Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Roberto Finelli e Tania Toffanin - Sul privilegio (Note critiche su Agamben-Cacciari)

3 settembre 2021

Sul privilegio

(Note critiche su Agamben-Cacciari)

 Roberto Finelli e Tania Toffanin

 

 Abbiamo inteso di scrivere qualche riflessione insieme su quanto Giorgio Agamben e Massimo Cacciari hanno pubblicato il 26 luglio 2021 sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (A proposito del decreto sul “green pass”), perché ci sembra utile fare un poco di chiarezza sullo spirito del tempo, sul Zeitgeist, di cui i due autori citati ci appaiono essere solo l’epifenomeno più vistoso e accreditato.

 Vogliamo provare brevemente a comprendere cosa ci sia dietro una tale rivendicazione di libertà individuale, sottratta ad ogni condizionamento e mediazione con la libertà collettiva, in un richiedere verosimilmente assai dimentico della definizione data, ormai tempo addietro, da Franco Fortini, secondo cui «la mia libertà inizia, non dove finisce, ma dove inizia la libertà dell’altro». E dunque comprendere perché il nostro tempo, storico e culturale, si sia connotato, sempre più, per una moltiplicazione e ipertrofia dei diritti individuali del singolo, di contro ai diritti comuni e sociali.

 Il dibattito che l’obbligatorietà della certificazione verde ha aperto si situa, peraltro, all’interno di uno scenario internazionale che impone alcune riflessioni. Pensiamo infatti che tale dibattito sia fondamentalmente centrato sui diritti individuali, all’interno di un contesto nel quale le libertà individuali sono pienamente garantite. Per contro, quanto sta succedendo in Afghanistan ci impone di riflettere, a partire proprio dalle libertà individuali, in termini meno eurocentrici. Sforzo questo che pensiamo sia necessario per uscire dal provincialismo del dibattito italiano ed europeo in tema di diritti fondamentali e libertà personali.

 L’impianto accusatorio che sostiene la vasta schiera di coloro che si oppongono all’introduzione della certificazione verde poggia in buona misura sui concetti di limitazione della libertà personale e di discriminazione.

 Nei suoi vari scritti Giorgio Agamben ha sollevato non tanto questioni di legittimità formale ma di natura sostanziale dei dispositivi a suo dire “protettivo-repressivi” messi in campo dalle istituzioni governative. Con Cacciari poi egli ha sostenuto l’equivalenza della certificazione verde (che ricordiamo essere altro rispetto ad una mera certificazione vaccinale poiché prevede anche la negatività al test in assenza di vaccinazione e su questo è stata creata una confusione ad hoc) con pratiche discriminatorie consolidate all’interno di Stati, come Cina e Unione Sovietica, che hanno fatto del controllo della popolazione uno strumento organico di governo del territorio. Boutade, tuttavia, che non solo richiama quelle rappresentazioni che sono frequentemente utilizzate dalla destra conservatrice e liberale per osannare gli imperativi del mercato e invocare l’arretramento dello Stato ma che con la pandemia pensiamo non abbia alcuna congruenza. L’equiparazione di alcuni dispositivi di controllo della popolazione utilizzati in epoche passate con quelli utilizzati dopo lo scoppio della pandemia è solo funzionale, crediamo, a preordinare il discorso anticipando le conclusioni: «stiamo preparandoci a un regime» (Cacciari) nel quale «la tessera verde costituisce coloro che ne sono privi in portatori di una stella gialla virtuale» (Agamben).

 Secondo i due, la certificazione verde decisa dal Governo funzionerebbe da dispositivo di controllo funzionale alla politica per discriminare e quindi differenziare la cittadinanza sulla scorta dell’adeguamento a quanto previsto dal piano vaccinale. Cacciari esordisce poi giungendo ad ampliare quanto enucleato sommariamente da Agamben fino ad articolare una critica serrata alla decretazione che, facendo ricorso alla formula dello stato di emergenza, di fatto, rappresenterebbe una sospensione della democrazia. Per articolare la critica allo stato di emergenza e alla conseguente sospensione della democrazia, Cacciari richiama la (tanto bistrattata) Costituzione per ribadire che i limiti sanciti dagli articoli 13, 16 e 32 in tema di inviolabilità della libertà personale, di restrizioni alla circolazione e di obbligo ai trattamenti sanitari non sono mai stati definiti in termini formali. Questa indeterminazione, secondo Cacciari, avrebbe lasciato ampia discrezionalità al Governo italiano di legiferare riducendo se non sopprimendo l’autonomia individuale in nome di una eterodirezione imposta da uno stato di necessità ed urgenza mai chiaramente definito.

 La questione centrale a nostro avviso da vagliare non è l’attacco all’operato governativo in nome di una astratta idea di interesse collettivo da tutelare, per la quale qualsiasi disposizione normativa è accettabile. Ci mancherebbe: il Governo italiano ha gestito in modo del tutto criticabile tempi, strumenti e risorse per il contenimento della pandemia! Ma questa è un’altra storia e richiede un esame specifico dei dispositivi messi in atto, del rapporto tra Governo centrale e regioni, e delle risorse presenti nel settore sanitario. L’iniziativa legislativa governativa sta dentro un quadro storicizzato del quale occorre tener conto. Abbiamo forse scoperto con la pandemia l’abuso della decretazione d’urgenza? L’emanazione di decreti che hanno valore di legge ordinaria è prevista dall’art. 77 di quella stessa Costituzione che più volte Cacciari richiama. Essa è prevista in casi straordinari di necessità e di urgenza. Sappiamo che dagli anni Ottanta l’utilizzo dei decreti-legge è aumentato in modo crescente, anche per regolare questioni che necessitano della discussione parlamentare. L’utilizzo della decretazione d’urgenza da parte del Governo nella gestione della diffusione pandemica non è una questione preminente a nostro avviso, se davvero intendiamo esaminare la posta in gioco.

 Le questioni essenziali sono altre e hanno tutte a che vedere con la materialità dei processi in atto. Si sostiene, ad esempio, con forza il diritto all’autodeterminazione sanitaria ma non si evidenzia con pari vigore che questo diritto può essere esercitato solo perché è data la possibilità di scegliere tra il ricorso alla vaccinazione o alle cure e il non ricorso ad esse. Serve forse ricordare che il prolungamento delle restrizioni alla mobilità è stato necessario a causa della rapida saturazione delle terapie intensive, prodotta da anni di mancati investimenti in nome del contenimento della spesa pubblica.

  I numeri del sistema sanitario italiano appartengono alla categoria dei fatti. E su questi serve muovere critiche incisive e circostanziate ed un’azione rivendicativa. Finora a nostro avviso entrambe sono state ancora molto modeste e quindi del tutto inadeguate a rivendicare quelle risposte ai bisogni fondamentali di tutti e tutte noi in fase pandemica e fuori dalla pandemia. È fondamentale infatti avere contezza dello stato del sistema sanitario, dall’organizzazione delle strutture ospedaliere, in primis della capienza e della dotazione delle terapie intensive, ma anche della medicina di base, e comprendere come la malattia lo abbia intaccato. Sono state investite nuove risorse nel sistema sanitario nazionale? Come sarà gestito in futuro il rapporto tra Governo centrale e regioni, che non poco ha contribuito ad allentare la stretta sulla diffusione pandemica? Quali e quante risorse sono state assegnate alla ricerca scientifica? Quali e quante risorse alle retribuzioni del personale sanitario? Dobbiamo attendere un eventuale e non auspicato altro evento pandemico per avere risposte a questi legittimi quesiti?!

 Il buon stato di salute del sistema sanitario è la precondizione per allargare la sfera dei diritti e per ampliare quell’autodeterminazione alla quale Agamben e Cacciari fanno continuamente riferimento ma in termini sostanziali non solo formali. L’autodeterminazione è un bene cruciale. Essa però va esaminata sulla scorta delle condizioni oggettive che la promuovono non, invece, analizzando solamente i dispositivi che la limitano. E qui veniamo al punto dolente.

 C’è una questione che negli scritti di Agamben e Cacciari è continuamente e volutamente elusa. Chi può esercitare il diritto di non sottostare al piano vaccinale e in quali condizioni può farlo?

 A noi sembra che l’approccio dei due riproduca quell’eurocentrismo tanto debole quanto inservibile per spiegare la complessità attuale, ma anche per proporre soluzioni capaci davvero di non discriminare e non creare nuove divisioni tra coloro, ad esempio, che possono utilizzare servizi sanitari qualificati e in tempi celeri e coloro che devono accontentarsi della disponibilità contingente con lunghi tempi di attesa.

 Dove sta l’eurocentrismo di Agamben e Cacciari? È tutto espresso nell’attacco a quella che considerano essere una forma di stigmatizzazione via legis. Non sono forse altre le forme fattuali della discriminazione nel nostro paese (e non solo)? Classe, genere e razza sono categorie superate forse nelle riflessioni che hanno a che vedere con norme e pratiche discriminatorie? In quali termini la pandemia sta intaccando la popolazione sulla base di un’analisi di classe, di genere e di razza? Ce lo vogliamo chiedere o pensiamo davvero che la pandemia, come tutte le patologie, agisca su tutte e tutti allo stesso modo? O forse la discriminazione espressa da Agamben e Cacciari vale solo per maschi, adulti, bianchi e di classe agiata?! Ancora: la pratica discriminatoria secondo i due inflitta dallo Stato all’individuo come si pone di fronte all’interesse collettivo? Chi sarebbero dunque quei «tutti (che) sono minacciati da pratiche discriminatorie» richiamati nelle poche righe apparse nel sito dell’Istituto italiano per gli studi filosofici?

 Non c’è richiamo alla collettività negli scritti di Agamben e Cacciari. Il perno delle loro invettive è l’individuo e l’attacco all’autodeterminazione individuale.

 Questa pandemia sta sollevando molti interrogativi, anche di portata radicale se la vogliamo cogliere, rispetto ai nostri stili di vita e di consumo, al rapporto con il territorio e, ultimo ma non ultimo al rapporto tra produzione e riproduzione sociale. Le riflessioni di Agamben e Cacciari sono in questo senso del tutto superate dagli eventi. Ci riportano indietro di mezzo secolo quando il paradigma della crescita illimitata era egemone e con esso l’idea di poter rapportarsi alla natura e all’ecosistema in modo del tutto dispotico.

 Il loro discorso rispecchia la schizzinosità di una classe agiata abituata al benessere, assicurato da uno stato sociale che, nonostante i ripetuti attacchi, ha garantito la copertura universalistica del diritto alla salute.     

 Sappiamo che così non è in molte altre aree del mondo. La capacità di relativizzare la propria condizione esistenziale è parte essenziale di quello sguardo comprendente che dovrebbe emergere in situazioni come quella attuale, nella quale siamo chiamati e chiamate ad interrogarci profondamente non su quanto la nostra libertà sia limitata e in pericolo dall’incipiente deriva securitaria in nome del controllo sanitario ma su quanto dobbiamo impegnarci per aumentare lo spazio della giustizia sociale.

 Questa pandemia ci ricorda che abbiamo dei limiti fisici e conoscitivi e che abbiamo contribuito straordinariamente alla loro espansione, disinvestendo ad esempio nella ricerca scientifica e nella strutturazione di un corretto rapporto con la scienza. Investire nella conoscenza dell’eziologia e della patogenesi delle malattie è addebitabile alla governamentalità o alla cura del benessere collettivo?

 Del resto, più in generale, va detto che Agamben e Cacciari sono da sempre pensatori dell’Altrove, vale a dire che pensano e parlano da un altro mondo, lontano da quello della gente comune, e partecipano dunque per definizione di una cultura degli áristoi, dei migliori, che, in base all’ispirazione di Nietzsche, li abilita ad essere superiori e indifferenti al sentire delle masse.

 Giorgio Agamben almeno dalla pubblicazione di Homo sacer ci dice infatti che la realtà che viviamo è quella del «campo», del campo nazista di concentramento e di sterminio, poiché da decenni siamo in uno stato permanente di emergenza, di eccezione, che consente al potere dello Stato e delle istituzioni di fare strage dei nostri diritti in cambio del mantenimento e della protezione della nostra nuda vita.

 Per consentirci di continuare a vivere o meglio solo a sopravvivere – nei termini di una «nuda vita», appunto solo biologica, solo animale – lo Stato democratico, attraverso una continua legislazione di emergenza, ci spoglia di tutti gli altri nostri diritti che ci consentirebbero di vivere una vita culturalmente e socialmente dignitosa, e ci sottopone alla disciplina di una biopolitica che invade e controlla autoritariamente ogni nostro spazio esistenziale.

 Così è l’Altrove, il Fuori, per Agamben, il principio e il luogo originario del potere politico nella società, secondo la grande lezione teorica del filosofo della politica, di destra e prossimo al nazismo, Carl Schmitt: che ha sempre affermato che la fonte del potere stia in chi, collocandosi al di fuori delle norme costituzionali, sia in grado di proclamare lo stato di emergenza e di sospendere le regole della socialità ordinaria. Ossia che il potere statuale non nasce da patti e convenzioni tra parti sociali, mediate dalla loro rappresentanza, com’è accaduto in buona parte delle Costituzioni della modernità, ma da colui che è in grado di porre ed imporre la «decisione».  

 Una filosofia dell’Altrove, quella che motiva il discorso di Agamben, anche perché gli è rimasta, sembra, del tutto ignota, la lezione di Karl Marx sulla forza-lavoro quale vera e reale nuda vita della società capitalistica moderna, in quanto astratta originariamente da ogni possesso ed uso del mondo-ambiente e in quanto, obbligata, come sua forma più propria e continua di esistenza, ad erogare lavoro astratto, normato e impersonale nei luoghi della produzione.

 Così come Agamben, estraneo, ci sembra, a una qualche seria frequentazione di filosofie dialettiche, appare non essere stato mai in grado d’intendere come il vero potere della società capitalistica stia in una dialettica di essenza ed apparenza, ossia nella capacità di dissimulare rapporti di feroce diseguaglianza e di sfruttamento (nella profondità dell’essere sociale) attraverso relazioni, invece, di eguaglianza sulla superficie dell’azione sociale, regolate dalle libertà, universali per tutti, di essere soggetti sia del diritto che del mercato. E che quindi il dominio del capitale come soggetto tendenzialmente totale ed onnipervasivo della società contemporanea abbia come fondamento primo – da cui derivano poi tutte le altre articolazioni di potere – l’operare di una ricchezza accumulativo-astratta, dis-umana, che dissimula i protocolli del suo agire, attraverso la messa in scena di soggetti umani, capaci di autodeterminazione e di libertà di consumo.

 Ma Giorgio Agamben, quanto è lontano da ogni cultura della differenza dialettica, tanto appare invece prossimo alla differenza ontologica di Martin Heidegger, supposto filosofo massimo della modernità, ma, com’è a tutti ben noto, anch’egli per molti anni in odore di nazismo. E infatti a base della filosofia politica di Agamben quale perpetuazione del campo concentrazionario e dello stato di emergenza c’è, a ben vedere, una ontologia politica. Ossia la riproposizione, attraverso Heidegger, di una categoria filosofica del tutto arcaica ed estenuata, a nostro avviso, quale quella di «Essere», con la conseguente consegna di tutta la realtà, umana e non-umana a un principio ad essa ulteriore – quale appunto quello di Essere - indefinibile e non determinabile, da cui possiamo aspettarci solo invii destinali, cioè imposizioni, non discutibili, di senso, e di configurazione di epoche storiche. Dove ciò che vale è proprio il nesso di esclusione-implicazione che Agamben usa e ripete, ossessivamente, per ogni ambito del suo pensare: modellato proprio sulla frattura originaria ed abissale tra Essere ed Esserci, cioè tra principio ontologico e principio antropologico, per la quale gli esseri umani rimuovono dal loro orizzonte, ormai solo mercatorio ed utilitaristico, quell’Essere (sacrale ma non religioso) che pure li fonda: escludendo in tal modo ciò che è il presupposto implicito del loro vivere.

 Così lo stato di eccezione, la possibilità di ridurre ogni soggetto a nuda vita sottoponendolo a un potere autoritario sovrano, è la vera realtà, il principio immanente dell’ordine istituito delle democrazie, esattamente come l’Essere di Heidegger è, nella sua lontananza estrema, il principio immanente, pur se rimosso e dimenticato, dell’esistenza umana.

 Questo è dunque lo sfondo teorico originario nel quale collocare e valutare l’appello che Giorgio Agamben ci rivolge in questa sua ultima battaglia contro la biopolitica vaccinale, a favore di una resistenza alla norma collettiva e pubblica da parte dei diritti del singolo. Con l’implicito ma non dichiarato convincimento, aggiungiamo noi, che in realtà possa veramente intendere il suo discorso solo colui che si colloca nella nobiltà dell’Altrove, dell’assolutamente Altro, e sia in grado quindi di pensare la filosofia politica solo ponendo alla sua base una ontologia politica: giacché si agisce nella storia e nella società solo se si pensa e si affronta la questione dell’Essere (aggiungeremo noi, come voleva, l’aristocratica filosofia di Parmenide di Elea nel V° sec. A.C. e a seguire, di lì, tutta la dotta ed ecclesiale filosofia Scolastica del Medio Evo).

 Non a caso alla figura di Giorgio Agamben, ossessionato da sempre dallo Stato di emergenza, si è associato, in questa rivendicazione dell’autodeterminazione contro lo Stato biopolitico e autoritario, un altro frequentatore, sebbene meno raffinato e profondo, dell’Altrove e del Fuori, qual è Massimo Cacciari.

 Fin dal suo testo del 1976, Krisis, egli ha infatti mostrato la sua adesione alla rivoluzione reazionaria di Martin Heidegger, teorizzando che di fronte al fallimento nichilistico della ragione e delle scienze nella loro pretesa di fissare verità oggettive, l’unico approccio in un contesto di realtà attraversato da costanti criticità e di confronti tra forze è quello della «decisione». Specificamente, nel caso della nostra contemporaneità, la decisione di opporre alla volontà di potenza della «tecnica», e alla sua diffusione quale megamacchina della nostra vita, i valori di un umanesimo profondamente mediato dal pensiero dell’Essere e dal confronto con l’onto-teologia.

 La ragione umana, teorizza Cacciari, si prova a pensare l’empiria, la molteplicità dei fenomeni del mondo, ricercandone leggi e causalità, ma viene meno nella spiegazione di ciò che dovrebbe dare legittimità e forza originaria al suo procedere: nella spiegazione cioè, non di come le cose esistano, ma perché esistano. Ossia, per dirla, anche qui con Heidegger, perché l’Essere e non il Nulla? Il conoscere può infatti legiferare tecnicamente sull’esistente, spiegandolo per cause, ma non è in grado di dimostrarne l’Essere, ovvero come sia giunto all’esistenza. Per questo va risolutamente affrontato il problema dell’Inizio, dell’Inizio Assoluto, di «un Prius assoluto, incondizionato […]. L’idea dell’essere precedente ogni pensiero, l’idea-limite dell’incondizionatamente esistente [che] è l’‘abisso’ della ragione».

 Come tutti i neoparmenidei contemporanei, Cacciari si è mostrato dunque per nulla avvertito dalla lunga tradizione di filosofia critica la quale nella modernità ha insegnato che parlare in questo modo di Essere e Nulla significa - come avrebbero detto maestri come Adorno, Wittgenstein e il nostro Guido Calogero - cadere nell’errore di sostantificare parole, piombare cioè nella trappola di prendere parole per cose, ossia di prendere lucciole per lanterne. Ed è coerentemente arrivato a trasumanare nel pensare, a lungo e con decisione, il problema del rapporto possibile tra Inizio assoluto e mondo. Giungendo a teorizzare, anche qui in modo pressocchè analogo a quello di Agamben, che l’Essere dell’Inizio non deve essere costretto ad entrare in rapporto con la cosiddetta realtà concreta – non deve essere gravato dalla questione della creazione del mondo – perché, nella sua assoluta indifferenza rispetto al mondo, deve implicare anche la possibilità di non-essere: di essere cioè perfettamente libero di essere potenza-di-essere che si traduce nell’esistenza, così come di essere potenza di non-essere che rimane nel Nulla e non passa nell’esistenza.

 Tanto che Cacciari, recuperando la radicalizzazione teologica dell’ultimo Schelling, ci può dire che «l’Inizio, come puramente Com-possibile, contiene in sé ogni possibile, fino alla propria stessa im-possibilità». Ed appunto proprio in questo campo originariamente infinito di possibilità come Inizio di ogni inizio si iscrive l’autenticità della vita di ognuno come «decisione» e libera affermazione di sé.

 Ora, lasciando riposare in pace anche Aristotele, che forse avrebbe sobbalzato di fronte a una potenza che non sia destinata a realizzarsi nell’atto, quanto s’è detto qui di questioni di ontologia e metafisica, assai in breve e quasi celiando, vale per noi solo ad evidenziare quanto sia distante quell’Altrove e quel Fuori. Da quella posizione privilegiata, i due intellettuali pretendono di parlare di patologie umane e cose terrene, ignari della distanza che separa il pianeta terra dalle loro costellazioni ontologiche.

  

 

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