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Lo straniero. Le condizioni della convivenza

Intervista a Francesco Remotti condotta da Giacomo Pezzano


G.P. La prima cosa che verrebbe spontaneo chiedere a un antropologo è: che cosa significa dal tuo punto di vista parlare dello "straniero"? Ma ha poi davvero senso parlarne al singolare?

F.R. È difficile pensare che esistano società umane prive della categoria di straniero. Per ogni società è infatti del tutto probabile, forse inevitabile, a) che esistano società vicine o lontane, di cui si abbia una certa conoscenza; b) che tali società siano costruite con altri criteri e adottino altri costumi, altra cultura, altra lingua; c) che membri di società diverse si incontrino per caso, per iniziativa singola oppure per scambi previsti e programmati; d) che ogni società distingua i propri stranieri secondo una tipologia diversificata; e) che dunque elabori schemi diversi di azione in riferimento ai diversi tipi di stranieri. Per esempio: stranieri con cui è bene ignorarsi; stranieri con cui stabilire rapporti commerciali pur ignorandosi, come nel cosiddetto commercio muto; stranieri con cui è previsto combattersi; stranieri con cui stabilire rapporti di solidarietà o di alleanza, addirittura di matrimonio, e talvolta questo avviene persino con i propri nemici; stranieri accolti nella propria società, dove possono assurgere a livelli elevati del potere (come i re stranieri nelle società tradizionali dell’Africa o della Polinesia); stranieri portati a viva forza nella propria società (come nel caso della schiavitù, assai diffusa in diverse parti del mondo: e anche gli schiavi non sono tutti del medesimo tipo, non hanno il medesimo destino). No, per ogni società di solito non esiste un unico tipo di straniero, e ciò dipende dal modo in cui gli stranieri vengono pensati come rispondenti alle diverse esigenze e alle diverse ideologie delle singole società.


G.P. La figura dello straniero assume sempre più rilevanza nel dibattito pubblico, ma sembra che finisca troppo spesso per essere o demonizzata o santificata, come se il problema si riducesse a "respingere VS accogliere". Questo tipo di contrapposizione non rischia secondo te di cancellare la fondamentale ambiguità legata a ogni incontro con gli stranieri, così decisiva per ogni esperienza umana?

F.R. Ovviamente, il quadro tipologico abbozzato prima presuppone una situazione sufficientemente stabile o stabilizzatasi nel tempo, periodo in cui le singole società hanno avuto modo di prendere le misure e di elaborare e collaudare le proprie strategie di sopravvivenza, oltre che di coesistenza e di convivenza. Si pensi all’esteso anello kula studiato da Bronislaw Malinowski in Melanesia come sistema di scambio cerimoniale e commerciale tra isole molto distanti tra loro, parlanti lingue reciprocamente incomprensibili. Si pensi, su scala molto più modesta, ai casi di commercio muto (scambi in assenza dei partner stranieri), che presuppongono accordi preventivi, intesa e fiducia reciproci. Una situazione sufficientemente stabile consente di elaborare una cultura dello straniero e probabilmente vale anche l’inverso: una sufficientemente elaborata cultura dello straniero (per esempio, con le distinzioni tipologiche e strategiche di prima) è a sua volta fattore di relativa stabilizzazione. Diverso è il caso di instabilità demografica, di flussi migratori spesso non del tutto previsti, come avviene oggi in diverse parti del mondo. Può succedere allora che, anziché un quadro elaborato di tipi di stranieri, si abbia una semplificazione drastica, un concentrarsi su immagini dello straniero non come risorsa, ma come minaccia: la cultura dello straniero si impoverisce, riducendosi alle categorie più elementari. Del resto, la mentalità prodotta storicamente dagli stati-nazione non aiuta di certo a elaborare un quadro più articolato. Caso emblematico: non era stato forse Carl Schmitt a stabilire che per ogni organismo politico – in particolare per gli stati-nazione – vale la semplice, drastica, elementare opposizione tra “amico” (noi) e “nemico” (gli altri, gli stranieri, tutti gli stranieri)?

G.P. In passato nei tuoi lavori hai molto insistito sui problemi legati all'ossessione per l'identità. Leggendo il tuo ultimo libro, si ha l'impressione che grazie al concetto di "somiglianza" diventa possibile riconoscere anche i pericoli figli dell'ossessione per la diversità e il fatto che identità e diversità in fondo sono solo le due facce opposte di una stessa medaglia. Può essere effettivamente questo uno dei messaggi del tuo testo?

F.R. Certamente, questo è uno dei messaggi del mio Somiglianze (2019). Permettimi però una precisazione. Semplificando all’estremo, possiamo dire che identità si colloca al livello delle rappresentazioni: è una delle rappresentazioni possibili, ma una rappresentazione che nega e nasconde il tessuto sottostante delle somiglianze. Identità e somiglianze si collocano su piani diversi. Ciascuna di esse si accoppia però col suo opposto, che nel caso dell’identità è l’alterità e nel caso della somiglianza è la differenza. Non si dà identità che non produca automaticamente alterità, ciò con cui non si condivide nulla (A e non-A, noi e gli altri, amico e nemico, per intenderci: tertium non datur). La somiglianza si abbina invece alla differenza: non si dà un rapporto di somiglianza che non sia anche un rapporto di differenza. Se adottiamo la visione delle somiglianze e delle differenze, non avremo mai A e non-A, ma avremo A un po’ simile e un po’ diverso da B, da C, da D e così via. Non avremo mai delle dicotomie, se non per scelte consapevoli in cui si usa la spada (per esempio, la spada della giustizia): avremo invece un intrico, una rete di somiglianze-differenze che si spinge in una molteplicità di direzioni. Se questo quadro è plausibile, è indubbio che una visione dominata dall’identità spinge a vedere le differenze, piuttosto che le somiglianze. Lo si vede molto bene dal modo con cui gli antropologi (ossessionati pure loro dall’identità) descrivono il campo del loro sapere: è difficile che dicano un campo di somiglianze o, meglio ancora, di somiglianze e differenze; preferiscono parlare di differenze, di diversità (il “mare della diversità” culturale), e l’antropologia diviene pericolosamente sul piano epistemologico il sapere delle diversità culturali.

G.P. Parafrasando anche la celebre battuta di Totò, dalla tua prospettiva la convivenza è per gli uomini qualcosa che si nasce o si diventa?

F.R. Bella domanda. Risponderei tutt’e due. Noi nasciamo e sopravviviamo nella, con, grazie alla convivenza (si pensi in primo luogo al rapporto del feto con la madre). La vita per i biologi è un insieme di fenomeni di simbiosi e in particolare di endo-simbiosi: la simbiosi non si verifica più soltanto tra gli organismi, ma al loro interno; c’è persino una simbiosi intra-cellulare. È ovvio, però, che la domanda riguarda le società umane. E allora mi domando: è possibile una società del tutto priva di convivenza? Risponderei negativamente, così come direi che non è possibile nemmeno una società che sia fatta solo di convivenza, cioè di partecipazione, condivisione, coinvolgimento reciproco di persone e di gruppi. È vitale la partecipazione (fonte della convivenza), quanto la separazione (fonte della coesistenza). Tutto sta a vedere quanto e come i noi si destreggiano tra le due componenti. E questo vale anche nei rapporti tra “noi” e gli “altri”: quanto vogliamo investire in termini di convivenza, quanto vogliamo invece accontentarci in termini di coesistenza (dando per scontato che non si voglia superare certi confini e spingerci sui terreni del rifiuto, del respingimento, dell’annientamento). Ci vuole quindi molta cura e molta cultura per la convivenza: ci vuole immaginazione per inventare forme di convivenza; ci vuole arte, passione, competenza per cercare di realizzarle.

G.P. Provando a fare un piccolo esercizio di immaginazione, quali passi pensi che potrebbero essere fatti per dar vita a una "cultura della somiglianza e della convivenza"?

F.R. Mi limiterei a due passi preliminari. Il primo è l’abbandono di ciò che ho chiamato l’ossessione identitaria. Come ho cercato di teorizzare in Somiglianze, il massimo che la politica delle identità può ottenere, coadiuvata dalla tolleranza, è un regime di “coesistenza”, contrassegnata dalla separazione, persino dal rispetto. Cosa manca alla coesistenza? È la partecipazione dei vari noi alla progettazione di un futuro comune. E qui viene fuori il secondo passo preliminare: il rendersi conto che qualsiasi forma sufficientemente ampia e duratura di convivenza (il discorso diviene inevitabilmente globale) è resa possibile soltanto se nel frattempo abbiamo realizzato una convivenza con la natura, come molte società che gli antropologi hanno studiato stanno a dimostrare. Utopia? Molto probabile. Ma senza questo presupposto (convivere con la natura, invece di spremerla e soggiogarla, distruggendone le risorse), è del tutto impossibile ragionare su una convivenza tra gli esseri umani. 

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