letto 2089 volte