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Sotera Fornaro - Agamben e il requiem per l'università

25 maggio 2020

 

Riproduciamo qui l'intervento di Sotera Fornaro, già proposto sul sito “Visioni del tragico” dell'università degli Studi di Sassari il 24 maggio 2020

(http://www.visionideltragico.it/blog/covid-19/agamben-e-il-requiem-per-l-universita)

 

AGAMBEN E IL REQUIEM PER L'UNIVERSITÀ

 

Giorgio Agamben ha pubblicato ieri, sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, un post dal titolo Requiem per gli studenti, che ha già suscitato indignazione da parte di molti miei colleghi e forse farà discutere almeno quanto l’analogo post pubblicato dallo stesso filosofo ad inizio pandemia (L’invenzione di un’epidemia). Chi scrive, spera che accada e la discussione si accenda, poiché pensa che un dibattito sull’Università sia più che mai urgente.

Cosa dice Agamben?

Nella prima parte del post afferma, in sintesi, che l’Università, se si basa solo sulla ‘didattica a distanza’, smette di essere Università, perché verrebbe a mancare il rapporto emozionale e fisico tra studenti e docenti e anche degli studenti tra loro. Sin qui, niente di particolarmente nuovo o che non sia condivisibile. Agamben da tempo richiama l’attenzione sul significato di ‘studio’ e sulle sue implicazioni. Le osservazioni di Agamben sono storicamente giuste e giustificabili: alla fine del Settecento, proprio la nozione di ‘studio’ e la creazione dei ‘seminari’, cambiarono la maniera di intendere le pratiche scientifiche e contribuirono alla nascita delle scienze moderne. In quell’età, furono scritte molte ‘introduzioni allo studio’ delle differenti scienze, ad uso degli studenti universitari, poiché è allora che si formò e si concretizzò l’idea dell’Università in senso moderno (diverso da quello medievale). Sono cose note, su cui però torneremo in questo stesso blog.

In quanto al requiem per la vita studentesca a livello sociale, Agamben non ha inventato la storia e i progetti delle ‘città universitarie’, e comunque il suo compianto funebre può associarsi ad altri che vedono nei social, e dunque nelle comunità virtuali, un elemento sociologicamente disgregante.

Quel che però credo sia destinato a disturbare di più, nel post di Agamben è questa affermazione:

«I professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista. Come avvenne allora, è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono».

Certamente il paragone è urticante, se non altro perché chi non giurava fedeltà al regime innanzitutto perdeva il posto di lavoro, e rischiava la vita. Agamben, forse, è persino ottimista nel ritenere che ‘quei quindici’ siano davvero soventemente ricordati, e non piuttosto tenacemente dimenticati. Tra le poche eccezioni, la drammaturgia di Riccardo Mini, a cui ha collaborato Marina Spreafico, andata in scena nel 2015 (Preferirei di no).

Si può subito obiettare ad Agamben, ed è stato fatto a tamburo battente, che purtroppo in questo momento c’è poco da giurare: non si sa proprio nulla su come si svolgerà la didattica nel prossimo semestre; i documenti ufficiali in proposito sono confusi e paradossali, dato che si prospetta una didattica ‘mista’, qualunque cosa voglia dire questo aggettivo. Ma a me sembra che la questione non sia questa.

Agamben, però, che notoriamente si è posto fuori dall’Università italiana, e adesso è comunque in età da pensione, con consapevole provocatorietà, vuole dire un’altra cosa, credo: che il corpo docente italiano si sta distinguendo da anni per l’assuefazione a decisioni che lo riguardano e che gli vengono imposte dall’alto.

E si tratta, lo sappiamo tutti, di decisioni che vanno nella direzione sbagliata: ad esempio verso un’esasperata burocratizzazione di tutti gli aspetti della vita universitaria, ivi compresa la didattica; verso il proliferare indecente di sigle poco significative per la didattica e la ‘qualità’, ma ormai usate da tutti; verso l’elefantiasi di una macchina di auto-valutazione dai criteri discutibilissimi, e che pure diventa determinante nel finanziamento degli Atenei; verso la sottomissione muta nei confronti di agenzie, presìdi, commissioni e sottocommissioni, giunte e simili, che snaturano la stessa attività di ricerca e incidono fortemente sulla libertà di insegnamento; verso la soppressione della ricerca di base e l’agonia torturante, se non l’uccisione cruenta, di discipline ‘inutili’ e ‘improduttive’, tra cui quelle che rappresento [filologia classica].

Che l’Università italiana non sia più un luogo dove si ‘studia’ e si studia soltanto, penso sia noto persino a livello di percezione comune. Che l’Università non sia quello che dovrebbe essere, cioè l’istituzione che promuove il merito, degli studenti e di chi ci insegna e fa ricerca, purtroppo è dato talmente per scontato sulla stampa e i media, da annullare e svilire completamente il lavoro quotidiano e incessante di chi ancora crede e dimostra che un professore universitario sia colui che studia, fa ricerca, forma nuove generazioni al sapere critico.

D’altro canto, a Direttori di Dipartimento e Rettori, invece che un grado altissimo di rappresentatività scientifica e negli studi, pare si chieda in primo luogo capacità amministrativa; persino per diventare professore universitario conterebbero, se fa comodo, più le ‘cariche’ detenute in ‘organi’ vari, e non i contributi portati alla ricerca e alla conoscenza. Il che vuol dire: quanto più fai altro, per cui non sei stato formato, che non ti compete e di cui dovresti formarti una specifica competenza, tanto più sei dispensato a fare quel per cui sei pagato e per cui dovresti essere stato assunto.

Tutto questo accade senza un serio movimento di protesta. E chi osò protestare contro la VQR 2010-2014 (sigla il cui significato è noto solo a chi lavora nell’Università), ne porta ancora le conseguenze, a livello retributivo e non solo.

Agamben non può saperlo, non è più da troppo tempo nell’Università italiana, perciò può attenersi a linee di principio teoriche, che possono sembrare a tratti anche passatiste. Ma qualsiasi professore universitario sa cosa significa vivere e lavorare in un’istituzione verticistica, in cui i diversi gradi di responsabilità nel corpo docente diventano diversi gradi di potere e non componenti di un progetto scientifico e educativo, dal Rettore ai Delegati, dal Senato accademico alle Direzioni dei Dipartimenti.

La burocrazia diventa mezzo di coercizione, non di intermediazione, e gli studenti sono i primi a soffrirne, poiché nel linguaggio e nella pratica burocratica diventano numeri e soldi (quelli delle tasse). Ed è grave che tutto questo avvenga senza possibilità di discussione e anche di protesta e astensione, che anzi vi sia una disillusa rassegnazione ancora più deleteria di un giuramento al potere. Lo sforzo, quando c'è, è anzi tentare di scalare le tappe dell'organizzazione piramidale, diventare sempre più donna o uomo del sistema.

Eppure l’Università italiana ne dovrebbe avere abbastanza di forze intellettuali di primissimo piano buttate al macero o regalate alle istituzioni straniere; dovrebbe averne abbastanza di professori che non sono professori ma mediocri amministratori e burocrati kafkiani, e che se ne vantano persino; dovrebbe averne abbastanza di un insegnamento sempre più impoverito e nozionistico, a distanza o in presenza; dovrebbe averne abbastanza dell’Università come istituzione gerarchica e verticistica di potere e non di studio e ricerca; dovrebbe averne abbastanza ormai anche di nutrire al suo interno una serie di parassiti che finiscono con il gettare discredito e sospetto su tutta la categoria.

Non c’è affatto bisogno di agenzie e indicatori per sapere chi ha il carisma di professore universitario, e chi no.

E non c’è bisogno di essere indotti a giurare pubblicamente, per giurare comunque e tacitamente, fedeltà ad un sistema di cui si conoscono i limiti, i difetti, le gravi mancanze.

Perché si giura? – chiederà il lettore che non ha idea di cosa sia oggi l’Università. Per il motivo di sempre: perché si ha paura.

La crescente complessità di un’organizzazione porta, come sappiamo, all’alienazione del singolo, ed è una forma efficacissima di esercizio del potere. Se non accetti, e quindi giuri, di contribuire acriticamente al sistema, il sistema ti estromette. Se sei all’inizio, puoi anche dimenticare di assumere una posizione nell’Università. Se invece vi sei dentro e da molto, ti sarà detto che sei fortunato a percepire lo stipendio, ma non avendo i numeri (per esempio: hai pochi studenti e insegni discipline non professionalizzanti) faresti bene ad accontentarti di quel che hai. E se cerchi di ragionare, ad esempio di dissentire da ‘offerte formative’ che non offrono proprio nulla, ti si richiama a quel che sei e sei pure contento di essere, un idealista che crede ai progetti per il futuro, non a compromessi che soddisfano i limitati bisogni del presente. E se denunci le storture, le ingiustizie, i danni della mancanza di democrazia e confronto nei processi decisionali e persino nell’ideazione di forme di disseminazione sociale della conoscenza, ti ignorano e questa è una formula più subdola del censurare esplicitamente. In quest’emergenza più che mai, l’organizzazione dell’Università è stata governata dalla forma decreto, del Ministro, del Rettore, del Direttore di Dipartimento: eppure proprio la telematica consente un confronto a distanza efficacissimo, che sarebbe stato più che opportuno. Ma in generale, al di là dell'emergenza, la dialettica interna negli organi universitari, nei vari livelli, da quello locale a quello nazionale, è praticamente azzerata e con essa la democrazia.

Ecco: il paragone di Agamben potrebbe offendere noi professori universitari, perché ci chiama vigliacchi. È un paragone che è parso inopportuno. Eppure, proprio turbando e provocando, ci induce a riflettere.

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