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“Green pass” e giovani. Esclusione, Hate Speech, capri espiatori

2 settembre 2021

Lettera aperta alle istituzioni

 

GREEN PASS” e GIOVANI

ESCLUSIONE, HATE SPEECH, CAPRI ESPIATORI

 

Carlo Cuppini *

Giovanni Agnoloni *

Enrico Macioci *

 

* scrittori e operatori culturali

 

 

  • è accettabile che lo Stato ponga ostacoli alla formazione intellettuale dei giovani e alla partecipazione attiva e passiva dei cittadini alla vita culturale del Paese, quale che sia il fine ultimo, anziché rimuoverli?

 

  • In Italia l’infanzia e l’adolescenza godono ancora di uno statuto speciale che garantisce loro una tutela straordinaria da parte delle istituzioni e della comunità?

 

 

Premessa: Green pass e Certificazione verde

 

Nel momento in cui si sono resi disponibili i vaccini anticovid, le istituzioni europee hanno avviato un percorso per porre coordinate e paletti politici, giuridici ed etici adeguati alla nuova fase della gestione della pandemia. L’obiettivo era quello di normare una materia complessa come quella della vaccinazione anticovid, favorendo la più rapida uscita dall’emergenza internazionale e facendo salvi allo stesso tempo – con uguale senso di priorità – i valori della democrazia e i fondamentali principi della civiltà del diritto.

In questo contesto il Consiglio d’Europa, con la risoluzione 2361 del gennaio 2021, ha disposto che la vaccinazione sia volontaria e che i non vaccinati non siano oggetto di discriminazioni. Successivamente, Commissione Europea e Parlamento Europeo hanno varato il “green pass”, uno strumento finalizzato a facilitare la libera circolazione e gli spostamenti tra le nazioni, ribadendo il principio di non discriminazione, come si legge nel regolamento UE 2021/953.

Il governo italiano, sulla scia di quello francese, ha voluto interpretare uno strumento nato con tale finalità come un dispositivo normativo che divide i cittadini in due insiemi destinati a beneficiare di differenti diritti e opportunità. La “Certificazione Verde Covid-19” che nasce con il decreto legge 23 luglio infatti non è il green pass varato dalle istituzioni europee. Eppure nell’immaginario comune, per via di ambiguità linguistiche nella comunicazione istituzionale e mediatica, le due cose tendono a coincidere.

Sul passaporto sanitario voluto dal governo italiano sono già state espresse molte critiche e qui non vogliamo tornare sul tema: il nostro punto di vista coincide con quello espresso nel documento “Green pass: le ragioni del no”, oggetto di una sottoscrizione popolare che ha avuto l’adesione anche di numerosi esponenti del mondo della cultura, del diritto, dell’università e della comunità scientifica.

Quello di cui vogliamo parlare sono le implicazioni della Certificazione Verde Covid-19 per gli adolescenti e i giovani.

 

 

La pressione sui giovani

 

La cosa che lascia maggiormente turbati, in questa vicenda politica, è la pressione psicologica e materiale che per tramite di questo decreto viene esercitata sui minorenni e sui giovanissimi: cittadini riguardo ai quali non viene fatto alcun distinguo, né nelle fonti normative né in seno al discorso pubblico, come se non dovessero essere sempre e inderogabilmente oggetto di particolari considerazioni e attenzioni. Lo stabilisce, oltre a un principio etico che dovrebbe essere universalmente condiviso, la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia, ratificata dall’Italia esattamente trent’anni fa con la legge 176/1991 (art. 3): “In tutte le decisioni relative ai fanciulli [persone di minore età], di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente”.

Ci sembra incredibile che lo Stato ponga un cittadino – tanto più se minorenne – di fronte alla possibilità di compiere una determinata scelta, a costo però di essere escluso da una serie di attività culturali, sociali, sportive, ricreative, che potrebbero – dovrebbero – essere parte essenziale e imprescindibile della sua vita, della cura della propria salute psico-fisica, del proprio processo di crescita, della partecipazione attiva e passiva alla vita culturale del Paese; salvo sottoporsi costantemente a un test che potrebbe essere non sempre disponibile con il necessario tempismo, costoso, invasivo, in alcuni casi fastidioso o doloroso. (A questo proposito ci chiediamo perché i tamponi salivari, annunciati un anno fa come soluzione pratica, attendibile e non invasiva, non siano ancora all’ordine del giorno).

  

Discorsi di odio

 

All’aspetto ricattatorio delle esclusioni si aggiunge la retorica del “dovere morale”, con la conseguente paura di incorrere nello stigma sociale – preoccupazione tanto più forte negli adolescenti e nei giovanissimi, come sappiamo. Una paura alimentata da una comunicazione mediatica – anche per bocca di influenti persone di scienza, purtroppo – e perfino istituzionale, drammaticamente irresponsabile, che non di rado evoca a parole (e suscita nel mondo reale) conclamate situazioni di illegalità. Disumanizzare le persone non vaccinate paragonandole ai topi, definendole “vigliacchi”, “traditori”, “disertori”; auspicare che ai malati non vaccinati vengano fatte pagare le cure (insinuando forse che qualora non se lo potessero permettere dovrebbero essere lasciati privi di assistenza medica?), o che vengano esclusi dal servizio sanitario nazionale; tollerare interpretazioni indefinitamente estensive e “creative” delle interdizioni in varie attività sociali e contesti lavorativi non previsti nel decreto; criminalizzare una scelta che – va ribadito – è consentita dalle norme nazionali e tutelata da quelle internazionali, con esplicito divieto di qualunque forma di discriminazione: tutto questo sta determinando un drammatico dissesto sociale, con un clima da caccia alle streghe che coinvolge allo stesso modo adulti e minorenni.

Assistiamo in questi giorni a una escalation sconcertante di questo hate speech, sia nella comunicazione istituzionale sia in quella mediatica. Abbiamo ascoltato un presidente di Regione annunciare l’esclusione dei cittadini non vaccinati dai luoghi pubblici e dalla vita della comunità; non come sanzione per avere violato una norma, si badi, ma perché in loro “prevale la dimensione egoistica”: perché “non sei degno di entrare in un ambiente pubblico”. Avremo dunque una limitazione di diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti, per cittadini di tutte le età, perfino adolescenti, che hanno compiuto una scelta consentita dalle norme, sulla base del giudizio morale di un governatore? Ci stiamo avvicinando a quel “sistema del credito sociale” cinese al quale, fino a un paio di anni fa, tutti guardavamo con sgomento?

 

 

“Non persone”: vittime designate

 

Qualcuno sta giocando con il fuoco, ovvero con la psicologia di massa, in un momento storico di profonda instabilità e incertezza, alimentando diffidenza e odio sociale verso coloro che sono sempre più descritti e trattati come “non persone”: individui “giustamente” spogliati dei loro diritti. In primis il diritto alla dignità. Siamo esattamente agli antipodi di una “adesione volontaria”, di un “consenso informato”, che pure lo Stato pretende che chi si accinge a essere vaccinato dichiari e firmi.

Siamo professionisti della parola, conosciamo il potere del linguaggio. Sappiamo che lo hate speech nasce da una forma mentis, ma allo stesso tempo “crea” forma mentis, la diffonde, e può condurre alla tragedia. è per questo motivo che lo hate speech viene combattuto in tutti i contesti sociali, mediatici e politici, chiunque sia a pronunciarlo e contro chiunque sia rivolto. Eppure pochissimi condannano questo specifico hate speech.

Le emozioni che questo discorso di odio smuove ci fanno temere che, qualora la campagna vaccinale si dovesse rivelare per i più diversi motivi non all’altezza delle aspettative di cui è stata rivestita (“ne usciremo solo grazie ai vaccini, e solo grazie ai vaccini, e solo se ci vacciniamo tutti”), la frustrazione di massa si possa tradurre in una reazione di violenza incontrollata contro i capri espiatori che già sono stati designati attraverso un costrutto culturale “impeccabile”: i non vaccinati, già anticipatamente disumanizzati e degradati al livello di “non persone”, individui indegni, che sfuggono a un dovere morale.

Se questa ondata di violenza si dovesse verificare, dobbiamo sapere che si abbatterà anche su una parte della popolazione infantile e minorile, dodicenni, quindicenni, con esiti moralmente, psicologicamente e socialmente catastrofici.

  

Un quasi obbligo che però è un divieto (altrove)

 

Impossibile non soffermarsi sul fatto che la scelta verso cui lo Stato italiano spinge con tale pressione gli adolescenti, è una scelta non raccomandata, non prioritaria, o addirittura non autorizzata, in altri Paesi dell’Unione Europea ed extraeuropei, per persone della stessa fascia di età, in nome della loro tutela e del principio di massima precauzione. Questo in considerazione del fatto che gli studi clinici svolti dalle case farmaceutiche sono stati limitati nel campione, nel tempo e nella tipologia delle verifiche. Con un’incognita che rimane sulle possibili conseguenze indesiderate a medio o a lungo termine, a fronte di una malattia che rappresenta un rischio quasi nullo per la popolazione pediatrica e giovanile sana, salvo casi di patologie particolari, note e identificabili, per i quali anche i Paesi che non raccomandano o non autorizzano la vaccinazione generalizzata per gli adolescenti solitamente prevedono protocolli specifici e deroghe.

Non vogliamo entrare nel merito delle considerazioni scientifiche sulla sicurezza e sull’efficacia dei vaccini, e sul ruolo della vaccinazione di massa negli sviluppi della pandemia da del covid-19 – ambiti che non ci competono. Ma non possiamo evitare di chiederci come la tutela dei bambini e degli adolescenti possa essere declinata in accezioni tanto diverse, e perfino opposte, tra Paesi che appartengono allo stesso consesso internazionale. è inevitabile domandarsi, peraltro, se tutto questo discorso andrà ripetuto tra qualche settimana, negli stessi termini e con preoccupazioni ancora maggiori, anche per i bambini sotto i 12 anni.

 

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…”

 

Come scrittori e operatori culturali, costituzionalmente attenti anche ai temi dell’educazione e della crescita intellettuale delle giovani generazioni, non riusciamo a concepire che lo Stato ponga intenzionalmente ostacoli alla fruizione culturale dei giovanissimi, alla loro partecipazione attiva e passiva alla vita culturale del Paese, anziché rimuoverli. E questo indipendentemente dalle circostanze ordinarie o emergenziali che possano verificarsi in un dato momento; e indipendentemente anche dal fatto che questi ostacoli possano essere intesi come un mezzo per perseguire un obiettivo prioritario e universalmente condiviso, come è quello di controllare la pandemia e di ridurre sempre di più tutti i rischi a essa connessi.

Non troviamo facilmente uno stato d’animo che ci porti ad accettare una politica che mina di fatto la continuità e l’equità dei percorsi educativi di giovani persone che si trovano nel pieno della loro formazione intellettuale, distribuendo in modo differenziato le opportunità più basilari.

Ripensiamo a esperienze culturali vissute da ciascuno di noi nel periodo dell’adolescenza o della prima giovinezza, in precisi, irripetibili momenti della propria crescita, della propria apertura al mondo. Ricordiamo la capacità che queste esperienze hanno avuto di affinare la sensibilità, continuando poi a indirizzare le scelte di vita e di lavoro anche nei decenni a seguire. Pensiamo con angoscia che oggi, a moltissimi adolescenti, ragazze e ragazzi, potrebbero essere negate opportunità ed esperienze di analogo valore.

  

Una domanda rivolta alle istituzioni

 

Ci chiediamo – e lo chiediamo alle istituzioni – se in Italia l’infanzia e l’adolescenza godano ancora di uno statuto speciale che garantisce loro attenzioni e tutele straordinarie. Oppure se la legge 176/1991 già citata sia stata di fatto abrogata. E se, a fronte di una pandemia, bisogna ritenere che qualunque misura sia da considerarsi legittima “basta che funzioni”; o anche solo che prometta di funzionare.

Speriamo e crediamo che non sia così; e ci aspettiamo di vedere comportamenti conseguenti da parte delle istituzioni e delle forze politiche.

Se invece il “basta che funzioni” è diventato il paradigma dominante dell’epoca delle emergenze sanitarie e dei rischi pandemici, allora dobbiamo sapere che in ogni caso – quali che saranno i modi, gli strumenti, i tempi e i bilanci con cui usciremo da questa situazione – noi ne usciremo sconfitti, avendo colpito al cuore la generazione dei figli.

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