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Massimiliano Biscuso - Le domande dell'oggi

22 marzo 2020 

Qualche giorno fa, su una delle innumerevoli chat collettive in cui mi trovo inserito, mi è giunto un messaggio che conteneva semplicemente questi famosi versi:

Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune.

È una collega di Letteratura italiana, ormai in pensione, che ci esorta con i versi della Ginestra a stringerci assieme contro il pericolo, a sacrificare la nostra libertà di uscire, incontrarci, abbracciarci per poterci tutelare reciprocamente. Insomma, ad essere uniti nel rimanere distanti fisicamente ma vicini spiritualmente (l’ultima metamorfosi dello spirito: farsi rete di comunicazione tra le monadi, confermarne l’armonia). Per ribadire questa unità sventoliamo le bandiere tricolori dalle nostre finestre e dai nostri balconi, insieme alle lenzuola con la scritta “Andrà tutto bene!”, un grido apotropaico, e l’arcobaleno, a invocare una nuova alleanza tra gli uomini e la natura.

La natura, appunto. La natura che all’improvviso e di nuovo si mostra ostile agli uomini o, almeno, indifferente alla loro sorte. Non nella forma visibile, “sublime” o terribile, della immane potenza: il terremoto, lo tsunami, l’eruzione vulcanica sono eventi che in questi ultimi anni hanno colpito migliaia di persone, vicine o lontane, e di cui abbiamo contemplato gli effetti catastrofici al sicuro degli schermi dei nostri televisori o dei nostri dispositivi. No, oggi la natura ci colpisce nella forma invisibile, subdola e maligna, del contagio. Non possiamo sapere da dove venga il pericolo, perché esso è dappertutto, tanto che ci comportiamo come i nostri antenati, che attribuivano le epidemie alle frecce che il dio scagliava prima sui muli, poi sui cani veloci, infine sugli uomini, «e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte»; o all’ira di un Dio distante e incomprensibile, o alla corruzione dell’aria, a cui non si può sfuggire se non rinunciando a respirare, cioè alla vita stessa. Preghiamo, speriamo che i nostri sacrifici siano sufficienti ad allontanare da noi e dai nostri cari la minaccia, giriamo all’aria aperta da soli con la mascherina temendo che l’aria stessa sia avvelenata, ma presto ci rifugiamo in casa, diffidando della primavera che ci chiama fuori dai nostri precari rifugi. Scopriamo insomma che natura non sono soltanto i prati fioriti all’ombra delle vaste e calme ombre dei pini dei nostri parchi o le spiagge bianche e l’acqua turchese dei mari del Sud, ma anche questi ospiti inquietanti che si aggirano tra noi e ci aggrediscono silenziosamente.

Dinanzi alla terribile ambiguità della natura, che ci genera e ci distrugge, ci lusinga e ci atterrisce, Leopardi ci esorta a non essere altrettanto ambigui e indifferenti gli uni con gli altri, ad aiutarci nella guerra – una guerra disperata, perché impossibile da vincere, eppure necessaria – contro la nostra comune nemica. È questo, indubbiamente, il significato del messaggio che mi è arrivato sul telefonino. Ma concretamente, che significa? Se penso a Leopardi, mi chiedo: che cosa dobbiamo difendere dalla minaccia della natura? La nostra mera esistenza? No, certamente, perché non è sufficiente l’esistere, il perpetuare la vita pur che sia, il prolungarla il più possibile seguendo i consigli di quei medici che alla fine del Settecento avevano inventato l’arte di allungare la vita: «la vita debb’esser viva, cioè vera vita», ricca di esperienze, di relazioni, di affetti, generosa nel dispendio di sé e delle proprie energie, altrimenti «la morte la supera incomparabilmente di pregio», quella morte che riduce la vita al semplice fatto di esserci, a una presenza puramente naturale e non più culturale, alla «ignuda natura» delle mummie che si risvegliano nel gabinetto di Federico Ruysch.

Eppure, ci può essere vera vita senza esistenza? Non dobbiamo, prima e comunque, salvare i corpi per poter poi vivere? La securitas non è forse la condizione di possibilità di una vita viva? Queste sono le domande dell’oggi.

Un giorno Seneca, che ammalatosi si era trasferito nel suo podere di Nomentum, fuggendo l’aria pesante di Roma, scrisse a Lucilio:

Il medico diagnosticava l’inizio di una malattia per via di un polso irregolare, incerto, segno di turbamento delle funzioni normali. Subito ho fatto preparare la carrozza, non mi sono fatto convincere dalla mia Paolina [la moglie di Seneca] che cercava di trattenermi: mi sono ricordato del mio Gallione che quando si prese una febbre in Acaia si imbarcò subito dicendo che non era una malattia del corpo ma del luogo. Questo ho detto alla mia Paolina, che insiste perché io badi alla mia salute. In effetti, sapendo che lei vive e respira assieme a me [bellissimo: spiritus illius in meo verti, la sua vita è trasfusa nella mia], comincio a pensare a me stesso per pensare a lei. E benché la vecchiaia mi abbia reso più forte, in questo perdo il beneficio dell’età. Sento che in questo vecchio c’è una giovane, a cui si usa indulgenza. E dunque poiché non riesco ad ottenere da lei che lei mi ami senza debolezze, è lei a ottenere da me che io mi ami con più cura. Agli affetti onesti si deve indulgere e talora, anche in presenza di motivi forti per morire, il respiro deve essere richiamato indietro anche con grande sofferenza, e trattenuto coi denti per amore delle persone care: un uomo onesto deve vivere non quanto vuole ma quanto deve. Chi non pensa che per la moglie o per un amico non valga la pena di continuare a vivere, è uno spirito fiacco (Lettere a Lucilio, 104).

La lezione di Seneca è la lezione di Leopardi: in noi abbiamo chi ci ama, prenderci cura di noi è prenderci cura dei nostri cari.

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