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Marco Ivaldo - Sull'ora presente, la morte, la sofferenza

1 aprile 2020

 La tempesta inaspettata e furiosa che si è abbattuta sul mondo ci sollecita a sollevare domande fondamentali, quelle che una filosofia superficiale preferisce ignorare o rimuovere.  Ci sollecita ad esempio a interrogarci sulla morte, quella morte che non è solo fatto che accade necessariamente nella natura, che è alternanza di morte e di vita, ma che viene percepita come possibilità e minaccia che ci riguarda ora, attualmente e in modo concreto. Non che manchino nel mondo attuale immagini di morte. Tuttavia quella processione di mezzi militari che nella notte di Bergamo trasporta corpi di morti verso i forni crematori, è una immagine che già nel  suo darsi immediato ha segnato le nostre coscienze. Il futuro – che è il tempo della libertà – sembra cancellato nella sua possibilità reale. Il tempo, come l’antico Crono che divorava i suoi figli, divora se stesso. ‘Manca il tempo’, letteralmente, e ciò provoca angoscia ed affanno, ed enfatizza la paura; ci pone dinnanzi non al nulla della grande filosofia e della religione, ma al niente. Quella esperienza della morte che la nostra società tentava (e tenta) in varie maniere di anestetizzare ed esorcizzare, si presenta al di là di ogni tentativo di alleggerimento come fatto concreto e possibilità imminente. Platone insegnava che filosofare è imparare a morire. Ebbene, pensare la morte, o meglio il nostro morire come ‘evento’ imminente ed attuale che minaccia il futuro possibile e divora il presente, potrebbe spingere i filosofi a concepire una filosofia più profonda e pensosa, perché capace di misurarsi con le domande fondamentali sull’umano, domande che in definitiva non vengono affatto cancellate per il fatto che (alcuni? molti?) filosofi le trascurano.    

La tempesta in cui ci troviamo a vivere può sollecitare i filosofi, a mio giudizio, a riprendere una frequentazione anche e proprio delle domande classiche della teodicea, anche se poi la risposta che si tenta di offrire loro non percorre le strade tradizionali della teodicea stessa, se non nella linea di una “teodicea autentica”, alla scuola di Giobbe, intuita da Kant. In particolare spinge a interrogarsi sulla presenza del male nella forma del dolore e della sofferenza. Perché questo eccesso di sofferenza e di morte? Perché questo dilagare del dolore che colpisce indifferente tante ‘nude vite’ senza tenere in alcun conto del loro essere (state) buone o cattive? Probabilmente non si da una buona risposta da parte di uomo a questa domanda. Non risponde a questa domanda chi dice: ‘è la natura’, il suo corso implacabile. La lamentazione delle vittime lascia pensare che l’essere umano non si appaga affatto di questo rinvio alla legge di natura. Nemmeno risponde a questa domanda chi dice: è ‘un castigo di Dio’; il maestro di Nazareth ha piantato nell’umano l’idea che Dio starebbe (e sta) non dalla parte del vendicatore, ma piuttosto nella sequenza dei morti, dalla parte delle vittime, buone e cattive. Dicevo allora: non esiste forse una buona risposta teorica al perché la sofferenza, anche se questa assenza di risposta può altamente stimolare il pensiero a interrogarsi ancora. Forse la risposta consiste nell’assumere il dolore, nell’abbracciare la scissione e la contraddizione, nel sentire il dolore dell’altro come il proprio dolore. La risposta è una ‘esistenza’. Quale esistenza? 

Non è affatto detto che quando la pandemia finirà noi ci troveremo migliori. Non esiste una necessità di natura a questo proposito. La storia è aperta al bene e al male. Potremmo benissimo trovarci più cattivi, più egoisti, più incapaci di ‘vedere’. In questo senso l’ora della prova deve (soll!) coincidere con l’ora della scelta, della determinazione di ciò che conta e di ciò che passa. La pandemia rivela la nostra vulnerabilità, smaschera – come ha detto Francesco – l’illusione «di rimanere sempre sani in un mondo malato», malato per la sua ingiustizia, malato per la natura saccheggiata e devastata, malato per le nostre cattive abitudini. Ciò potrebbe sollecitarci a percepire in maniera più concreta e realistica che tutto è connesso, che possiamo andare avanti soltanto insieme, che siamo tutti uno nelle mani dell’altro, e che dunque la vera libertà non è la libertà senza gli altri o contro gli altri, ma è la libertà insieme agli altri. Questa potrebbe essere la sostanza di un nuovo cosmopolitismo. 

La quarantena, per quanto dura e sgradevole, ci offre allora anche una chance, quella di re-incontrarci attraverso la distanza e di rimeditare insieme che tipo di uomo ciascuno di noi in concreto ritiene sensato essere. La pandemia, l’estremo pericolo, sollecita la responsabilità: siamo ciascuno indebitato con l’altro. Una filosofia pensosa potrebbe contribuire a fondare questa autoconsapevolezza dell’umano. Vorrei concludere con un verso di Hölderlin, che piaceva a Heidegger: «Nah ist/Und schwer zu fassen der Gott./ Wo aber Gefahr ist, wächst/Das Rettende auch» [Il Dio è vicino, e arduo da afferrare/ Dove però è pericolo, cresce anche ciò che salva].



    

                

            

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