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Lorenzo De Stefano - Imparare dalla pandemia, tra ipermodernità e mobilitazione

8 maggio 2020

 

«Certo è, tuttavia, che solo una forza di tipo culturale, solo una fede poteva spingersi al punto di estendere all’infinito la prospettiva della ragione strumentale. E chi poteva mettere in dubbio che il progresso sia la grande religione popolare del XIX secolo, la sola a godere di una vera autorità e di una fede senza limiti?» Così scriveva Ernst Jünger nel 1930 nel celebre saggio La mobilitazione totale, espressione con la quale indicava il processo «con cui il complesso e ramificato pulsare della vita moderna viene convogliato in un sol colpo di leva nella grande corrente dell’energia bellica».

Il riferimento a un testo sulla guerra per introdurre una serie di considerazioni sulla pandemia di coronavirus, che recentemente ha assunto l'aspetto di un comune destino mondiale, può apparire immotivato o quanto meno forzato. Eppure, sin dagli inizi della pandemia del Covid-19, il vocabolario bellico è stato assiduamente utilizzato per inquadrare il problema o per delineare risposte e soluzioni: si è parlato di medici in trincea, si è detto che gli Stati hanno intrapreso una guerra per procurarsi materiali e risorse. Ancora, tramite l'analogia all’economia di guerra si è sottolineata la necessità di una razionalizzazione delle attività produttive; la pandemia ha giustificato, e non solo in Ungheria, il ricorso a una sorta di stato di eccezione che ha spianato la strada a forme di controllo statale e a limitazioni della libertà personale che mobilitano anche  strumenti tecnologici digitali, per non parlare del riemergere di un certo “spirito patriottico”, a dir il vero un po’ posticcio, che ha avuto peraltro l'effetto di riaccendere odi e conflitti tra nazioni, legittimati da un sistema economico concorrenziale e mai del tutto sopiti. La dimensione conflittuale che ha da subito segnato il diffondersi mondiale della epidemia è evidente, laddove forse una concordia universalis, dettata dal nostro evidente legame, senza soluzione di continuità, con ogni forma di vita, e al di là di ogni confine territoriale, sarebbe stata senz’altro più auspicabile.

È stato Mario Draghi, già Presidente della Banca centrale europea, a paragonare dalle colonne del Financial Times la situazione attuale a quanto accadde nella Prima guerra mondiale e a invocare misure finanziarie straordinarie relative all’aumento del debito pubblico, seguito sullo stesso terreno da David Sassoli, attuale Presidente del Parlamento europeo, con l'auspicio di un nuovo piano Marshall. La Confindustria ha fatto riferimento esplicito all’economia di guerra in rapporto alla stima delle perdite causate dal fermo imposto alle attività produttive dalla pandemia, quella stessa Confindustria che per altri versi, fedele al dogma del progresso, nella versione trivializzata della crescita, ha fatto pressioni, con effetti ormai noti, affinché la mobilitazione di lavoratori non cessasse per esigenze di tipo sanitario. Specularmente, l’eroica mobilitazione di medici, infermieri, volontari e gente comune in tutto il mondo e lungo linee transnazionali, la condivisione di conoscenze, risorse, tecniche e protocolli è stata indicata in più di un’occasione, operando una similitudine con la cooperazione tra eserciti alleati contro un nemico comune. In generale ogni lavoratore, ossia la forma metastorica con cui, sempre secondo Jünger, l’uomo partecipa all’epoca segnata dal dominio della tecnica, è stato, secondo modalità o binari differenti, mobilitato dalla pandemia. Allo stesso tempo, la fede nel progresso, nel binomio tra scienza e tecnica e nella ragione strumentale ha fatto sì che la politica cedesse il passo alla gestione tecnica dell’epidemia e di riflesso al governo dei corpi, in cui sono gli specialisti – medici ed epidemiologi nel migliore dei casi, nel peggiore economisti – a dettare scadenze e regole.

Ma la “mobilitazione tecnica” cui allude Jünger e a cui assistiamo ancora oggi, come direzionamento e disciplinamento della vita verso un qualcosa di metastorico che la eccede, nasconde in realtà un carattere dinamico che non è in prima battuta artificiale. Secondo Aristotele ciò che è principio di movimento (kinesis) e cambiamento (metabolé) è la physis; se dunque ignoriamo che cos’è il mutamento allora anche la natura in generale e la natura delle cose rimane preclusa. La natura è ciò che sin da sempre si trova nella forma della mobilitazione, nella forma del divenire, del mutare e del trapassare, secondo quantità – crescita e diminuzione –, secondo la qualità – alterazione – e infine secondo il luogo, come traslazione topologica e spostamento nello spazio. La modernità ha inteso a partire da Galileo e Cartesio il movimento unicamente in quest'ultima accezione, lasciando l’ambito della generazione e della corruzione al di fuori del perimetro della scienza e della matematica e relegandolo a un rango ontologico inferiore, in quanto non immediatamente matematizzabile, quello del bios. In parte oggi le cose sono cambiate, grazie all'applicazione di metodi statistici e ancora di più con la rivoluzione digitale dei big data e del quantified self, che ci ha permesso fra l'altro di elaborare a partire da dati biometrici modelli epidemiologici sempre più accurati. In tal modo anche la vita è stata inquadrata in una visione meccanicista e determinista della natura e dell’organismo. Da questa riduzione dell'organismo a congegno – dal suo concepirlo sub speciae machinae – deriva una importante conseguenza: anche la morte finisce per essere intesa come malfunzionamento, espunta dal naturale ciclo di generazione e corruzione, alimentando una tensione faustiana volta alla sua rimozione. La morte diviene un fenomeno risolvibile tecnicamente: se il corpo è congegno, allora esiste una soluzione tecnica, come per ogni problema tecnico di malfunzionamento.

Con la rimozione della morte dall'immaginario collettivo, e di pari passo con il farsi sempre più rare, in Occidente, le epidemie che avevano segnato la storia degli uomini, le stesse religioni hanno perso di senso. Per certi versi la loro funzione salvifica è stata delegata alla fede nel progresso e nella tecnica, alla fiducia nei vaccini e alla potenza degli algoritmi. Nel comune sentire l'uomo non muore più per volere di Dio, ma per una sorta di guasto tecnico, di cui è allora possibile individuare la causa, in modo tale da risolvere, almeno in linea teorica, il problema. 

Ciò implica che la gestione della morte passa dalla casta sacerdotale al medico, che si occupa della gestione della vita e della morte, officia il rituale del passaggio, e cerca, nei limiti delle possibilità e meglio di quando qualsiasi sacerdote possa fare, di impedire il trapasso ovvero che l’organismo smetta di funzionare. Si è passati, pertanto, da una Weltanschauung incentrata sul post mortem come unico telos da cui la vita trae senso, a una incentrata sulla estensione indefinita della vita qui e ora. Ciò ha portato a innegabili successi, ma ha fatto sì al contempo che la nostra civiltà, lentamente ma costantemente, perdesse il capitale semantico e il patrimonio simbolico necessario per affrontare la morte, assumendo la finitudine storica ed esistenziale degli esseri umani. 

Alla consapevolezza di questa natura transeunte e mortale, alla nostra finitudine, ci riporta brutalmente l'attuale pandemia: l’incapacità generalizzata dei governi mondiali, che pur dispongono di tecniche avanzatissime, non è allora originata da una carenza tecnica, dall'inesistenza del vaccino o dalla particolare virulenza di questi ceppi di Covid19 (pare ce ne siano 30 differenti), quanto piuttosto da un deficit simbolico e metafisico riconducibile a quella fede del progresso che è stata stigmatizzata, tra gli altri, da Jünger e che, paradossalmente, ha impedito una mobilitazione in difesa della vita. 

I ritardi nelle misure preventive e il dilagare dei contagi in tutti i paesi sinora colpiti, per non parlare della smobilitazione dei sistemi sanitari a cui negli ultimi anni abbiamo assistito, rispondono non solo a precise scelte economiche, ma anche, se non soprattutto, alla nostra cecità di fronte alla morte, alla nostra tracotanza faustiana. Da tale tracotanza il virus ci ha bruscamente risvegliati, ci ha scossi dal nostro sonno dogmatico e riposizionati su una piattaforma realista. Come tale il virus può essere considerato, al pari del climate change o della bomba atomica di qualche decennio fa, l’evento ipermoderno per antonomasia, un oggetto, o per usare la fortunata espressione di Morton, un “iperoggetto”, che mobilita e porta al parossismo tratti della modernità già da tempo dispiegati. Gli iperoggetti sono oggetti presenti in dimensioni spazio-temporali troppo grandi per essere percepiti in maniera diretta. Essi si riferiscono a eventi, i quali hanno in comune il fatto di metterci dinanzi alla prospettiva della fine, alla possibilità di un “mondo senza uomo”, come direbbe Anders, di sbatterci bruscamente fuori dalla nostra comfort zone, ci fanno riscoprire più fragili, contingenti, non necessari. L'iperoggetto virus non è solo letale in senso biologico. Esso costituisce un’istanza simbolica altrettanto distruttiva: ci impone di fare i conti con la rimozione della morte, ma anche con l’antropocentrismo soggettivista occidentale. Il virus è un vero e proprio agente demistificatorio in quanto esternalità ontologicamente irriducibile e incontrollabile, sintomo del nostro radicamento biologico in una natura che ci eccede e ci precede. Ci impone di uscire da ogni prospettiva antropocentrica, in quanto è un oggetto trans-animale e interspecista, ci insegna che, al di là delle strutture a priori spazio-temporali del soggetto, esiste una realtà ad esso irriducibile, che lo penetra e lo modifica nel profondo del suo RNA. Ci fa scoprire a un tempo finiti, mortali, ma radicati e interconnessi con l’altro e con l’essente, ci dice che l’alterità può entrare in noi stessi, che noi stessi siamo anche questa alterità, che il soggetto non è un sistema chiuso agente su uno sfondo posto dinanzi come non-io e altro da sé, ma dynamis – capacità di agire e patire –, kinesis  e metabolé.

Assieme all’idea antropocentrica, quindi, collassa anche un impianto filosofico basato sul dualismo soggetto-oggetto, io-mondo, per far posto a una impostazione relazionale e proteiforme in cui i confini tra organico e inorganico sono quanto mai labili. Ma soprattutto, e ritorniamo a quanto già accennato, fa emergere prepotentemente la povertà concettuale e fattuale del progressismo fine a sé stesso, acriticamente assunto, cieco alle relazioni sistemiche e ai vincula tra l’uomo e il cosmo, disposto, in nome della ragione strumentale, a sacrificare le esigenze della vita a quelle della economia. 

Purtroppo, e il Novecento ce lo ha insegnato, non sempre “dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva”, come scriveva Hölderlin. Nulla ci garantisce che sapremo, come individui e come popoli, trarre insegnamento da quella lezione e trovare le risorse per ripensare noi stessi e il mondo che abbiamo creato. In quanto filosofi, non ci rimane che augurarci, con Bobbio, di saper svolgere il proprio compito, che è quello di vigilare, un «compito umile, molto umile ma necessario […]:  un compito da sentinella, più che presuntuosamente da guida. La sentinella che deve stare ad ascoltare l’avvicinarsi del nemico, da qualunque parte esso provenga, e dare l’allarme prima che sia troppo tardi».






 

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