Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Leggere i classici ai tempi del coronavirus. Tre generazioni a confronto: Nuccio Ordine, Adeline Lionetto, Antonio Orrico

A cura di Matteo Leta
7 aprile 2020

Proprio dalle colonne di questo Diario di Crisi un grande antropologo come Marcello Massenzio ha invitato a «riempire di senso» il «tempo sospeso» che stiamo vivendo. Costretti in una situazione di spaesamento, possiamo forse tentare di orientarci a partire dalla lettura e dall’interpretazione dei classici, «riserva inesauribile di stimoli per una salutare immersione in noi stessi, nelle zone dell’animo meno esplorate e, contestualmente, per una diagnosi lucidamente spietata del contesto politico-sociale dei nostri tempi».

La necessità di interrogarsi sull’epidemia e di riflettere su questo tempo sospeso a partire dalla letteratura viene confermata dal boom di vendite de La peste (1947) di Albert Camus o di Cecità (1995) di José Saramago, cui si accompagnano le letture pubbliche – in streaming, ovviamente – del Decameron di Boccaccio. Si tratta, peraltro, di un’esigenza condivisa a livello internazionale, visto che iniziative di questo tipo fioriscono in tutta Europa: il giornale francese L’Humanité, ad esempio, ha deciso di proporre ai suoi lettori degli estratti di opere letterarie, il cui tema centrale è, appunto, l’epidemia. Il mondo della cultura offre, dunque, i propri strumenti intellettuali per aiutare a superare questa «crisi della presenza»: podcast, articoli e incontri virtuali riempiono questi giorni di riflessioni che nascono proprio grazie alla letteratura, alla filosofia, alla musica o all’arte.

In questa prospettiva, abbiamo rivolto alcune domande a tre studiosi, appartenenti a tre distinte generazioni: un neolaureato, una giovane ricercatrice e un affermato docente universitario, impegnati, in canali molto diversi e con differenti approcci, a proporre la letteratura come momento di riflessione culturale e civile. Antonio Orrico ha conseguito la Laurea Specialistica in Scienze linguistiche, letterarie e della traduzione presso La Sapienza, con una tesi sulle evoluzioni metriche e tematiche nella poesia di John Donne e dei poeti metafisici inglesi. Adeline Lionetto è maître de conférence alla Sorbona di Parigi, specialista di letteratura francese del XVI secolo e presidentessa dell’associazione Cornucopia, il cui obiettivo è la promozione della ricerca sul Rinascimento francese ed europeo. Nuccio Ordine è professore ordinario di Letteratura italiana all’Università della Calabria e autore di bestseller internazionali come L’utilità dell’inutile (Milano, Bompiani, 2013), Classici per la vita (Milano, La Nave di Teseo, 2016) e Gli uomini non sono isole (Milano, La Nave di Teseo, 2018), nei quali ha sostenuto l’importanza dei classici e la centralità delle discipline umanistiche contro la dittatura del mercato e la visione “insulare” degli esseri umani.



L’arrivo del coronavirus ha sconvolto la vita di milioni di persone; dal punto di vista degli studiosi, in particolare, la necessaria quanto dolorosa chiusura di biblioteche, scuole ed università ha inevitabilmente limitato gli scambi intellettuali. Tuttavia, grazie ai mezzi di comunicazione, digitali o cartacei, tutti voi siete riusciti – con modalità diverse – a proporre delle riflessioni sulla situazione attuale, a partire proprio dai classici e dalla letteratura. In cosa consiste e qual è il senso del vostro impegno intellettuale in questo momento?

 

Nuccio Ordine

Ho cercato di rilanciare alcune preziose riflessioni sugli effetti delle epidemie contenute in celebri classici, attraverso varie interviste, apparse su quotidiani italiani e spagnoli [El Pais, 26 marzo 2020; La Vanguardia, 16 marzo 2020; Il Quotidiano del Sud, 27 marzo 2020, ndr]. Se esaminiamo il Decameron, ad esempio, Boccaccio descrive il disastro morale e materiale di Firenze durante la peste del 1348; per sfuggire al caos, i dieci novellatori non solo si allontanano dalla città, ma si impongono una serie di regole per disciplinare la vita sanitaria e letteraria. I protagonisti sanno bene che per curare il corpo c’è bisogno anche di curare lo spirito. Del resto, l’incipit stesso del Decameron («umana cosa è avere compassione degli afflitti») esalta il potere della letteratura come pharmakon, in grado di lenire le pene, combattere la paura e neutralizzare la malinconia. Alla Firenze funestata dalla peste (in cui il disordine provoca l’azzeramento del potere politico e religioso), Boccaccio oppone l’allegra brigata, che a Fiesole cerca di ricostruire un ordine perduto. In molti testi in cui si parla di epidemia ritornano frequentemente gli stessi temi: la reazione irrazionale, il senso di impotenza di fronte a un nemico invisibile, la disgregazione sociale, la ricerca dell’untore e del capro espiatorio, il bisogno di ricorrere all’aiuto divino o ai numerosi ciarlatani che approfittano della disperazione per vendere falsi rimedi, l’assenza delle relazioni umane, le sofferenze delle separazioni. In questo senso, i classici non solo ci mostrano cosa accade nei momenti di crisi, ma la loro lettura costituisce di per sé una risposta alla tragica situazione che stiamo vivendo. L’arte del raccontare – al di là delle grandi opere che si riferiscono specificamente a morbi ed epidemie – ha comunque una funzione terapeutica perché ci offre una preziosa occasione per conoscere noi stessi e il mondo che ci circonda. Soprattutto in una situazione (quasi surreale) di confino nelle nostre case, i libri, la musica, le opere d’arte ci aiutano a coltivare la nostra umanità, a ritrovare la solidarietà perduta, ad assaporare la solitudine, a saper ascoltare l’eloquenza del silenzio. Proprio adesso che siamo costretti a vivere lontano dagli affetti e dagli amici, stiamo scoprendo la vitale importanza delle relazioni umane, l’indispensabilità della presenza dell’altro nella nostra esistenza. Stiamo prendendo coscienza del fatto che da soli non potremo mai battere il virus: la pandemia può essere sconfitta esclusivamente da un’umanità unita e solidale. Lo stiamo già vedendo sul piano della scienza: studiosi di tutto il mondo sono in contatto tra loro per scambiare dati e programmi di ricerca con l’intento di creare vaccini e farmaci in grado di battere l’invisibile nemico. Si tratta di una solidarietà che si manifesta anche nell’aiuto concreto che medici e personale specializzato (penso ai Cubani, ai Cinesi o agli Albanesi) stanno offrendo nelle zone rosse della Lombardia e del Veneto. Gli slogan brutali che hanno dominato le ultime campagne elettorali nel mondo si stanno rivelando falsi e menzogneri: “America First!”, “Prima gli Italiani”, “La France d’abord”, “Brasil acima de tudo” hanno propagandato un’immagine razzista e xenofoba degli esseri umani. Adesso il Coronavirus sta mostrando che non è vero che noi uomini siamo isole separate e che il modello egoistico debba essere quello vincente. Sul tema della solidarietà si giocherà anche il futuro dell’Europa: bisognerà capire se questa istituzione politica è la somma di interessi nazionali o invece di una visione unitaria e solidale. Mai come ora stiamo imparando che l’umanità è un solo Continente. La letteratura, la musica, l’arte, la filosofia, la scienza di base da secoli ci insegnano che la nostra vita ha un senso solo se noi riusciamo a vivere per gli altri. Del resto, la storia ha mostrato a più riprese l’importanza della cultura per superare momenti difficili di crisi: non è un caso, per fare un esempio, che Israele e Germania abbiano avviato un dialogo dopo i disastri della Seconda Guerra Mondiale, proprio grazie alla collaborazione scientifica internazionale…

 

Adeline Lionetto

Nelle più grandi prove della vita, tanto individuali quanto collettive, ho imparato a rifugiarmi nella letteratura. Per me non costituisce né una forma di ozio né un espediente per allontanarmi dalle sofferenze del presente. Al contrario, la letteratura rappresenta una maniera per ritornare a riflettere, con maggiore distacco, sulle avversità. I classici mi permettono, inoltre, di ritrovarmi in un altro (anche se di carta) e di sentirmi legata, grazie a dei fili invisibili, al resto dell’umanità. Credo che, nei momenti di crisi, la letteratura sia una grande risorsa esistenziale. Ecco perché, quando siamo stati costretti ad isolarci per via della progressione inquietante dell’epidemia, ho deciso di inviare ogni giorno ai miei studenti di Master degli estratti di opere in cui si parlava di questi temi. Come primo testo, ho scelto l’inizio della prima giornata del Decameron di Boccaccio; in seguito, ho continuato proponendo La Maschera della morte rossa di Edgar Allan Poe, Morte a Venezia di Thomas Mann, L’Ussaro sul tetto di Jean Giono, ecc. Questa antologia virtuale costituisce oggi una vera cassa di risonanza del nostro vissuto, in cui possiamo leggere – rielaborati da grandi scrittori – i mali che ci affliggono, in modo tale che diventa meno faticoso viverli da soli. I miei studenti mi dicevano che aspettavano ogni giorno questa “consegna”; allora ho deciso di diffondere i testi anche sui social, per offrire ai miei amici qualcosa su cui riflettere e con cui rasserenarsi. In seguito, sono stata contattata dal redattore capo del telegiornale delle 23 di France Info, che mi ha proposto di leggere e riflettere sui grandi classici tramite Skype. Quest’appuntamento – “Le grandi epidemia viste dalla letteratura” – avrebbe dovuto mettere a disposizione di centinaia di migliaia di telespettatori il risultato della mia ricerca antologica. Oggi, a causa dei problemi tecnici dell’emittente, il progetto è stato sospeso, ma forse potremo ricominciare dopo aver superato il picco dell’epidemia. Resto convinta che, pur non potendo curare il corpo, noi specialisti delle discipline umanistiche abbiamo i mezzi per aiutare lo spirito a rasserenarsi, grazie al piacere provocato dai testi, oppure – ed in modo più profondo – offrendo situazioni simili a quelle che stiamo vivendo, rielaborate dall’arte. Insomma, la letteratura ci può “riumanizzare” in un periodo in cui ci viene chiesto di non aver più contatti reali con gli altri; la letteratura fa vivere e fa vibrare l’animale sociale che è in noi.

 

Antonio Orrico

In seguito allo scoppio della pandemia, ho pensato di mettere a frutto i miei studi e dare un ulteriore senso alla mia passione per la letteratura inglese. Ho deciso di tenere alcune brevi lezioni online, trattando diversi autori, da Eliot ad Orwell, passando per Shakespeare. Perciò, mi sono servito di Facebook: non solo ho trasmesso i podcast in diretta, ma li ho anche salvati, per dare a tutti la possibilità di usufruirne. Tanti sono i motivi che mi hanno spinto a proporre questo piccolo corso sui classici della letteratura d’Oltremanica: innanzitutto volevo offrire, secondo le mie possibilità, una sorta di distrazione ai miei amici, per riflettere insieme in giornate che si facevano sempre più vuote e dolorose. Inoltre, preparare queste lezioni mi ha dato l’occasione per riprendere a studiare; devo ammetterlo, dopo la laurea, iniziava a mancarmi la pratica quotidiana dei classici. Infine, il terzo motivo: può sembrare banale, ma è legato al piacere di rileggere queste opere e di farlo insieme ai miei amici. Il successo di quest’iniziativa mi ha stupito, perché assieme ad altri studenti, che hanno intrapreso progetti simili, siamo stati intervisti dal TG2 per un’edizione del programma “Storie”, in cui abbiamo raccontato le nostre esperienze “di quarantena”.



La crisi determinata dall'epidemia ha mostrato con la massima evidenza quanto sia rilevante l'esistenza di un forte sistema sanitario pubblico e quanto dannose siano state la logica imprenditoriale e la politica di tagli applicate alla sanità, così come all'istruzione e alla ricerca. Da questa esperienza saremo in grado di trarre utili insegnamenti anche in relazione al ruolo delle discipline umanistiche?

 

Nuccio Ordine

Educazione e salute sono i due pilastri su cui si fonda la dignità umana (il diritto alla vita e il diritto alla conoscenza) e, nello stesso tempo, lo sviluppo della società. La pandemia ha smascherato i disastri provocati dalle rapaci politiche neoliberiste: istruzione e sanità hanno subìto tagli terribili negli ultimi decenni. Trasformare scuole/università e ospedali in aziende ha finito per considerare gli studenti e i pazienti come clienti. Il disastro è sotto gli occhi di tutti. L’epidemia può rappresentare un’occasione per ripensare le nostre priorità a diversi livelli: dalle politiche industriali, a quelle sanitarie e scolastiche. È inaccettabile, infatti, che beni così importanti per affrontare questa crisi – penso per esempio alle mascherine – non siano prodotti in Italia. L’esperienza che stiamo vivendo deve stimolarci a migliorare e non danneggiare ulteriormente questi settori. In particolare, vorrei soffermarmi sulla didattica: per fronteggiare l’emergenza, stiamo ricorrendo agli strumenti virtuali e ai corsi telematici. Non abbiamo scelta in questo momento. Mi preoccupano assai, però, alcune dichiarazioni di rettori che considerano l’insegnamento telematico come il futuro della didattica universitaria. Trasformare l’emergenza in normalità è pura follia, è un gravissimo segno di irresponsabilità. Solo l’insegnamento in classe, l’esperienza umana che professori e studenti compiono assieme, può garantire un’autentica trasmissione del sapere. Bisogna essere molto vigili. E opporsi con forza a quest’ulteriore tentativo di squalificare il ruolo dell’insegnante: la “buona scuola” passa necessariamente per dei buoni professori, che lavorano quotidianamente in classe con i loro studenti. Nessuna piattaforma digitale potrà cambiare la vita di un allievo. Si parla di massicci investimenti nel digitale, ma non si pensa per nulla alla progressiva diminuzione dei docenti e a ai loro stipendi inadeguati. A cosa serviranno le macchine senza buoni professori?

Ma c’è di più. Le condizioni di emergenza che stiamo vivendo potrebbero farci ripensare anche i rapporti sociali e umani. Fino ad oggi, le nostre vite sono state dominate dalla velocità e dalla tendenza a cercare il più grande profitto nel minor tempo possibile. In questo periodo di isolamento, per contro, possiamo dedicare tempo alla cura di noi stessi e a tutte quelle discipline che sono state considerate ingiustamente “inutili” perché non producono profitto (penso alla letteratura, alla musica, all’arte, alla scienza di base). Proprio in queste settimane possiamo prendere coscienza del ruolo importante che la lettura di un libro, l’ascolto della musica, la contemplazione di un’opera d’arte, ha per coltivare la nostra umanità. Vorrei citare – giusto per offrire un esempio eloquente – l’ultima pagina de La Peste di Camus: il grande romanziere francese ci ricorda ciò «che si impara in mezzo ai flagelli: che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare». L’epidemia svela aspetti nascosti della nostra umanità, ma svela anche le grandi ingiustizie e le terribili disuguaglianze che affliggono la società. I dati del Forum di Davos parlano chiaro: l’1% della popolazione mondiale detiene l’80% della ricchezza. Un mondo costruito su queste basi brutali potrà avere un futuro? Avremo imparato qualcosa da questa epidemia solo se non riusciremo a dimenticare le sofferenze e gli abusi che umiliano i più deboli. La letteratura ci aiuta a capire e a ricordare. Tutto dipenderà, come ci suggerisce Kundera nel Libro del riso e dell’oblio, dallo scontro tra memoria e oblio: «La lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio».

 

Adeline Lionetto

È chiaro che questa crisi mette in luce i numerosi problemi di un sistema capitalista che, senza dubbio, si è allontanato dalla dimensione umana. Recentemente, ho avuto modo di leggere un articolo della sociologia Eva Illouz, pubblicato il 23 marzo su Le Nouvel Obs (L'insoutenable légèreté du capitalisme vis-à-vis de notre santé), che si concentra proprio su questo punto. Riprendendo le posizioni di Michel Foucault sulla sanità come «epicentro del potere moderno», Illouz afferma che, al giorno d’oggi, lo Stato è obbligato a garantire la salute dei suoi cittadini. Ora, in quest’articolo si ricorda che numerosi Stati non hanno più questa preoccupazione, essendo ormai divenuti degli attori economici con gli stessi obiettivi delle imprese, come quello di abbassare il costo del lavoro. Io non sono una sociologa, ma mi sento di condividere completamente la sua analisi e le sue conclusioni. Eva Illouz si augura che il capitalismo possa cambiare e non dare per scontata la sanità, sforzandosi, invece, di tutelarla. La ricerca, in questo, gioca un ruolo fondamentale: sappiamo che dei ricercatori del CNRS lavoravano sul coronavirus, ma i loro studi si sono interrotti perché mancavano i fondi. È chiaro che se queste attività – che non portano un profitto, o meglio che non portano un profitto economico – non sono sostenute finanziariamente, la nostra società fallirà rovinosamente. Bisogna rimettere l’umanità al centro delle nostre preoccupazioni, e questo processo passa, inevitabilmente, per una rivalorizzazione della ricerca, tanto nelle scienze, quanto nelle discipline umanistiche.

Su un piano più generale, dobbiamo tenere presente che probabilmente questa crisi sanitaria non sarà l’ultima; diversi scienziati pensano, infatti, che nei decenni a venire altri virus si abbatteranno sulle nostre società. Eva Illouz, nell’articolo che ho già citato, spiega che la causa di queste nuove possibili epidemie risiederebbe nello sfruttamento eccessivo di alcune specie animali. Occorre, allora, ripensare degli elementi che, fino a questo momento, abbiamo dato per scontati, come i rapporti tra l’uomo e la natura e il ruolo dell’economia nelle nostre vite. Le discipline umanistiche esistono proprio per aiutarci in questo compito, permettendoci di fare le giuste domande e dandoci degli spunti preziosi con cui rispondere. Io sono abbastanza ottimista, ma bisognerà rimboccarci le maniche e, soprattutto, mettere tali saperi alla portata di tutti: non è solo un élite ristretta che riuscirà in questa grande sfida. Il mondo dell’università, di cui io stessa faccio parte, deve assolutamente essere un faro nella nostra società; deve fare la sua parte nell’approfondimento e, soprattutto, nella diffusione della conoscenza. Le discipline che insegniamo rendono l’uomo “più umano”, ed è proprio ciò di cui abbiamo bisogno in questa crisi.

 

Antonio Orrico

La speranza è appunto quella di superare quest’emergenza, affermando il valore della sanità e dell’istruzione, restituendo loro la giusta dignità, incentivandone e non impedendone lo sviluppo, creando posti di lavoro e aumentando gli stimoli per chi vi lavora. Occorrerebbe svincolare lo sviluppo di scuole, università e ospedali dalle logiche del mercato e del profitto. Non so se tutto ciò sia possibile, ma credo che il momento che tutti stiamo vivendo potrà aiutarci a rivedere le nostre priorità. Anche a livello individuale, è difficile credere che un’esperienza simile non lasci un segno dentro ciascuno di noi. Ci siamo trovati, da un momento all’altro, costretti a rinunciare ai nostri svaghi, alle nostre attività lavorative e alle nostre relazioni. Certo, passare più tempo in casa dà la possibilità a molti di leggere un libro in più, di riprendere alcune cose studiate in precedenza: questo è, indubbiamente, un lato positivo. Io sono fiducioso, secondo me saremo persone migliori: un abbraccio non sarà più un gesto banale, così come una chiacchierata, una passeggiata o una stretta di mano. Saremo in grado di ridare il gusto valore alle cose e, soprattutto, saremo in grado di riconoscere l’importanza della salute di ogni persona, a prescindere dal fatto che la conosciamo o meno. Come scriveva John Donne in una famosa meditazione, che ispirerà – tra gli altri – anche il capolavoro di Ernest Hemingway sulla guerra civile spagnola, «la morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te» (Devozioni per occasioni di emergenza, Meditazione XVII).

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