ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

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Saggi per la scuola

ANTONIO GARGANO: L'IDEALISMO TEDESCO - Fichte, Schelling, Hegel

HEGEL 

IL SISTEMA
Mi ricollego brevemente alle lezioni precedenti, per­ché veramente la storia della filosofia con Hegel raggiun­ge l’autoconsapevolezza del suo sviluppo, quindi è bene sottolineare i raccordi. Abbiamo detto che con Kant si era raggiunto il culmine dell’Illuminismo, cioè il culmine di una mentalità fondata sì sulla ragione, ma su una ragione astratta, che vedeva il mondo come una successione di entità finite. Abbiamo detto che l’emblema di questa mentalità è dato dall’Enciclopedia, il maggiore sforzo di conoscenza prodotto dagli illuministi, nel quale tutto lo scibile umano è raccolto come tanti tasselli di un mosaico, esterni gli uni agli altri, come una somma di conoscenze finite. Ci troviamo con l’Illuminismo e anche con Kant nella sfera di una ragione che si pone di fronte semplice­mente al finito. Abbiamo invece sottolineato che la civiltà romantica (abbiamo voluto chiamarla civiltà perché si è espressa in un’arte, in una letteratura, in una scienza, in una medicina, in una visione della politica, oltre che nel pensiero filosofico) si contrappone all’Illuminismo per il nuo­vo tentativo di cogliere l’infinito, che nella terminologia romantica prende spesso il nome di assoluto. Assoluto, abbiamo ribadito, nel senso etimologico del termine, di ab­solutus, sciolto da vincoli, libero, e quindi coincidente con l’infinito, in quanto solo l’infinito non ha nient’altro fuori di sé che lo condizioni. L’infinito e l’assoluto con il Romanticismo sono diventati nuovamente oggetto dello slancio umano teso a raggiungerli. Il superamento dell’Illumi­nismo, questa nuova pretesa prometeica, titanica dell’uo­mo di raggiungere anche l’infinito oltre che il finito, si è espressa sostanzialmente in due maniere.
C’è un Romanticismo di carattere intuitivo-artistico: una serie di sforzi di cogliere l’infinito, nel finito e in se stesso, in maniera intuitiva, in maniera sentimentale, in maniera fideistica, in maniera mistica, in maniera sostanzialmente irrazionale. C’è però anche un Romanticismo che cerca di cogliere l’infinito con la ragione; questo tentativo viene compiuto da Schelling, ma naufraga nella concezione dell’arte come organo della filosofia, nell’intuizione estetica e infine nel misticismo irrazionalistico. Un tentativo importante è stato compiuto anche da Fichte, ma abbiamo rilevato che in Fichte il raggiungimento dell’assoluto e quindi della libertà non avviene, in quanto nella situazione storica l’io trova sempre di fronte a sé gli ostacoli del non-io, e, quando ne ha superato uno, ne emerge sempre un altro: c’è l’idea di un progressivo allargarsi della libertà dell’uomo, di un progressivo assolutizzarsi dell’uomo, cioè dell’io empirico, però l’io empirico non riesce mai a diventare io assoluto. L’io assoluto, l’assoluta libertà, e quindi anche l’assoluta razionalità, sono sempre un passo dopo, ma se sono oltre il punto che si è raggiunto, questo vuol dire che sono un passo dopo la storia, e quindi siamo ancora all’interno della mentalità illuministica, in quanto sussiste una separazione fra due entità ambedue finite: la ragione che viene qualificata come assoluto oppure come Io assoluto, e la storia che resta sempre al di qua e quindi in fondo resta sempre finita, sempre non pienamente pervasa dalla razionalità. L’Illuminismo, col suo rifiuto della storia, con la sua divisione del mondo tra ragione, che rimane astratta, e storia, che dovrebbe recepire la ragione, continua. Nonostante il suo grande sforzo speculativo, Fichte resta all’interno dell’orizzonte illuministico. Con Hegel invece è compiuto il passo ulteriore e decisivo.
Il modo attraverso cui Hegel arriva al congiungimento di finito e infinito passa per una rifondazione della ragione. Quanto ho detto fino ad ora, lo ripercorrerò con voi nelle citazioni tratte da varie opere di Hegel: vedremo la critica di Hegel a Kant, a Fichte, al Romanticismo e a Schelling, perché, come Hegel stesso ha insegnato, e come abbiamo visto a proposito della Fenomenologia, ogni realtà non è separata dalle altre, e quindi anche ogni momento, ogni figura della storia del pensiero è collegata alle altre. In questo Hegel supera l’Illuminismo: per l’Illuminismo ogni realtà è un finito separato da un altro finito, per Hegel nessun finito può essere separato da un altro finito, in quanto, se si procede in questo modo, si cade nel razionalismo astratto dell’Illuminismo. Astratto nel senso che letteralmente “trae da”, trae la parte dal tutto di cui è parte, e quindi la fraintende. Per Hegel non è possibile intendere nessun termine, nessun fenomeno come isolato in se stesso, non si può intendere nessuna filosofia come isolata in se stessa. Anche un’entità finita come un sistema filosofico (il caso nostro è il sistema filosofico hegeliano) per Hegel non può essere inteso se non come un momento di uno sviluppo, quindi per capire Hegel bisogna tenere presenti almeno Kant, Fichte, Schelling e il Romanticismo, anzi si può dire senz’altro di più: che Hegel veramente non ha lasciato fuori del suo pensiero niente di tutta la storia della filosofia, e da Talete fino a se stesso è riuscito a raccogliere tutto quello che c’era di positivo in ogni sistema filosofico, vedendo l’assoluto culminare nell’autoconsapevolezza di sé conseguita nella storia della filosofia. Hegel è stato un grande spirito sintetizzatore, capace di cogliere tutto il percorso della storia della filosofia e di dargli forma sistematica. Hegel sostiene che il vero è l’intero, che ogni parte presa di per sé è astratta, per questo è consigliabile considerare il suo sistema alla luce delle critiche dei sistemi precedenti.
La prima citazione è tratta dalla Logica. «L’intelletto riflettente si impadronì della filosofia». Che cosa significa questa frase lapidaria? L’intelletto riflettente è la filosofia di Kant in quanto implica la separazione tra il soggetto e l’oggetto, il porsi il problema di una riflessione di un oggetto da parte di un soggetto, che però sono due entità distinte. Kant ha spazzato via tutte le filosofie precedenti. «L’intelletto riflettente si impadronì della filosofia. Occorre sapere esattamente che cosa vuol dire quest’espressione, che altrimenti si adopera in vari significati come termine di battaglia. Per intelletto riflettente o riflessivo è da intendere in generale l’intelletto astraente e con ciò separante, che persiste nelle sue separazioni. Volto contro la ragione, codesto intelletto si conduce quale ordinario intelletto umano o senso comune, e fa valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile, che i pensieri siano soltanto pensieri, nel senso che solo la percezione sensibile dia loro sostanza e realtà, e che la ragione, in quanto resta in sé e per sé, non dia fuori che sogni». Come sempre in Hegel, le affermazioni sono molto dense: la filosofia di Kant, la filosofia dell’intelletto astratto, è una filosofia che coincide col senso comune, che ha l’impressione di trovarsi di fronte a oggetti i quali sono esterni e contrapposti a un soggetto, e che sono tanti, costituiscono una moltitudine. Hegel assimila la posizione di Kant alla dimensione dell’uomo ingenuo, il quale pensa che esista la molteplicità e che questa molteplicità sia irriducibile all’unità. Kant non è andato oltre l’intelletto. L’intelletto astratto, separatore, è stato per lui l’organo supremo di conoscenza, perché la ragione per Kant, non dà fuori che sogni, come dice Hegel alla fine della citazione che ho letto, cioè le tre idee della ragione non corrispondono a tre realtà: Dio, anima e mondo sono soltanto costruzioni della ragione.
«In questa rinuncia della ragione a se stessa il concetto della verità va perduto. La ragione viene ristretta a conoscere soltanto una verità soggettiva, soltanto l’apparenza [il fenomeno di Kant] soltanto qualcosa cui la natura dell’oggetto stesso non corrisponda. Il sapere è tornato ad esser l’opinione». Certo, il fenomeno è apparenza e non corrisponde alla cosa in sé, quindi in Kant non si conosce la verità, si conosce qualche cosa che non è la cosa stessa, si conosce l’apparenza della cosa, il fenomeno. Il sapere è tornato a essere opinione, e questa è opposta alla verità: la filosofia kantiana fa cadere il pensiero nell’opinione, ma l’opinione è quella corrente, e ognuno pensa di avere opinioni. Kant fa regredire la filosofia al senso comune.
Proseguo, questa volta dall’Enciclopedia delle scienze filosofiche, tradotta da Benedetto Croce: «Uno dei punti di vista capitali della filosofia critica è che prima di procedere a conoscere Dio, l’essenza delle cose, ecc. si debba indagare la facoltà del conoscere per vedere se sia capace di adempiere quel compito: si dovrebbe apprendere a conoscere l’istrumento prima di intraprendere il lavoro che per mezzo di esso deve essere portato a termine: chè se l’istrumento fosse insufficiente, ogni altra fatica sarebbe perduta». Kant ha fondato il criticismo, cioè la filosofia trascendentale, ha messo a fuoco il problema delle strutture conoscitive dell’uomo. Intorno alla filosofia trascendentale si concentra tutto lo sforzo del conoscere. Hegel ironizza su questo sforzo tipico del criticismo, che pretende di mettersi a conoscere gli strumenti del conoscere prima di procedere alla conoscenza diretta, come se si potesse procedere a imparare a nuotare prima di immergersi nell’acqua. «Questo pensiero è parso così plausibile [è parsa una cosa giusta indagare prima gli strumenti e poi mettersi a conoscere] che ha destato la maggiore ammirazione e consenso ed ha ricondotto il conoscere dal suo interesse per gli oggetti e dal suo occuparsi di questo, a se stesso, al formale». Il termine “formale” è molto importante; con Kant c’è stata la rivoluzione copernicana: dagli oggetti stessi la filosofia, la conoscenza si sono rivolte all’elemento formale, cioè non più il contenuto della conoscenza è al centro dell’attenzione, bensí semplicemente la forma del conoscere, vale a dire l’intuizione, l’intelletto, la ragione, le categorie dell’intelletto, le idee della ragione. Tutto il discorso di Kant verte sugli strumenti del conoscere, sulle forme che si applicano ai contenuti del conoscere, mentre il contenuto stesso è stato lasciato da parte. «Se tuttavia non si vuole illudersi con parole, è facile vedere che altri istrumenti possono ben indagarsi e giudicarsi in altro modo che non sia il lavoro stesso cui sono destinati; ma l’indagine del conoscere non può accadere altrimenti che conoscendo: dacchè indagare questo cosiddetto istrumento non è altro che conoscerlo». In altri campi è possibile indagare gli strumenti, invece nel caso della conoscenza non posso conoscere gli strumenti del conoscere a prescindere dal conoscere stesso: se sto conoscendo gli strumenti di conoscenza li sto gia adoperando. Quindi la Critica della ragion pura per Hegel è fondata sulla pretesa assurda di creare una specie di preambolo alla conoscenza, come se fosse possibile compiere un’indagine preliminare sugli strumenti e le capacità di conoscenza, mentre si sta già conoscendo. Kant è   autocontraddittorio. «Voler conoscere dunque prima che si conosca è assurdo, non meno del saggio proposito di quel tale Scolastico [di quel tale filosofo medievale] di imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell’acqua». Formulare la critica a Kant più chiaramente di come ha fatto Hegel qui è impossibile.
Nel momento in cui Kant ha ridotto tutto all’elemento formale, affermando che si può conoscere solo la forma del conoscere, vale a dire intuizione, intelletto e ragione, ma non si può fare un discorso sul mondo, non si può fare un discorso sull’anima, non si può fare un discorso su Dio, cioè la metafisica è impossibile, Kant ha aperto la strada all’irrazionale nella filosofia, che poi dilaga in un certo romanticismo. Una volta che Kant ha sostenuto che Dio non può essere oggetto di conoscenza, ha implicitamente riconosciuto che però può essere oggetto di fede (nella Critica della ragion pratica Dio è oggetto dell’esigenza dell’uomo morale), non è oggetto della ragione, ma può essere oggetto del sentimento. Quindi è come se Hegel dicesse: «La parte irrazionalistica della filosofia romantica è dovuta a Kant, perché Kant, avendo limitato la filosofia e la conoscenza alle forme, si è fatto sfuggire l’elemento più importante della realtà, e questo è diventato oggetto di discorsi di carattere irrazionale».
Consideriamo ora alcuni brani tratti dalla Fenomenologia dello spirito: «Attraverso tutto ciò [cioè attraverso tutta la storia della filosofia culminata in Kant], non solo lo spirito è passato nell’altro estremo della riflessione – priva di sostanza – di sé in se stesso [si è messo a riflettere su se stesso, ma perdendo la sostanza, l’esteriorità, la realtà], ma ha sorpassato anche questo. Non soltanto la sua vita essenziale è per esso perduta, esso è anche consapevole di una tale perdita e della finitezza che ora costituisce il suo contenuto». Lo spirito kantiano illuministico non può andare oltre il finito, però questo finito è miserabile, il finito è materiale, il finito è sensibile, e gli intelletti più attenti non si accontentano dell’elemento sensibile materiale, che Hegel ironicamente chiama «cibo dei porci».
Continuiamo a leggere la citazione: «Respingendo il cibo dei porci [cioè di fermarsi al finito] – confessando la sua abiezione, imprecando contro di essa, lo spirito pretendeva dalla filosofia non tanto di sapere che cosa esso è, quanto di riuscire, mediante lei, alla ricostruzione della perduta sostanzialità e della compattezza dell’essere». È finita l’epoca kantiana e adesso, nel Romanticismo, si pretende di non fermarsi a questa pesantezza del cibo dei porci, della sensibilità, si vuole andare oltre. «Per venire incontro a questo bisogno, la filosofia dovrebbe non tanto risolvere la compattezza della sostanza ed innalzare la sostanza stessa all’autocoscienza, non tanto ricondurre la coscienza caotica all’ordine pensato e alla semplicità del concetto, quanto piuttosto rimescolare le distinzioni del pensiero, opprimere il concetto differenziante e restituire il sentimento dell’essenza. garantire non tanto discernimento [discernimento è una parola decisiva, significa il vedere le cose come separate le une dalle altre, il poter esercitare la critica, il distinguere, cioè l’atteggiamento razionale] quanto edificazione».
«II bello, il sacro, l’eterno, la religione, l’amore sono l‘esca ritenuta adatta a stuzzicare la voglia di abboccare; non il concetto ma l’estasi [l’estasi romantica, l’uscire fuori di sé per abbracciare l’assoluto con uno slancio irrazionale], non la fredda e progressiva necessità della cosa, ma il turgido entusiasmo devono costituire la forza che sostiene e trasmette la ricchezza della sostanza». È chiaro che l’entusiasmo si riferisce a quella che in tedesco si chiama Schwärmerei, allo spirito ribelle, irrequieto dei romantici, all’entusiasmo per un assoluto che si vorrebbe abbracciare chissà come. «A questa esigenza corrisponde un certo affannoso e molto zelante lavorìo per sollevare il genere umano dall’abbrutimento nel sensibile, nel volgare e nel singolo, e per indirizzarne lo sguardo alle stelle, quasi che gli uomini, del tutto obliosi del divino, siano sul punto di appagarsi con i vermi di polvere e d’acqua». La reazione ai limiti del kantismo porta a un disprezzo per il sensibile e a una ripresa dell’irrazionalismo.
Il passo successivo è una stoccata alla filosofia di Schelling, la forma più matura del pensiero irrazionalistico, che pretende di cogliere l’assoluto come unità indifferenziata, quindi come unità indistinta, come unità mistica di soggetto e oggetto, di finito e di infinito. È il famoso brano in cui Schelling è rimproverato di vedere l’assoluto come una notte in cui tutte le vacche sono nere, cioè in cui non si può distinguere niente: ci avviciniamo piano piano alla concezione hegeliana dell’assoluto. L’assoluto, come l’ha concepito il Romanticismo, come l’ha concepito Schelling, è puntuale, cioè è qualche cosa che può essere colto con un’intuizione, con un atto di apprensione immediato: un’intuizione estetica, uno slancio di carattere mistico. Ora, il passo in avanti che Hegel compie è quello di inserire la categoria del divenire, che dal punto di vista umano è la storia, all’interno dell’assoluto. Se l’assoluto viene inteso come puntuale e quindi indistinto, è chiaro che lo si può raggiungere soltanto con un atto intuitivo e si cade nell’irrazionalismo, perché con Cartesio la filosofia ha distinto due approcci di conoscenza: l’intuizione e il discorso; o si conosce una cosa per apprensione immediata, oppure con il discorso razionale. Il discorso implica il passare da un termine all’altro, cioè il ragionare. Ora, se conoscere razionalmente vuol dire discorrere, cioè ragionare, il ragionamento da che cosa è caratterizzato? È caratterizzato dal fatto che ci sono una serie di termini: si parte da A, si passa per B, per C, per D, ecc., e poi si arriva a Z; si parte dall’alfa e si arriva all’omega, come appunto avviene nelle dimostrazioni matematiche e nei procedimenti logici o filosofici. Questo è il conoscere razionale, il conoscere logico. Se l’assoluto viene concepito come un processo, come uno sviluppo, non come qualche cosa di statico, come qualche cosa di puntuale, bensí come qualche cosa che diviene, che si sviluppa, come qualche cosa che ha una storia, è chiaro che esso sarà oggetto di conoscenza razionale, cioè di conoscenza mediata, discorsiva, non di conoscenza immediata, puntuale, intuitiva, vale a dire che l’assoluto sarà oggetto di ragionamento, cioè di ragione. Spero che  questa distinzione, che è molto importante, sia chiara: l’intuizione implica l’immediatezza, implica un elemento puntuale che viene afferrato in un attimo come pretendevano i romantici e Schelling; il ragionamento implica invece il passaggio per tanti termini intermedi: parto da A, arrivo a Z, ma per arrivare a Z devo passare per termini intermedi, e ho una conoscenza mediata. Se l’assoluto è una serie di mediazioni, come appunto Hegel sostiene, cioè una serie di momenti, una serie di passaggi, ciò vuol dire che è un’entità che diviene, è il risultato di uno sviluppo, per coglierlo bisogna ripercorrerne tutto lo sviluppo, la ragione è la facoltà adeguata a rispecchiarlo.
Così viene criticato l’approccio di Schelling all’assoluto: «Noi vediamo ora attribuirsi ogni valore all’universale Idea in questa forma dell’irrealtà, ed assistiamo al dissolvimento di tutto ciò che è differenziato e determinato». Infatti, nell’assoluto di Schelling, il finito e l’infinito, il soggetto e l’oggetto sono sempre compresenti in ogni parte dell’assoluto, ma non si dà nessun elemento dinamico per spiegare come giungono a distinguersi, cioè come si differenziano l’uno e il molteplice, il finito e l’infinito, il soggetto e l’oggetto. «Assistiamo piuttosto al precipitare di questi valori nell’abisso della vacuità, senza che quest’atto sia conseguenza di uno sviluppo, né si giustifichi in se stesso, il che dovrebbe tenere il posto della considerazione speculativa. La considerazione della determinatezza di qualsivoglia esserci come si dà nell’Assoluto, si riduce al dichiarare che se ne è bensí parlato, ma come di un alcunché; ma che peraltro nell’Assoluto, nell’A=A non ci sono certe possibilità perché lì tutto è uno». In Schelling A=A, l’assoluto è uguale all’assoluto: come si fa a discriminare all’interno dell’assoluto quello che è determinato, quello che è finito, all’interno dell’uno quello che è molteplice? Se l’assoluto è identità, come ha detto Schelling, l’identità si esprime nella formula del principio aristotelico di identità: A=A, ma se A=A come si fa a trovare B in A? Invece il procedimento dialettico sostenuto da Hegel implica che A=A, ma è anche uguale a B, presenta cioè una tensione interna. Hegel si fonda sulla categoria del divenire: una cosa è uguale a se stessa, quindi A=A, però è anche animata da una tensione a diventare diversa, a crescere, a trasformarsi, quindi è uguale ad A, ma anche a B. All’interno di un’entità c’è già il principio della sua differenziazione. Per Schelling invece l’assoluto è unità indifferenziata: se l’assoluto lo chiamo A, questo significa che A=A, e allora come scaturirà B, l’alterità, rispetto  all’unità dell’assoluto, come scaturirà il molteplice? «Con- trapporre alla conoscenza distinta, e compiuta o alla conoscenza che sta cercando o esigendo il proprio compimento, questa razza di sapere – che cioè nell’Assoluto tutto è uguale oppure gabellare il suo Assoluto per la notte nella quale, come si suol dire, tutte le vacche sono nere, tutto ciò è  l’ingenuità di una conoscenza fatua». È molto drastico. Schelling era stato suo alleato per la concezione dell’assoluto, ma, quando Schelling irrigidisce l’assoluto nell’iden- tità, Hegel lo stronca.
«Finché la conoscenza dell’effettualità assoluta non sia venuta completamente in chiaro circa la propria natura, dalla scienza non disparirà quel formalismo che, accusato e spregiato dalla filosofia dei tempi nuovi, si è riprodotto proprio in essa: né disparirà, quand’anche ne sia nota e sentita l’insufficienza». Avrei potuto chiudere la citazione come fanno molte antologie scolastiche quando si dice che tutte le vacche sono nere, ma ho voluto aggiungere quest’altro brano perché è illuminante per capire alcuni fenomeni della filosofia successiva: Schelling dà vita insieme all’irrazionalismo mistico e al positivismo; se si dà infatti un esito mistico alla filosofia, dall’altra parte si ripresenta la materialità. Schelling è il padre dell’irrazionalismo dell’800 e del ’900, ma è anche il padre del positivismo, perché, per riprendere i termini di Hegel, se si limita la conoscenza al mondo finito, sensibile, materiale, allora subito si dirà che poi c’è l’assoluto, c’è Dio, c’è l’immortalità e, se non li possiamo raggiungere con la ragione, perché ci dobbiamo fermare ai sensi, li raggiungeremo con lo slancio fideistico. L’empirismo finisce con l’aprire la strada al misticismo. Viceversa, se mi metto sulla strada mistica e dico che l’assoluto è identico a se stesso e si può cogliere solo con un rapimento estatico, mi ritrovo poi la positività delle cose, cioè le cose effettive, “poste” davanti a me, e dovrò dire che le cose effettive le conosco con i sensi. Schelling apre dunque la strada a tutte e due le forme di irrazionalismo: voglio sottolineare che il positivismo è anch’esso una forma di irrazionalismo.
Rimane ancora la polemica con Fichte, e a questo proposito Hegel parla più direttamente della sua visione in positivo: «Secondo il mio modo di vedere, tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il vero come soggetto». Fino a quando scorgiamo la verità come presente in un oggettività statica di fronte a noi, come in fondo l’aveva vista Spinoza, ci troviamo ancora sempre all’interno di una mentalità dogmatica: se non riesco a vedere la realtà come qualche cosa che ha presente al suo interno la soggettività, che tende all’autoriflessione, mi ritroverò sempre di fronte al fatto che il soggetto sta da una parte e l’oggetto sta dall’altra. Per questo Hegel dice che il vero va inteso come soggetto, ovvero si potrebbe anche dire in un altro modo paradossale, cioè che l’oggetto va inteso come soggetto. Lo vedremo meglio fra poco. In questo recupera Schelling e recupera anche in parte Fichte. «La sostanza viva è bensí l’essere il quale è in verità oggetto, o, ciò che è poi lo stesso, è l’essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la sostanza è il movimento dell’autoporsi» [l’io che pone se stesso di Fichte], «o in quanto essa è la mediazione del divenire altro da sé con se stessa [l’io che nel porre se stesso pone il non‑io]. Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio scopo e che solo mediante l’attuazione e mediante la propria fine è effettuale». Per Hegel l’autoposizione del non‑io all’interno dell’io è un movimento di carattere circolare, oppure, meglio, come dicono alcuni manuali, è un processo a spirale: la dialettica di Fichte (io, non‑io, io empirico) diventa successione di tesi, antitesi e sintesi, e la sintesi a sua volta tesi di un altro processo, quindi è come una spirale che si chiude, ma si riapre sempre continuamente. Se l’assoluto, secondo Hegel, si può paragonare a una spirale, questo significa che esso è presente con tutto se stesso in ogni momento. Invece nella visione di Fichte, se si potesse usare un’analoga immagine geometrica, l’assoluto è come una retta ascendente che tende asintoticamente all’infinito, ma questo infinito non lo raggiunge mai e quindi ha sempre un punto di riferimento esterno. Nel pensiero di Hegel l’assoluto è presente in ogni momento: questo significa che tutto ciò che è reale è razionale, cioè possiede la sua ragion d’essere, l’elemento ideale, l’elemento razionale al suo interno stesso. «Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo». L’essenza non è già tutta data, l’essenza è l’essenza di tutta la realtà stessa, l’essenza dell’assoluto è un farsi dell’assoluto: l’assoluto non è statico, non è, l’assoluto diviene, è il suo stesso sviluppo.
«Dell’Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità, soggetto, o svolgimento di se stesso». A questo punto emerge con chiarezza la concezione hegeliana dell’assoluto: l’infinito e il finito non sono distinti, non stanno uno da una parte e l’altro dall’altra. La ragione e la storia, il reale e l’ideale non sono contrapposti, quindi la razionalità è presente in ogni momento dello sviluppo storico, l’idealità è presente sempre nel reale. È stato detto che Hegel è l’ultimo dei Greci, perché ha ripreso quella grande intuizione greca che sta alla base della nostra civiltà, per la quale esiste un logos, una razionalità all’interno della realtà naturale: la natura non è mai semplicemente bruta materialità priva di razionalità, priva di logos, priva di una sua logica, di sue leggi. Tutta la natura è soggetta a leggi precise. Tutta la materia è animata da una logica, è soggetta a leggi ferree, ha in sé quello che Hegel chiama ideale, cioè ha una razionalità: non esiste materialità senza razionalità, non esiste realtà senza razionalità. Questa forte coincidenza di reale e di razionale implica un’altra coincidenza forte per cui l’uomo, essendo un prodotto della natura, ha in sé la capacità di rispecchiare tutto l’ordine naturale: il logos, la ragione, non è semplicemente qualche cosa di oggettivo, che sta nella natura, ma sta anche nel soggetto. L’altra grande intuizione greca è l’altra grande affermazione di Hegel: tutto il reale è razionale significa che tutta la realtà ha una logica, non ci può essere niente, non c’è niente nella realtà naturale, animale, storica, che non sia animato da una legge, da una razionalità; tutto ciò che è reale è razionale, e quindi è comprensibile da parte dell’uomo, in quanto l’uomo è dotato di ragione, cioè è capace di rispecchiare la realtà proprio perché è il frutto più maturo dell’evoluzione naturale, è il momento in cui la natura ricomprende se stessa. In questo Hegel accoglie pienamente tutto quello che di positivo c’era in Schelling. L’uomo con la sua ragione può conoscere tutta la realtà, niente può sfuggire alla ragione umana. È una posizione di forte fiducia nelle capacità dell’uomo.
Vorrei sottolineare in quale atmosfera Hegel ha sviluppato questi pensieri. Hegel ha piantato l’albero della libertà nel 1789 con Schelling e con Hölderlin, e ha scritto che la Rivoluzione francese era il momento in cui l’uomo finalmente si metteva a dirigere in maniera razionale i processi sociali, cioè l’uomo prendeva in mano le redini della storia. Hegel si può spiegare con il grandissimo sviluppo che ha avuto dalla fine del ’700 ai primi decenni dell’800 la borghesia e la sua intellettualità, con la consapevolezza di portare un grande rinnovamento del mondo. Il mondo fino alla Rivoluzione francese si è retto su meccanismi automatici, che sostanzialmente implicano la prevalenza del più forte, la prevalenza di chi riesce a raccogliere più potere. Hegel vede il carattere nuovo della nostra epoca nata con la Rivoluzione francese nel fatto che l’uomo prende nelle proprie mani il processo di sviluppo dei rapporti sociali e si mette a dirigerlo secondo una progettualità, cioè secondo la ragione: «Dacché il sole è nel firmamento e i pianeti gli ruotano intorno, non si era visto che l’uomo poggia sulla testa, cioè sul pensiero, e, in base ad esso, edifica la realtà [...]. Ora solo l’uomo è arrivato a  conoscere che il pensiero deve governare la realtà spirituale. Fu una splendida aurora. Tutti gli esseri pensanti hanno festeggiato quest’epoca». L’età contemporanea non si è ancora chiusa, noi viviamo ancora nell’età aperta dalla Rivoluzione francese. Il processo che Hegel ha visto iniziare con la Rivoluzione francese non si è ancora compiuto: il mondo umano non è ancora plasmato, anzi purtroppo è ben lungi dall’essere plasmato dalle forze della ragione, dalla progettualità razionale. In una filosofia così forte l’uomo può conoscere tutta la realtà, l’uomo crea una seconda natura, questa seconda natura può essere modellata pienamente dalla progettualità razionale: è chiaro che si tratta di una filosofia ottimistica, possibile in un momento di grande espansione degli orizzonti umani. Quando, nel 1830‑’48, tutto questo fulgore viene meno, si manifesta chiaramente che la grande speranza dell’emancipazione complessiva dell’umanità non è stata realizzata; nelle barricate del ’48 per la prima volta la borghesia si vede con disappunto contrapposta un’altra classe sociale che le è ostile, il proletariato, e perde la convinzione di poter essere la classe che ha emancipato l’umanità e l’ha liberata definitivamente, inizia un ripiegamento che dà luogo a forme di irrazionalismo, all’esistenzialismo, da cui non si è ancora usciti. Mi sembrava opportuno rivendicare la centralità della formula “tutto ciò che è razionale è reale”, come formula implicante un grande ottimismo della ragione, che Hegel recupera da un altro grande momento della civiltà, cioè la civiltà classica greca. Questo gli è possibile perché egli è figlio dell’età della Rivoluzione francese.
Riprendiamo la lettura di Hegel: «La filosofia, poiché è lo scandaglio del razionale, appunto perciò è la comprensione del presente e del reale, non la ricerca di un aldilà, che sa Dio dove dovrebbe essere o del quale, nel fatto, si sa ben dire dov’è, cioè nell’errore di un unilaterale, vuoto raziocinamento. Ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale». La filosofia, se è conoscenza razionale della realtà, è conoscenza del presente. La filosofia per Hegel, come dice in un’altra famosa definizione, è «il proprio tempo appreso col pensiero». La vera filosofia è sempre analisi del presente, cioè è sempre il proprio tempo appreso col pensiero. Come dirà Hegel in una celebre pagina della Filosofia del diritto, la filosofia è come la nottola di Minerva, cioè la civetta che si leva in volo sul far del tramonto: la filosofia conosce quel che già c’è, non è altro che la comprensione razionale di quello che c’è, non è anticipazione di un futuro che non può essere indagato razionalmente, scientificamente. Il proiettarsi nel futuro è proprio del sogno, dell’utopia, ma Hegel non è un filosofo utopista, per lui è possibile conoscere (e questo è possibile farlo fino in fondo) solo il presente attraverso la ragione. «Alla realtà del razionale si contrappone, da una parte, la veduta che le idee e gli ideali non siano se non chimere, e la filosofia è un sistema di questi fantasmi cerebrali [...]». È la critica radicale della filosofia vista come utopia, come chimera, che in fondo poi è il modo come l’uomo qualunque, l’uomo della strada, come si suol dire oggi, vede la filosofia: la filosofia è il mondo dei sogni seguendo i quali Talete, il primo filosofo, cade nella pozzanghera mentre riflette sull’unità del tutto. Il senso comune vede la filosofia come sogno e appunto Hegel rimprovera i suoi colleghi: «Se vedete la filosofia come utopia date ragione al senso comune». «[...] Dall’altra, che le idee generali e gli ideali siano alcunché di troppo eccellente per avere realtà, o anche di troppo impotente per procacciarsela». Esprime con molta chiarezza qual è il paradosso implicito nello scindere reale e razionale: il razionale sarebbe l’elaborazione di sogni, e la realtà sarebbe tutta quanta irrazionale, cioè gli ideali non avrebbero la capacità di procacciarsi realtà, gli ideali sarebbero impotenti. L’Illuminismo ha fallito perché pretendeva di calare ideali dalla mente dei filosofi nella realtà, invece gli ideali li partorisce la storia stessa: la storia è autocontraddittoria e genera da sé il nuovo. Questo è l’aspetto che verrà sviluppato in particolare da Marx. «Ma la separazione della realtà dall’idea è specialmente cara all’intelletto». La tendenza a separare reale da razionale è una delle funzioni dell’intelletto, cioè della facoltà non pienamente matura dell’uomo che tende a vedere le cose come separate, razionale da una parte e reale dall’altra: la mentalità illuministica. «Ma la separazione della realtà dall’idea è specialmente cara all’intelletto che tiene i sogni delle sue astrazioni per alcunché di verace, ed è tutto gonfio del suo dover essere, che anche nel campo politico va predicando assai volentieri; quasi che il mondo avesse aspettato quei dettami per apprendere come deve essere e non è: ché, se poi fosse come deve essere, dove se ne andrebbe la saccenteria di quel dover essere?». Mi pare molto efficace l’ironia di Hegel contro il dover essere: per Hegel non esiste il dover essere, perché parlare di dover essere significa contrapporre una ragione all’essere, che invece la ragione l’ha già in sé. Ciò non toglie che il reale tenda a oltrepassare se stesso. La realtà storica non è uguale a se stessa, ma è uguale a se stessa e alla realtà ulteriore che essa porta in sé, è uguale ad A, ma è anche uguale a B, che essa contiene già in embrione.
La realtà è autocontraddittoria, è in un continuo divenire che procede per tesi, antitesi e sintesi. La prima triade della realtà è: idea, natura, spirito. L’idea, dice Hegel, è come i pensieri di Dio prima che si traducessero in realtà materiale, Dio prima della creazione del mondo e dell’Incarnazione. La trama logica, la trama concettuale della realtà, cioè l’idea, viene studiata dalla logica. Voglio soltanto rilevare che questa concezione della logica porta Hegel a superare in maniera netta la logica kantiana. La logica kantiana, la logica della filosofia trascendentale, pretende di essere un discorso scientifico sulle forme della conoscenza, ma i contenuti sono esterni ad essa, invece la logica hegeliana è un discorso che non separa la forma dal contenuto: è la realtà stessa che al suo interno è animata da una logica, la razionalità diventa cosciente nella mente dell’uomo, ma è già presente nelle cose stesse. Per questo si dice che la logica di Hegel coincide con la metafisica: le strutture della realtà, colte dalla logica, non sono semplicemente meccanismi formali di pensiero, bensí sono le strutture stesse della realtà, della realtà quale sfugge ai sensi, della realtà aldilà del sensibile. Lo studio di queste strutture logiche è nello stesso tempo studio delle strutture della realtà: la logica corrisponde alla metafisica.
In origine c’è l’idea, l’idea però è autocontraddittoria, non può rimanere semplicemente in se stessa,   anch’essa è dinamica, deve negare se stessa, deve manifestarsi, invece che sul piano ideale, sul piano opposto a quello ideale, cioè sul piano materiale, deve esteriorizzarsi, deve uscire da sé ed esteriorizzarsi, cioè deve dare luogo alla natura. Può essere sorprendente il fatto che venga posta per prima l’idea, ma invece per Hegel è decisamente importante che venga messa al primo posto in ordine logico l’idea e non la natura. Cerco di spiegarlo con un esempio molto semplice e mi scuso se può essere banale: Hegel per strutture logiche della realtà intende qualcosa di molto più ricco e complesso, ma considero a scopo di esempio una piccola struttura matematica come può essere il teorema di Pitagora. Ora, è vero che il teorema di Pitagora lo si ritrova in qualunque triangolo rettangolo che ci si metta a disegnare, ma la struttura del teorema di Pitagora è vera anche a prescindere dal fatto che si disegni un triangolo, ed è anche vera indipendentemente dal fatto che l’uomo abbia elaborato il teorema di Pitagora: la verità del teorema di Pitagora è precedente non soltanto all’esistenza dell’uomo che l’ha scoperto (infatti il teorema di Pitagora ovviamente era valido anche quando Pitagora ancora non l’aveva enunciato), ma esso ha una sua necessità logica che precede anche l’esistenza di triangoli rettangoli concreti, sensibili: a prescindere dal fatto che ci siano triangoli rettangoli sensibili, il teorema di Pitagora è valido lo stesso. Dal punto di vista logico l’idea è precedente alla cosa, la relazione tra i lati del triangolo rettangolo me la ritrovo anche nella cosa, cioè esteriorizzata nel disegno che traccio, ma questo è secondario, viene dopo, logicamente invece viene prima il teorema di Pitagora. Due più due fa quattro, ma anche prima di trovarmi di fronte a elementi fisici che posso enumerare a due a due costatando che la somma fa quattro, assolutamente prima, a priori rispetto a tutto questo, mi trovo la verità del rapporto fra il due più due. L’idea, Hegel lo sottolinea con forza, viene prima della natura.
L’idea si esteriorizza nella natura. Si dice che la filosofia della natura di Hegel costituisca una parte caduca del sistema. Ovviamente Hegel si è dovuto basare sugli elementi delle scienze del suo tempo, però la sua capacità di vedere la connessione tra le cose, l’applicazione del suo metodo, gli hanno permesso di precorrere intuizioni di molto successive, per esempio il fatto che lo spazio e il tempo non siano due entità separate fra di loro, come ha dimostrato Einstein, ma che siano una in funzione dell’altra, per cui la realtà è quadridimensionale: l’unione di spazio e tempo, che sono separati fino a Newton, fino a Kant, Hegel nelle sue lezioni sulla Filosofia della natura l’ha enunciata esplicitamente, mentre sul piano della   teoria fisica è stata poi dimostrata nel nostro secolo.
All’interno della natura si sviluppano forme sempre più consapevoli della realtà, fino allo sboccio della razionalità, cioè della piena consapevolezza di tutto il processo di sviluppo della realtà nella razionalità umana, nell’autocoscienza umana, nello spirito. Proprio questo è il telos, il fine, il destino di tutto il divenire. Per spirito si intende la natura diventata consapevole della sua struttura ed origine ideale nell’uomo che, con la sua intelligenza, con la sua ragione, capisce la presenza dell’elemento ideale, dell’elemento razionale all’interno del reale, cioè della natura. Non si tratta dello spirito nel senso metafisico: lo spirito è l’autoconsapevolezza di sé che la natura acquisisce nell’uomo, lo spirito è l’uomo razionale. «Questo possesso di sé dello spirito, questo suo venire a se stesso può dirsi il suo scopo supremo, assoluto, questo soltanto è il suo ruolo e nient’altro. Tutto ciò che avviene in cielo ed in terra, che eternamente avviene, la vita di Dio e tutto ciò che si opera nel tempo, tende soltanto a far sì che lo spirito riconosca se stesso, che si oggettivi a se stesso, che trovi se stesso, che divenga per sé, che si ricongiunga con sé. Lo spirito è sdoppiamento, è estraniamento, ma soltanto per poter ritrovare se stesso». La realtà ideale si sdoppia nella natura, per ritornare poi a sé nello spirito dell’uomo. «Ma soltanto per poter trovare se stesso, per venire a se stesso, soltanto così esso consegue la sua libertà, giacché è libero ciò che non si riferisce ad altro, né da questo dipende». L’auto-consapevolezza che l’uomo raggiunge dell’idealità, cioè della razionalità della natura, della realtà, lo rende libe-ro. Lo rende libero perché a questo punto non rimane più nessuna alterità: l’uomo, consapevole di tutto il processo naturale, diventa consapevole che niente gli è estraneo, che tutto è interno alla razionalità, ma la razionalità è una sua facoltà, e quindi non c’è niente che rimanga come residuo al di fuori della sua ragione. L’uomo, nel raggiungere la piena consapevolezza razionale della realtà, ricapitola tutta la realtà: tutta la realtà è sua e l’uomo è libero. La libertà consiste in questa autoconsapevolezza.
Il processo di acquisizione dell’autocoscienza è quello descritto da Hegel nella Fenomenologia dello spirito.
L’idea si è esteriorizzata nella natura; essa è poi rientrata in sé nello spirito dell’uomo, ora, questo spirito autoconsapevole prima si manifesta come spirito isolato, come consapevolezza del singolo individuo, poi si esteriorizza oggettivandosi in una serie di creazioni dello spirito. Lo spirito dà luogo a una prima manifestazione legata all’individualità, allo spirito soggettivo, poi si proietta nelle grandi creazioni esteriori dello spirito oggettivo, infine rientra in sé nella suprema autoconsapevolezza dello spirito assoluto. Quando l’uomo ha raggiunto l’autoconsapevolezza, come l’idea si è dovuta esternare nella natura, così questa interiorità si deve negare nell’esteriorità, e dà luogo alle manifestazioni non più soggettive, bensí oggettive dello spirito.
Lo spirito oggettivo è il momento dell’interazione fra gli uomini, del consolidamento oggettivo dei loro rapporti: gli uomini non sono più isolati, singole autocoscienze, bensí vivono nella creazione di entità collettive. Il primo vincolo che gli uomini pongono tra loro è il diritto, ma il diritto è qualche cosa di limitato, in quanto pone tra gli uomini rapporti di pura esteriorità, pone norme di convivenza che vengono seguite semplicemente per il timore della coazione, per il timore della sanzione penale, per il timore del giudice, del tribunale, della prigione, cioè esclusivamente per una motivazione esteriore. Il diritto, legato all’esteriorità, viene superato dalla morale, che è il momento in cui il rapporto con l’altro passa per una convinzione interiore; il messaggio più alto della mora-    le è il messaggio dell’ama il prossimo tuo come te stesso: Hegel riprende pienamente la seconda formulazione kantiana dell’imperativo categorico, per cui bisogna riconoscere nell’altro un fine e non trattare mai gli altri soltanto come mezzi. Però la morale appunto è limitata dal fatto di essere qualche cosa di interiore, è una serie di relazioni fra gli uomini che sono fondate sui loro convincimenti, potremmo dire con linguaggio cristiano su quello che sente la loro coscienza: non è più una coazione, una costrizione esteriore che li spinge a rispettarsi, si rispettano per un sentimento che viene avvertito come proprio, come interiore. La trattazione della morale coincide in parte con le elaborazioni kantiane. Ma vi ricorderete che la morale kantiana è intenzionale: l’uomo morale vuole agire per il bene, vuole essere virtuoso, vuole realizzare la virtù, ma molto spesso, rileva Kant, il mondo è refrattario a tutto questo, perciò Kant pensa che si debba ricorrere ai postulati della ragion pratica, cioè alla speranza in un mondo in cui veramente il bene trionfa, la speranza in un Dio che veramente riesce a realizzare il bene. La morale kantiana è intenzionale. È chiaro che per Hegel questo è insoddisfacente, è come dire che si riprende un’altra volta la tematica del sogno, si deve sognare un altro mondo in cui il bene si realizza. La morale viene superata dal mondo dell’eticità, che è un mondo in cui il bene è invece concretamente realizzato, e in cui sono congiunti l’elemento esteriore del diritto e l’elemento interiore della morale: l’eticità consiste in una serie di rapporti tra gli uomini che da una parte costituiscono vincoli oggettivi, però dall’altra vengono accettati dall’individuo come qualche cosa di profondamente radicato nella sua coscienza, qualche cosa di cui egli partecipa. Per semplificare faccio l’esempio della famiglia: l’organizzazione della famiglia,     il matrimonio è un rapporto fissato da una codificazio-  ne giuridica, come diceva Kant è anche un contratto, è un contratto però a cui si accede volontariamente e liberamente.
La famiglia è solo la prima forma di manifestazione dell’eticità: le famiglie, dice Hegel, non possono sopravvivere da sole, hanno bisogno di entrare in un rapporto con le altre, e quindi si fa strada il momento della società civile. Questo termine “civile” non implica niente di positivo: per Hegel la società civile è il mondo hobbesiano dell’homo homini lupus, cioè è il mondo del brulicare degli interessi economici, della divisione del lavoro, delle organizzazioni umane più svariate, le quali un poco cooperano per soddisfare le une i bisogni delle altre e un poco si fanno la guerra per cercare di accaparrarsi profitti, spazio nella società, ecc. È il mondo delle corporazioni di lavoro, degli interessi economici, delle sette religiose, di tutte le entità organizzate a livello sovrafamiliare, però è un mondo atomizzato, frammentato.
La suprema unità invece è data dal culmine della vita etica, cioè dallo Stato. Lo Stato è concepito da Hegel in una maniera completamente diversa da tutta la tradizione precedente: tutta la tradizione precedente a partire da Hobbes (scusatemi se appiattisco, ma è per mettere in rilievo la diversità di Hegel), sostiene una concezione contrattualistica: per il contrattualismo che è proprio di Hobbes, di Spinoza, di Locke, di Rousseau, di tutti i pensatori dell’età moderna, viene prima l’individuo e poi lo Stato. Lo Stato nasce da un contratto, cioè da un accordarsi degli individui per superare i reciproci egoismi; ci pos- sono essere vari tipi di Stati, ma comunque il meccanismo, dall’assolutismo di Hobbes fino al liberalismo di Locke, è sempre lo stesso: l’individuo, per un fattore di convenienza, si accorda con gli altri individui e dà luogo allo Stato; quindi l’individuo rimane sempre l’elemento prioritario e lo Stato è sempre qualche cosa di derivato. In Hegel invece lo Stato è qualche cosa di assolutamente originario, logi-camente precede gli individui, i quali non sono niente al   di fuori dello Stato. Su questo punto leggiamo Hegel.
«Lo Stato è lo spirito nel quale ha luogo la prodigiosa unione dell’autonomia dell’individualità e della sostanzialità universale. Il diritto dello Stato è quindi più alto degli alti gradi, è la libertà nella sua concreta formazione, la quale cede ancora soltanto alla suprema assoluta verità dello spirito universale». All’interno della vita regolamentata degli uomini non c’è niente al di sopra dello Stato, l’individuo non può scavalcare lo Stato. Lo Stato, semmai può essere criticato o contestato, lo può essere soltanto da un punto di vista superiore, cioè dal punto di vista dello spirito assoluto, cioè di un’universalità ancora maggiore, ma all’interno delle organizzazioni umane nessuna organizzazione ha più universalità dello Stato. Per fare un esempio, anche se non siamo proprio sullo stesso piano, Socrate si sottopone alla legge dello Stato fino al punto di bere la cicuta pur essendo stato condannato a morte ingiustamente. L’individuo non vale di per se stesso. Socrate nel famoso discorso finale del Critone, ai discepoli prima di morire dice pressappoco: «Io ho accettato implicitamente lo Stato, infatti non sarei nato senza le leggi dello Stato perché i miei genitori non avrebbero avuto modo di unirsi in matrimonio; sono stato allevato, sono stato educato, sono stato protetto dalle leggi dello Stato, senza rendermene conto sono vissuto in una comunità di cui mi sentivo parte, non posso sottrarmi a questa comunità organizzata solo la prima e unica volta che la legge non mi conviene più, e invece di proteggermi, di allevarmi e di educarmi mi pone un obbligo: io la debbo accettare anche in questo caso». Ecco, l’atteggiamento hegeliano è abbastanza vicino all’atteggiamento socratico: l’individuo non sarebbe niente fuori dello Stato; la comunità organizzata è quella che gli ha dato tutto e quindi egli deve tutto allo Stato. È ancora più chiaro nella prosecuzione: «Lo Stato, in quanto la realtà della volontà sostanziale, che esso ha nell’autocoscienza particolare elevata alla sua universalità, è il razionale in sé e per sé». È il razionale in sé e per sé: i pezzi del mosaico della società civile – e insisto nel dire “mosaico”, perché è come il mosaico dei concetti dell’intelletto che sono separati gli uni dagli altri – si fanno la guerra l’uno con l’altro; gli elementi della società civile   (i partiti, i sindacati, le sette religiose, le associazioni, le cooperative di produzione, ecc.) sono sempre entità parziali: credo che nessuno possa sostenere che una cooperativa o un sindacato oppure una setta religiosa contiene nella sua organizzazione un elemento di universalità, cioè di regolamentazione generale dei rapporti fra i suoi membri, superiore alla universalità e quindi razionalità (perché razionalità significa universalità) dello Stato. Quindi lo Stato è la suprema incarnazione della razionalità; può essere inadeguato, ci può non piacerc, però storicamente costituisce la più avanzata forma di relazione fra gli uomini.
«Lo Stato in sé e per sé è la totalità etica, la realizzazione della libertà, ed è finalità assoluta della ragione che la libertà sia reale». In che senso lo Stato è realizzazione della libertà? La libertà interiore per Hegel è sterile; non è veramente reale per esempio la libertà del pensiero: la libertà si deve realizzare nell’esteriorità e quindi si deve manifestare nell’organizzazione dei rapporti umani. Come si manifesta tutto questo? Nel dare universalità, cioè nel permettere la convivenza degli uomini in maniera il più possibile universale. Dal momento che universale significa razionale e che la ragione la ritrovo in me stesso, se sono sottoposto a leggi razionali sono sottoposto alla ragione che ritrovo dentro di me e non dipendo da un’entità esterna, quindi sono libero. La libertà concreta è la libertà all’interno dello Stato, non è la libertà come arbitrio (quello che io penso, i miei desideri, ecc.): la mia libertà consiste nella realizzazione oggettiva di certi rapporti su una base di universalità concreta, che è quella che lo Stato permette con le leggi. Dico universalità concreta perché certo ognuno vorrebbe la Città del sole di Campanella, la comunità ideale, ma intanto storicamente quello che si è realizzato come possibilità di interazione fra gli uomini è questo tipo di Stato. Esso è contestabile, però solo dal punto di vista della filosofia, cioè di una razionalità superiore, che deve essere capace di iden-tificare le contraddittorietà dello Stato storicamente determinato: non mi posso contrapporre allo Stato per un motivo di carattere individuale, bensí solo per un elemento di  maggiore universalità che vedo possibile sviluppare all’interno della compagine statale. Quindi non si può mai contestare lo Stato perché per esempio non si vogliono pagare le tasse oppure perché si pensa che sia conculcato un proprio interesse particolare; si può criticare l’assetto dello Stato solo da un punto di vista più universale di quello dello Stato.
«Ma poiché è molto più facile scoprire un difetto che intendere l’affermativo, si cade facilmente nell’errore di dimenticare al di sopra dei suoi aspetti singoli l’organismo interiore dello Stato stesso. Lo Stato non è un’opera d’arte: esso sta nel mondo e quindi nella cerchia dell’arbitrio [cioè è parziale, può avere difetti], dell’accidentalità, dell’errore: un cattivo comportamento lo può svisare da molti lati, ma l’uomo più odioso, il reo, un ammalato, uno storpio, sono sempre ancora uomini viventi: l’affermativo, la vita esiste malgrado il difetto, e questo affermativo importa qui». In altri termini lo Stato, in quanto è la forma storica che ha raggiunto l’universalità dei cittadini su un territorio, comprende in sé il massimo livello di razionalità possibile. Queste affermazioni hanno poi permesso con una forzatura di portare all’affermazione che Hegel è un conservatore. Per Hegel come un uomo è sempre superiore all’animale anche se è storpio, orbo o cieco, così lo Stato è sempre superiore alla società civile, cioè ad una situazione non regolamentata dei rapporti umani. Anche uno Stato imperfetto in ogni caso è sempre più razionale che la situazione dell’homo homini lupus, della legge del più forte che domina all’interno della società civile. Una volta che gli uomini si sono organizzati in Stati entra in gioco il rapporto tra gli Stati, cioè la storia universale. La storia ha una sua razionalità, come la natura. Per Hegel sarebbe assurdo pensare che, mentre la natura segue leggi precise che la fisica può indagare, può descrivere esattamente, la storia costituisce un altro mondo in cui non vale la razionalità. Bisogna sempre stare attenti a cercare di cogliere la razionalità presente nella storia.
Il processo storico, che ha sempre una sua razionalità, è analizzato in maniera molto originale da Hegel. Vorrei ricordare almeno due concetti. Prima di tutto quello di astuzia della ragione. C’è una razionalità nella storia che l’individuo può anche non condividere, di cui l’individuo si può anche non rendere conto: per esempio in questo momento siamo sicuramente soggetti alla legge di gravità, alla legge di inerzia, a tutta una serie di leggi fisiche, però, o perché non abbiamo studiato fisica, o perché non ce ne interessiamo in questo momento, non ce ne accorgiamo. Allo stesso modo posso agire storicamente come Napoleone Bonaparte, come Garibaldi, o come l’ultimo ciabattino, senza essere consapevole di essere immesso in un flusso storico con sue leggi necessarie, oggettive e razionali ma quelle leggi necessarie, oggettive e razionali, ci sono. Può succedere che gli intenti di protagonisti della storia divergano dalle loro azioni reali. Faccio un paio di esempi: Napoleone Bonaparte probabilmente si poneva come finalità della sua azione quella di allargare la potenza della Francia, ma quello che ha prodotto in effetti è stato la diffusione del codice civile, cioè la diffusione di un codice antifeudale e moderno di legislazione; Garibaldi probabilmente agiva nella speranza di un’Italia repubblicana, completamente unita con Roma, invece ha agito per un’Italia monarchica, che è arrivata a mezza strada rispetto a quelle che erano le sue speranze. C’è una astuzia della ragione, vale a dire che c’è una razionalità così profonda nella storia, che i protagonisti stessi della storia e non solo gli uomini comuni possono non avvertire questa razionalità: credono di agire per certe finalità e invece la storia si prende gioco di loro, per cui portano acqua a un altro mulino, che è il mulino della razionalità profonda della storia.
Hegel nella filosofia della storia si distingue fortemente da Kant. Kant ha scritto il progetto per una pace perpetua: egli pensa che ci possa essere una situazione in cui gli Stati, come gli individui, possono giungere a un accordo. Come gli individui si accordano nel contratto sociale e arrivano a porre fine alle contese tra di loro e si organizzano nello Stato, così i singoli Stati per Kant possono raggiungere un accordo e arrivare alla pace perpetua, come suona il titolo del suo famoso libro. Questo ottimismo viene completamente negato da Hegel, che dice con sarcasmo: «Nella storia non esistono pretori». Vale a dire che nella storia non ci sono tribunali con giudici che possono mettere d’accordo i contendenti, nella storia ci sono individualità che si scontrano perennemente e di volta in volta la densità della storia si concentra in uno Stato piuttosto che in un altro; c’è uno spirito del mondo che si manifesta nei vari popoli, ma che li porta purtroppo continuamente a cozzare tra di loro, a farsi la guerra tra di loro. Mentre Kant ha una fiducia ottimistica nella possibilità di conciliare i conflitti e arrivare a una pace perpetua, per Hegel c’è un continuo travaglio: come diceva Eraclito, Polemos è padre di tutte le cose; Polemos significa guerra e la guerra purtroppo è una realtà che nel pensiero hegeliano sembra sia qualche cosa che non può essere sormontata.
L’ultima struttura del sistema così architettonico di Hegel, è la filosofia dell’assoluto. L’assoluto, lo spirito, dopo tutte queste realizzazioni che culminano nel grande scenario della storia, deve rientrare in sé, deve ricongiungersi con se stesso, deve acquisire la totale consapevolezza di tutto il processo di sviluppo della realtà. Questo avviene in tre forme: l’arte, la religione e la filosofia.
La prima forma, l’arte, è parziale, perché nell’arte l’assoluto si rivela sotto forma sensibile, cioè sotto forma particolare e quindi sotto una forma che non è adeguata al suo contenuto, in quanto l’assoluto è razionalità, mentre nell’arte invece l’assoluto si manifesta come sensibilità, quindi non si manifesta pienamente. È evidente che questa è una critica implicita alla filosofia di Schelling. Per la filosofia di Schelling l’arte è l’organo della filosofia, l’arte è sovraordinata alla filosofia, è lo strumento di conoscenza dell’assoluto, mentre invece per Hegel è soltanto la prima, la più bassa delle tre fasi di conoscenza dell’assoluto, perché in essa l’assoluto si manifesta in una forma impropria, cioè non nella sua forma razionale, ma appunto sotto forma sensibile. Dice Hegel: «La forma dell’intuizione sensibile appartiene all’arte, cosicché l’arte è quella che presenta alla coscienza la verità sotto forma sensibile, anzi sotto una forma sensibile che ha in questa sua apparenza un senso ed un significato più alti, più profondi, ma che non vuole però con il medio sensibile, rendere apprendibile il concetto come tale nella sua universalità. Ove proprio l’unità di esso con l’apparenza individuale, costituisce l’essenza del bello e della sua produzione ad opera dell’arte». L’arte è caratterizzata da questo, che se si presentasse come concettuale sarebbe fallita. Faccio un esempio semplice: il concetto di Provvidenza. Se Manzoni invece di esprimerlo con tutte le vicende travagliate dei due famosi promessi sposi lo venisse a spiegare come fa Leibniz, come fa un filosofo, è chiaro che sarebbe un fallimento da un punto di vista artistico. Se la curiosità, la sete di conoscenza dell’uomo fosse espressa in termini razionali da Dante, invece che nella figura di Ulisse, Dante non sarebbe un poeta: l’essenza dell’arte, della poesia, consiste proprio in questo particolarizzarsi dell’universale, in questo divenire immagine del concettuale.
Si sostiene che Hegel, in quanto afferma che l’arte è un momento iniziale dello spirito assoluto, seguita dalla religione e poi dalla filosofia, è il filosofo della morte dell’arte. Leggiamo le parole di Hegel da cui nasce questa interpretazione: «Ma come l’arte ha il suo prima nella natura e nella storia finita della vita, così ha pure un dopo, cioè un ambito che a sua volta oltrepassa il suo modo di concepire e manifestare l’assoluto». Vale a dire che ha un suo dopo, è destinata a finire perché è inadeguata come espressione dell’assoluto. «Infatti l’arte ha ancora in se stessa un limite e passa quindi a forme più alte della coscienza. Questa limitazione determina anche il posto che noi siamo soliti assegnare all’arte nella nostra vita odierna. L’arte non vale più per noi come il modo più alto in cui la verità si dà esistenza. Nell’insieme il pensiero presto si è opposto all’arte come rappresentazione sensibilizzatrice del divino. Presso gli ebrei e i maomettani per esempio, perfino presso gli stessi greci, come si può vedere nella ferma opposizione di Platone agli dei di Omero e di Esiodo». In questo Hegel aderisce all’idea platonica per cui l’arte è qualche cosa di parzialmente negativo, che allontana dall’idea proprio per la sua materialità; si riferisce ai maomettani per i quali non è possibile rappresentare il divino in forma sensibile: l’umanità già precocemente ha capito che il divino, che poi è l’equivalente dell’infinito, dell’assoluto, non si manifesta pienamente nell’arte. Le grandi religioni già hanno avuto più o meno diffidenza per l’arte. «Nel progredire dello sviluppo culturale di ogni popolo giunge in generale l’epoca in cui l’arte rimanda oltre se stessa. Gli elementi storici del cristianesimo per esempio, l’apparizione di Cristo, la sua vita e la sua morte, hanno offerto all’arte e soprattutto alla pittura numerose occasioni di svilupparsi, e la Chiesa stessa ha coltivato o lasciato fare l’arte, ma quando l’impulso al sapere e alla ricerca, il bisogno di una spiritualità intima provocarono la Riforma, anche la rappresentazione religiosa fu allontanata dall’elemento sensibile e ricondotta all’interiorità dell’animo e del pensiero». Hegel viene da una cultura protestante, dice che lo sviluppo del cristianesimo, il protestantesimo, ha portato a bandire le rappresentazioni sensibili; tutto il rigoglio dell’arte della Controriforma è estraneo alla Riforma: il divino non è rappresentabile nel sensibile, va colto nell’interiorità, cioè nella religione, il secondo momento dello spirito assoluto. «Ma se il contenuto compiuto è compiutamente venuto a rilievo in forme artistiche, lo spirito lungimirante ritorna da questa oggettività allontanandola da sé nel suo interno. Quest’epoca è la nostra. Si può sì sperare che l’arte si innalzi e si perfezioni sempre di più, ma la sua forma ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito». Hegel in qualche modo è veramente il filosofo della morte dell’arte: l’arte è destinata ad essere oltrepassata da una forma più piena di conoscenza dell’assoluto, la filosofia. Il problema è che dal punto di vista della struttura del sistema, della logica del sistema, l’arte è superata, ma come oggi esistono ancora zone del mondo in cui c’è la schiavitù, pur essendo questa stata cancellata nell’epoca moderna dal codice di Napoleone Bonaparte, dalla Rivoluzione francese (quindi logicamente è superata), così esistono ancora tentativi di cogliere l’assoluto in forma artistica, ma questi tentativi sono superati nel senso che l’umanità ha raggiunto sostanzialmente, con la filosofia idealistica, la consapevolezza che l’assoluto si può cogliere in maniera adeguata solamente nelle forme del pensiero, e appunto le forme del pensiero sono le forme della filosofia.
C’è però un ambito intermedio, quello della religione. «L’ambito successivo che sorpassa il regno dell’arte è quello della religione. La religione ha come forma della propria coscienza la rappresentazione, in quanto l’assoluto è trasfe-rito dall’oggettività dell’arte nell’interiorità del soggetto, ed ora è dato il modo soggettivo della rappresentazione, cosicché cuore ed animo ed in generale la soggettività  interna divengono un momento fondamentale». Nell’arte l’asso- luto, l’infinito, il divino, vengono colti in qualche cosa di esterno, nella materia, nel legno, nel marmo, nei colori, nei suoni ecc.; nella religione il divino viene colto nell’interiorità, sia pur nella forma ancora inadeguata della rap- presentazione. Nell’arte e nella religione c’è un’opposizione tra esteriore ed interiore, che viene superata nella filosofia. «La terza forma infine dello spirito assoluto è la filosofia. Infatti la religione in cui Dio è dapprima per la coscienza un oggetto esterno, poiché si deve prima apprendere che cos’è Dio e come si è rivelato e si rivela, si riversa poi nell’elemento dell’interno, spinge e riempie la comunità, ma l’interiorità della devozione dell’animo e della rappresentazione non è la forma più alta dell’interiorità. È il libero pensiero che va riconosciuto come questa forma purissima del sapere. In esso la scienza si porta a coscienza l’identico contenuto, divenendo quindi il culto al massimo spirituale di appropriarsi e di sapere concettualmente mediante il pensiero ciò che altrimenti è soltanto contenuto di sentimento o rappresentazione soggettivi. In tal modo nella filosofia sono unificati i due lati dell’arte e della religione, l’oggettività dell’arte che qui ha certamente perduto la sensibilità esterna ma ha trovato il compenso nella forma suprema dell’oggettivo, nella forma del pensiero, e la soggettività della religione che è purificata a soggettività del pensiero». È interiore la filosofia, ma è interiore nella forma della facoltà suprema dell’uomo, cioè la facoltà del ragionare.
La filosofia coglie l’oggettivo, cioè l’oggettivo sviluppo dello spirito, l’oggettivo sviluppo dell’assoluto, e lo coglie nella forma più interna e più alta della sua interiorità, cioè la razionalità, quindi ricongiunge l’oggettivo, la razionalità presente nel mondo, l’assoluto presente in ogni momento dello sviluppo del mondo, alla propria facoltà interiore della ragione, ricongiunge oggetto e soggetto. «Infatti il pensiero è da un lato la soggettività più intima, più propria, e il vero pensiero, l’idea, è contemporaneamente la più oggettiva». Vale a dire che il logos è interno all’uomo, ma è anche oggettivo. La ragione è ragione della mente umana, ma è anche ragione della realtà naturale e della realtà tout court. «È contemporaneamente la più oggettiva ed effettuale universalità che può cogliersi nella sua propria forma solo nel pensiero».
L’assoluto si comprende nella filosofia, ma abbiamo detto che l’assoluto è divenire, è processo, allora anche la filosofia non potrà essere altro che processo, sviluppo, e coinciderà con la storia della filosofia. Il luogo dove l’assoluto riconosce se stesso è la storia della filosofia. Voglio sottolineare che nella scuola italiana si insegna storia della filosofia proprio per la tradizione che Croce e Gentile hanno ripreso da questa impostazione hegeliana.
In conclusione vale la pena di accennare a una critica rivolta a Hegel: l’assoluto si rivela nella storia della filosofia, la storia della filosofia culmina nel pensiero hegeliano, Hegel quindi ha la pretesa di essere il momento di autorivelazione dell’assoluto. Hegel in qualche modo questa pretesa l’aveva: lo spirito assoluto culmina nella filosofia e con Hegel l’assoluto arriva all’autocomprensione di sé, quindi il circolo in qualche modo si chiude, il sistema hegeliano ha una sua chiusura. Però Hegel non era ignaro del fatto che altri materiali empirici, altri elementi vitali sarebbero emersi e avrebbero avuto bisogno di una sintesi ulteriore: si può dire 170 anni dopo la sua morte che una sintesi ulteriore poi non c’è stata, quindi finora la filosofia hegeliana rimane la filosofia suprema, cioè la filosofia che è riuscita meglio a sintetizzare in una strutturazione logica coerente tutto il pensiero precedente, tutta la comprensione che l’umanità ha avuto della realtà e del corso storico stesso. Ma si deve rilevare che, se il sistema hegeliano si può considerare una sintesi, è pur vero che il metodo dialettico implica che ogni sintesi si riproduce sempre come tesi e dà luogo a un ulteriore sviluppo storico: Hegel, che è il filosofo del divenire, non pretende di chiudere col proprio pensiero il divenire, Hegel è un filosofo aperto invece sullo sviluppo ulteriore della realtà.

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