Stampa questa pagina

Matteo Vercesi - Ut contagio poësis. Nota a margine sulla funzione della poesia, in dichiarato tempo di pandemia

8 aprile 2020

 Un dato difficilmente controvertibile di queste ultime settimane, in linea di continuità con una tendenza generale in atto da tempo, è che la narrazione collettiva (termine abusato, ma pur sempre indicativo e di sintesi) si stia progressivamente depotenziando rispetto alla propria intrinseca plurisignificanza e polivalenza, addensata com’è intorno ad un unico registro: quello medicale. Se salto di specie v’è stato da parte del virus, questo si connota soprattutto da un punto di vista sociale, evidenziato dal fatto che esso si è ormai strutturato in modello condizionante di ogni processo di interazione e, in senso lato, di costruzione semantica. 

Sia il linguaggio giuridico, declinato in plurimi decreti che dettagliano in modo sempre più stringente il quotidiano scindendo il lecito dall’illecito, il produttivo dall’improduttivo, il “sano” dal “malato” (per converso, il bene dal male) e che sanciscono il propagarsi di uno stato di eccezione di cui non si riesce ad indovinare la durata, sia il linguaggio dei mass media, ossessivamente ancorato alla statistica (talvolta sfociante in una sorta di numerologia rivista e aggiornata, spesso priva di sostanziale capacità predittiva), robusti tutori delle strutture sociali contemporanee, risultano innervati dal predominio di alcuni termini ricorrenti quali “pandemia”, “contagio”, “picco”, “emergenza”, “zona”, “decesso”, divenuti veri e propri poli di riconfigurazione di senso, (ri)orientata ad un unico principio regolatore: quello di causalità. Si ha la sensazione che le parole assumano esclusive funzioni topologiche nel perimetrare un paesaggio inglobato dalla malattia, e che convergano in una dinamica centripeta verso il polo della descriptio – della descrizione asettica, della spiegazione e determinazione, della classificazione e dell’ordinamento – più che essere attraversate dalla spinta centrifuga della narratio, della narrazione ampia attraversata dai racconti, dalle storie che inglobano dimensioni stratificate, disomogenee e multiformi, disperse in frammenti ma riunificate in un discorso aperto e volutamente inconcluso che dia voce alle comuni differenze. Non si tratta soltanto di appurare la banale differenziazione fra cronaca e racconto; piuttosto, di decongelare la complessa e multiforme grammatica emotiva e “pensante” delle parole, al fine di riconvertire la natura del contagio (contagium, da contingere, “toccare, essere a contatto, contaminare”), di trasfigurare la sua natura mortifera in un afflato vitale capace di generare la speranza in una “alternativa comunicativa”. 

Mai la vita, come in questi giorni, appare nuda nel suo ridursi a corpo, soprattutto in quel ripetuto spegnersi, indifesa, in commiati solitari e strazianti, in una lontananza deprivata di calore (corpi che finiscono nel fuoco e dei quali rimangono soltanto urne con cenere: esiti di sbrigative operazioni di igienizzazione a cui è negata una forma di pietà e prossimità). L’immagine dei camion militari che conducono le bare alla cremazione fuori dalla città di Bergamo rimarrà uno degli emblemi di questo vulnus storico senza precedenti, mentre la terminologia militare destruttura il reale e lo ricompone in una visione dualistica raggelante, sopprimendo ogni funzione mitopoietica. Una morte priva di rituali (che ci accompagnino ad essa o che ci consentano di tollerarla quando perdiamo qualcuno di caro) non è soltanto l’attestazione della fine, ma rappresenta la sparizione di un orizzonte di senso, la privazione della possibilità di interrogare e interrogarsi, un azzeramento della dinamica di parola, un rapprendersi e coagularsi nell’afasia.

Giorgio Agamben, in una recentissima riflessione sul concetto di epidemia, ha opportunamente messo in luce come la peste sia fondamentalmente, radicalmente, endemica alla nostra struttura sociale; per alcuni versi, il Covid-19 è manifestazione ed esito di condizioni di vita malate:    

L’ipotesi che vorrei suggerire è che in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era già, che, evidentemente, le condizioni di vita della gente erano diventate tali, che è bastato un segno improvviso perché esse apparissero per quello che erano – cioè intollerabili, come una peste appunto. E questo, in un certo senso, è il solo dato positivo che si possa trarre dalla situazione presente: è possibile che, più tardi, la gente cominci a chiedersi se il modo in cui viveva era giusto*.

Se la poesia si fonda su un’apertura incondizionata di senso, sulla germinazione di possibilità interpretative e sulla capacità di dischiudere la soglia che ci approssima ad una presupposta o agognata verità, di generare il visibile dall’invisibile (o di rendere il visibile, semplicemente, visibile), essa ci appare, oggi più che mai, narrazione svincolata dal partitismo della comunicazione. La sua inutilità – l’essere letteralmente scevra dall’utile – le consente di riappropriarsi, come sempre, delle visioni a latere delle scene pubbliche, di nutrirci con un distillato che è frutto di un sotterraneo corso.

Il poeta padovano Maurizio Casagrande, insegnante presso la scuola italiana di Asmara, si trova confinato in Eritrea, senza la possibilità di poter rientrare nel nostro Paese. Il 18 marzo mi ha fatto pervenire un testo inedito scritto nel dialetto dei suoi Colli Euganei, intitolato Cobid (“Covid”):

*Giorgio Agamben, Riflessioni sulla peste, 27 marzo 2020, all’interno della rubrica Una voce, nel sito della casa editrice Quodlibet (https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste). 

 

Coesta xe'a gossa
ca 'l pitaro traboca
e a tuti 'na s-cianta
a ghe toca

sta' sconto sta' in branda
col terore de l'onto
de on stranùo
del cueo ca se gheva sentà
sol cantòn
gnà ca fussimo in guera
co 'a tera intiera

ma pitosto godemose
l'incanto dea pase
ca nasse co tase el bordèo
el viso de chel putèo
ca ride e ca cria parsora
de sta maeatìa
ciuciemose 'a medisina
pì granda ca i gapia inventà
coea de chea lengoa
ca ne gheva cunà

e po' chisà che col bisso
crepa el gran mucio
de vissi ca gheva tacà:
'a busìa ca i te vende
pa' verità
tute 'e face da cueo
ca senpre 'a ga scapoeà
'a morte lenta
del dio paeanca
tuti i mona
e i xe tanti
ca salta soi banchi
a date lesiòn
coando ca basta
on peo de rajòn

(Questa è la goccia / che fa tracimare il vaso / e tutti devono / sorbirsela // sta' in casa sta' a letto / con l'assillo della pulizia / di uno sternuto / del fortuito contatto / fisico / nemmeno fossimo in guerra / con l'universo mondo // ma piuttosto godiamoci / la grazia del silenzio / che sorge quando tace il caos / il volto di quel bimbo / che piange o ride a dispetto / dell'epidemia / gustiamo la terapia / migliore che ci sia / la lingua / che ci ha cullati // e chissà che col baco / si estingua la pletora / di vizi che avevano attecchito: / la menzogna spacciata / per verità / le tante facce da culo / che la sfangano sempre / la morte lenta / del dio denaro / tutti quegli sciocchi / e sono tanti / che si fanno avanti / ad impartire lezioni / quando basterebbe / un briciolo di buon senso)

 

Lo scavo nella lingua, in direzione opposta alla pletora di parole ripetute che nulla più significano, in cammino verso il silenzio, verso la filigrana muta e luminosa racchiusa nella pagina.   

O, per dirla con le parole tratte da Pitture nere su carta del compianto Mario Benedetti: 

Erano le fiabe, l’esterno.
Bisbigli, fasce, dissolvenze.  

L’esterno dell’esterno 
qualcosa ascolta.  

Qui. 
Oh. 

Parole che si elevano a stupore, che si arrestano sulla soglia del creato, a contemplarlo e non più a tentare di spiegarlo, prima di svanire.



Letto 1680 volte