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Sebastian Schwibach - Riflessioni estemporanee in tempo di crisi*

29 luglio 2020

 Quando nel primo incontro seminariale sulla “Memoria del possibile” a cura del professor Donaggio mi è stata posta la questione se potessi ritenere la pandemia legata al Covid 19 il più grande evento della mia vita, la prima risposta che è sorta nella mia mente è stata un sonoro “no”. 

Ho sempre rifuggito il mondo storico-politico contemporaneo, in quanto la nausea che ogni volta mi assaliva rendeva impossibile uno sguardo lucido, una riflessione che non prendesse la forma dell’invettiva. 

Qualcosa di simile è accaduto con la pandemia, che tuttavia mi si è gradualmente imposta all’attenzione quale fulcro emblematico di una serie di riflessioni sul mondo in cui viviamo. Inizialmente guardavo le notizie con disattenzione, poi con scetticismo, infine con un crescente timore. Non si trattava tanto della paura del virus, quanto delle sue possibili conseguenze antropologiche. Se in alcuni momenti ho sperato che un tale funesto evento potesse avere anche dei risvolti positivi, sempre più mi sono convinto che la macchina economico-politica non si sia affatto inceppata, ma abbia solo preso la rincorsa per sprofondarci, ora più che mai, nella più abietta alienazione: nell’ambito scolastico si preme ancor più di prima per una crescente digitalizzazione a scapito del rapporto diretto, come se l’ambito educativo e la relazione in generale non riguardassero l’essere umano nella sua totalità: corpo-sentimento-immaginazione-intelletto; dal punto di vista sociale, sembra che l’unico interesse sia che le “persone vivano il più a lungo possibile”, non che possano essere felici, sviluppare le proprie potenzialità, vivere una vita degna di essere vissuta; dal punto di vista ambientale, se certo i delfini son tornati per breve tempo a nuotare nel Mediterraneo, è vero anche che chi di dovere non è stato inoperoso: nel vuoto silenzio di una contestazione impossibile si è portato avanti ciò che prima non si sarebbe potuto fare così facilmente. Grandi costruzioni che in precedenza richiamavano folle di contestatori a causa della loro dubbia sostenibilità ambientale e sociale sono continuate sotto la più sicura delle protezioni: la paura.

In definitiva, ritrattando la risposta che di primo acchito avrei dato, posso dire che questo virus è stato il più grande evento storico della mia vita e precisamente in tre sensi: in primo luogo mi ha permesso di uscire fuori dalla mia tana platonica per guardare in volto il mondo che ci siamo costruiti; in secondo luogo ha sottolineato, per chi ancora ne avesse avuto bisogno, l’ipocrisia di un sistema che grida imperterrito “sviluppo“ quasi fosse una parola magica, una maledizione; che professa la salute e impone non solo che città come Taranto vengano sacrificate all’idolo del progresso, ma che ogni cittadino che non voglia ritirarsi in eremitaggio soggiaccia alla logica della “produzione” fisica o intellettuale; in terzo luogo, ha aperto un enorme baratro sul terreno apparentemente sicuro della modernità: la possibilità della malattia e della morte è tornata ad invadere le case, a serpeggiare nelle vie cementate delle città, a sibilare nelle metropolitane affollate. Il rimosso è tornato con forza, la paura si è impadronita di ognuno di noi, probabilmente molti hanno fatto i conti con la propria esistenza e si sono chiesti se avesse senso vivere, se morire in questo momento sarebbe stato accettabile in quanto felici di aver realmente vissuto; a meno che non ci si sia fatti anestetizzare da Netflix, dalle riunioni digitali, dai mille altri impegni che ci si inventa non appena si apra un spazio vuoto, gravido della possibilità di una diversa pienezza. 


*Il testo è stato scritto nel contesto di un laboratorio dal titolo La memoria del possibile. Per una narrazione condivisa, realizzato a cura di Enrico Donaggio (Università di Torino, Università di Marsiglia) in forma telematica nel periodo del lockdown, fra la fine di maggio e l’inizio di giugno 2020.

 

 

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