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Giuseppe Cammisa - Memoria del possibile - Le prigioni di lunga durata*

11 settembre 2020

 

Quando nel laboratorio organizzato dall’Istituto Italiano Studi Filosofici ci è stato chiesto di riflettere sulla rilevanza storica del fenomeno pandemico, la mia attenzione era già stata catturata dalla peculiare polarizzazione del dibattito pubblico, che non ha risparmiato nemmeno le sue punte, per così dire, più erudite. Se la contrapposizione generale tra cosiddetti “negazionisti” e “affermazionisti” verteva, e verte ancora, sullo statuto di realtà della epidemia/pandemia, il dibattito “specialistico” si è polarizzato intorno alla definizione della rilevanza storica dell’evento e sulla valutazione delle politiche di distanziamento interpersonale. Pur nell’eterogeneità delle opinioni, il tentativo di dare una risposta alla prima questione ha dato luogo ad un’opposizione piuttosto netta tra chi ha liquidato la pandemia come fenomeno storicamente poco rilevante, e chi invece vi ha letto i segni di un’imminente catastrofe, da rifuggire o da sfruttare a seconda delle differenti sensibilità. La stessa dinamica si è presentata quando si è trattato di vagliare criticamente le politiche di distanziamento interpersonale adottate dai diversi governi: i fautori delle politiche di distanziamento hanno mostrato una fede scientistica nella natura neutra, impersonale e tecnica delle decisioni assunte, mentre chi vi si opponeva non ha contestualizzato una critica in grado di andare al di là della sterile e reattiva provocazione intellettuale. Tuttavia, l’impressione è che, al di là delle contrapposizioni sopra brevemente descritte, tutte le posizioni condividano almeno due vizi di fondo: il primo, di origine accademica, consiste nel sacrificare tutta la complessità del fenomeno da analizzare, qualunque esso sia, al fine di inserirlo a forza in modelli categoriali oliati in decenni di onorata carriera votata all’iper-specialismo; il secondo, dalla natura più squisitamente filosofica, dipende invece dall’adesione, fuori tempo massimo e perlopiù inconscia, alla concezione della verità come adaequatio rei et intellectus. Adesione che non solo impedisce di riconoscere il carattere sempre parziale e provvisorio di ogni verità, ma soprattutto non permette di procedere ad un preliminare confronto collettivo sui criteri di verità di un discorso che, lo ricordiamo, concerne fenomeni ancora in corso di svolgimento ed evoluzione. Discorso che nella nostra prospettiva dovrebbe rinunciare alla pretesa di una perfetta corrispondenza con i fatti, e cercare di offrire, forse più modestamente, una rappresentazione sensata della realtà che non ne sacrifichi la complessità e che sia capace di orientare i comportamenti dei soggetti che con essa si confrontano. Alla luce di tutto ciò, come valutare la rilevanza di un evento storico quale l’attuale pandemia e il conseguente regime di distanziamento interpersonale senza ricadere nei due vizi appena criticati? Tornare alla storia, giacché la pandemia non è fenomeno prodottosi in vitro, ma si inserisce in una trama storica altamente complessa ed intricata di fenomeni culturali, sociali, geopolitici e geoeconomici, non azzerando ma accelerandone le dinamiche latenti. Tornare in particolare a Braudel, il quale consigliava di «diffidare ad ogni istante della eccessiva semplicità delle nostre suddivisioni», e di non dimenticare «che la vita è un tutto unico, che anche la storia deve esserlo e che non bisogna perdere di vista in nessuna occasione, neppure per un attimo, l’intrecciarsi infinito delle cause e delle conseguenze»1. A questo punto, pur rischiando di cadere nel didascalismo, sembra inevitabile un confronto preliminare tra la prospettiva della storia evenemenziale e i filoni interpretativi riconducibili alla storia della longue durée e, in ultima istanza, alla scuola storica delle Annales, al fine di mostrare la necessità attuale di una loro reciproca integrazione. Per storia evenemenziale si intende quella storiografia, essenzialmente politico-militare, che ha come fulcro le decisioni, principalmente individuali, e i loro importanti effetti. Benché il riferimento ad una solida cronologia degli eventi sia indispensabile per qualsiasi interpretazione dei fenomeni che voglia dirsi storicamente fondata, la debolezza di una simile modello storiografico sta nel suo individualismo metodologico di fondo, che impedisce di intravedere i profondi vincoli storici, sociali e psicologici che stanno alla base di ogni decisione presuntamente individuale, finendo così per proporre un’immagine radicalmente impoverita della stessa azione e decisione storica. In secondo luogo, questa prospettiva interpretativa finisce per polarizzare il giudizio sull’azione/decisione dell’attore storico tra i due estremi della assoluta razionalità strumentale rispetto allo scopo e dell’insondabile ma ineliminabile irrazionalità dell’uomo. Ciò è emerso con particolare evidenza nella valutazione giornalistica delle forme di distanziamento interpersonale propugnate dai diversi governi, dove il giudizio di razionalità/irrazionalità delle decisioni assunte non ha minimamente preso in considerazione i retroterra materiali, sociali, e psicologici delle suddette scelte, i quali sono inevitabilmente storicamente determinati. Infine, il modello della storia evenemenziale, presupponendo un certo monismo psicologico e fondandosi sul principio dell’astoricità delle strutture mentali, non consente una coerente categorizzazione degli eventi storici, il che determina non solo la tendenza ad una non rigorosa distinzione tra il piano soggettivo della biografia individuale e quello storico-sociale, ma dà anche luogo a gravi confusioni tra eventi critici sul piano geopolitico, eventi di rottura dell’immaginario e del patrimonio simbolico collettivo, e i fenomeni critici in cui si condensano e vengono a galla processi latenti di sommovimento dell’ordine costituito, capaci di investire tanto la dimensione materiale dei concreti rapporti di produzione quanto la dimensione “sovrastrutturale” delle rappresentazioni collettive. Ora, l’ipotesi che la presente riflessione intende portare avanti è che l’attuale pandemia e le conseguenti politiche di distanziamento interpersonale rientrino in quest’ultima tipologia, ma ciò può risultare pienamente intelligibile solo integrando un’imprescindibile storia dei fatti con le principali acquisizioni teoriche della scuola storica della longue durée. Risulta cioè centrale la nozione braudeliana di «prigione di lunga durata», ovvero di grandi strutture inerziali costituite da vincoli fisici e produttivi che hanno finito per modellare le strutture sociali, demografiche e psicologiche della società. Al riguardo, appare particolarmente feconda la declinazione della sopracitata categoria che Luigi Ferrari offre nel suo poderoso studio su L’ascesa dell’individualismo economico, e che può risultare utilissimo per un corretto inquadramento storico complessivo dell’attuale evento pandemico. La ricerca di Ferrari poggia sul rapporto dialettico e circolare che intercorre tra «prigioni materiali di lungo periodo» e «prigioni psicologiche di lungo periodo». Individuando un debito di Braudel nei confronti della riflessione di Marx, l’autore interpreta le prigioni materiali di lungo periodo come l’unione inscindibile tra le forze produttive, ovvero il «complesso delle risorse materiali, tecniche e umane che in una data epoca vincolano un sistema economico sociale»2, e i rapporti di produzione, cioè «l’insieme dei rapporti sociali, dei rapporti giuridici, dei rapporti di proprietà e di controllo delle risorse, nonché dei modi di appropriazione del prodotto tra agenti economici di una società». Se è vero che le prigioni psicologiche di lungo periodo rappresentano una diretta conseguenza delle prigioni materiali di lungo periodo, bisogna tener presente la natura dialettica e circolare del loro rapporto, in quanto la dimensione “sovrastrutturale” finisce per retroagire su quella “materiale”, ponendo così le condizioni per la sua perpetuazione. Alla base della categoria di prigione psicologica di lungo periodo Ferrari pone l’assunto di Febvre, secondo cui «l’individuo è ciò che il suo tempo gli permette di essere»3, il che significa che «l’uomo non può trasformare la sua realtà e se stesso oltre un certo livello, che è dettato dalla costellazione delle condizioni psico-sociali attuali e dalla storia profonda che grava alle spalle di ogni generazione»4. Ma le prigioni psicologiche di lungo periodo si fondano soprattutto sul «modello delle sopravvivenze psicologiche», il quale a sua volta poggia sulle ipotesi dell’inerzia dei quadri mentali e della contemporaneità della storia mentale: se la prima prevede che «anche la trasformazione più totalitaria e coercitiva delle strutture mentali profonde, sotto l’urgenza più martellante dell’adattamento al cambiamento socio-economico, non è mai definitiva»5, la seconda immagina «che i quadri mentali delle epoche passate in realtà siano sempre presenti nella mente contemporanea come in una sorta di deposito da cui scompare poco o nulla in forma davvero definitiva»6. Un simile impianto interpretativo permetterebbe di spiegare la coesistenza di innovazioni materiali e antichi schemi adattivi di psicologia collettiva (e viceversa), senza ricorrere alla scappatoia concettuale dell’irrazionalità fondamentale della natura umana, inevitabile nel caso si assuma la prospettiva del progresso lineare dei quadri materiali e mentali. L’interesse per tale modello storiografico è giustificato anche dal legame che Ferrari rintraccia tra le epidemie verificatesi nella prima età moderna e l’emergere delle prime manifestazioni psicologiche di individualismo, destinate nel tempo ad assumere la forma matura di individualismo economico. Sono qui inevitabili delle generalizzazioni anche estreme, ma è possibile affermare che nella prospettiva interpretativa qui esaminata l’individualismo economico della nostra contemporaneità è da intendersi come il frutto maturo di un individualismo antropologico affermatosi in Europa a partire dal XVI secolo, il quale fu a sua volta la risposta ad un disastro psicologico senza precedenti, poiché i singoli e le collettività dovettero all’epoca confrontarsi con una radicale perdita di senso del mondo e delle sue rappresentazioni tradizionali. Da un lato, si manifestarono conflitti asprissimi sia in seno alle singole comunità che tra le diverse comunità politiche. Conflitti che si originarono dall’affermazione dei «più moderni modi di produrre e di dividere la ricchezza e dall’inusitata conseguente disarticolazione di tutti i punti di riferimento base del vivere sociale»7. Dall’altro la violenta divisione della cristianità europea determinò il crollo dei trinceramenti psicologici medievali nel magico e nel religioso8. Fu in questo contesto che emerse una delle strutture psicologiche e sociali portanti del moderno individualismo, che rappresentò un elemento di discontinuità radicale rispetto al collettivismo di fondo della società e della psicologia medievali. Si tratta dell’idea che «ogni essere umano è irrimediabilmente antagonista di ciascun altro da cui, perciò, deve isolarsi psicologicamente anche quando, insieme, facciano pacificamente parte dello stesso gruppo umano»9. Tale «diffidenza individualista sistematica» trovò una sua fondamentale sistemazione teorica nell’antropologia hobbesiana dell’homo homini lupus, la quale non solo concepiva come connaturata all’uomo la lotta di tutti contro tutti, ma la estendeva anche ai rapporti di collaborazione, da intendersi in questo senso alla stregua di semplici tregue armate10. Tuttavia, secondo Ferrari, l’Homo homini lupus non è che la figura aurorale del moderno individualismo, la cui massima manifestazione deve, invece, essere rintracciata nell’immagine propugnata da Norbert Elias dell’Homo clausus. Questi, infatti, notò come a partire dal Rinascimento la costruzione dell’identità si sia progressivamente fondata sugli aspetti esclusivi dell’Io rispetto a quelli condivisi della collettività. Tale processo di centratura/chiusura dell’identità nell’individuo sarebbe l’elemento caratteristico della modernità, e nel ‘900 avrebbe oltrepassato ogni limite, determinando sentimenti prima inimmaginabili di evanescenza del mondo esterno, ipertrofia della soggettività e dubbi circa i reali contorni dell’esistenza11. Come anticipato, nello sviluppo che va dalla figura dell’Homo homini lupus a quella dell’Homo clausus le epidemie svolsero un ruolo decisivo. Benché fino a tempi recentissimi i ceti popolari abbiano continuato ad affrontare i fenomeni epidemici attraverso razionalizzazioni religiose (finendo per aggravare molto spesso il contagio), secondo Ferrari già a partire dalla Firenze del ‘300, e in misura ancor più chiara nell’Europa del XVI e XVII secolo, i ceti borghesi più pragmatici si mostrarono inclini a ricercare spiegazioni e soluzioni al contagio molto lontane da quelle propugnate dalla medicina ufficiale, la quale poggiava ancora sulla teoria galenica degli umori e sull’ipotesi dei miasmi. In altri termini, questi ceti si resero “precocemente” conto della necessità dell’isolamento, capirono che «l’unica via per salvarsi era di evitare ogni suggestione collettivistica, ricusare ogni obbligo e legame sociale, soprattutto nella forma del soccorso agli ammalati»12. E tuttavia proprio le epidemie, allora come oggi, gettano una luce sul reale funzionamento della struttura sociale moderna, mettendo sotto scacco l’individualismo sia sul piano teorico che su quello pratico. Ferrari individua proprio nel Journal of the Plague Year di Defoe – una descrizione romanzata della peste inglese del 1665, sotto forma di diario del personaggio immaginario H. F. – la più limpida espressione letteraria degli irrisolvibili paradossi dell’individualismo: se durante l’epidemia si fossero comportati tutti come il personaggio H. F., perfetto prototipo dell’Homo clausus, la società sarebbe andata incontro alla sua completa disgregazione. Il paradosso si risolve, dunque, solo perché nella società del tempo permanevano importantissime strutture sociali e psicologiche inerziali collettiviste, le quali rendevano socialmente possibile l’esistenza di sacche di individualismo. Detto altrimenti, la comunità inglese del racconto di Defoe sopravvisse sia per la sua struttura di classe, «che obbligava gran parte della popolazione ad accettare, per fame o per le condizioni di ignoranza e degrado13, rischi anche enormi», sia perché moltissimi borghesi del tempo non si caratterizzavano per una struttura individualistica della personalità nel senso pienamente moderno dell’espressione. Le cose cambiano però se si guarda alla nostra società che, a differenza di quella di Defoe, si caratterizza per una pressoché totale egemonia delle strutture materiali, sociali e psicologiche individualiste. Anzi si può benissimo affermare che la nostra società ha fatto della diffusione indefinita dell’individualismo economico e dei suoi vantaggi il suo principale mezzo propagandistico e la sua fondamentale fonte di legittimazione. In questo senso sarebbe interessante, e probabilmente necessario, analizzare la natura specularmente individualista dei discorsi che negli ultimi decenni hanno legittimato lo smantellamento delle strutture protettive intermedie dello Stato Sociale (impedendo alle nostre comunità di fronteggiare tempestivamente ed efficacemente un evento certamente drammatico ma non imprevedibile), e delle attuali forme discorsive di legittimazione delle pratiche di distanziamento interpersonale e sociale. Se nel primo caso la destrutturazione delle strutture sociali protettive intermedie ha fatto ampiamente leva sul loro carattere “oppressivo” e sulla conseguente necessità di una piena liberazione delle forze individuali dagli angusti vincoli sociali, anche la promozione del distanziamento interpersonale ha propugnato in buona sostanza forme di auto-disciplinamento individuale, finalizzate essenzialmente alla salvaguardia della vita biologica individuale da intendersi come valore sovraordinato. Quanto appena detto non contraddice il principio qui adottato delle sopravvivenze socio-economiche e psicologiche, giacché anche l’attuale epidemia permette di disvelare la strutturazione classista della nostra società, che ha potuto continuare a funzionare solo grazie alla persistenza di comportamenti “collettivistici” antitetici in linea di principio con l’idea dell’assoluta priorità della vita biologica individuale (basti pensare ai medici e agli infermieri attivi nei principali focolai dell’epidemia). La domanda da porsi sarebbe dunque la seguente: quali scenari futuri possono essere formulati sulle società occidentali, partendo dalla consapevolezza della natura largamente individualistica, e dunque nel lungo periodo antisociale, delle loro prigioni materiali e psicologiche di lungo periodo

 

1F. Braudel, Storia misura del mondo, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 65.
2L. Ferrari, L’ascesa dell’individualismo economico, Tortona-Alessandria, Vicolo del Pavone, 2016, p. 27.
3Ivi, p. 31.
4Ibidem
5Ivi, p. 34.
6Ivi, p. 36.
7
Ivi, p. 175.
8Ibidem.
9Ivi, p. 229.
10Ivi, pp. 231-237.
11Ivi, p. 250.
12Ivi, p. 241.
13Ivi, p. 246.


*Il testo è stato scritto nel contesto di un laboratorio dal titolo La memoria del possibilePer una narrazione condivisa, realizzato a cura di Enrico Donaggio (Università di Torino, Università di Marsiglia) in forma telematica nel periodo del lockdown, fra la fine di maggio e l’inizio di giugno 2020.

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