ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

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Saggi per la scuola

ANTONIO GARGANO

Il progetto per una pace perpetua di Kant

Kant stese il Progetto per una pace perpetua nel 1795, sull’onda dell’entusiasmo per un evento preciso. Nella primavera di quell’anno c’era stata la pace di Basilea: la Repubblica francese aveva raggiunto la pace con la Spagna, con l’Olanda, ma soprattutto con la Prussia. Quest’ultima aveva finalmente riconosciuto l’esistenza dello Stato rivoluzionario francese. Kant scrisse quest’opera confortato dalla pace di Basilea ed entusiasta del fatto che anche il suo paese, la Prussia, avesse riconosciuto la Francia rivoluzionaria, per la quale egli manifestava forti simpatie. Qual è la costruzione che cerca di edificare con questo progetto? Questa costruzione parte dalla sua Critica del giudizio, di cinque anni prima, ed è legata a una visione sostanzialmente ottimistica della storia. Il Progetto per una pace perpetua è un’opera di carattere fortemente illuministico. L’Illuminismo era improntato all’ottimismo: secondo l’Illuminismo la storia finora è stata oscurata da ignoranza e superstizione, travagliata da lutti, da tragedie, da guerre di religione, da guerre fratricide tra i popoli, ma i lumi della ragione, diffondendosi, porteranno il progresso, promuoveranno una civiltà sempre più avanzata. Nella Critica del giudizio Kant delineava una convergenza della natura verso i fini umani, scorgeva un finalismo della natura: gli organismi biologici e le cose belle ci danno il senso del fine, soprattutto gli organismi biologici sembrano nel loro insieme favorire la vita dell’uomo, essere finalizzati al benessere dell’uomo, che è un ente morale in quanto si pone il fine del bene. La Critica del giudizio disegnava quindi questa situazione: la natura sembra presentare un fine supremo che è quello di favorire la vita dell’uomo, lo sviluppo delle attitudini umane; l’attitudine umana superiore è l’attitudine al bene, pertanto la natura pare favorire l’uomo nel suo tendere al bene. Proprio su questa base si sviluppa il discorso, ripeto, ottimistico, del Progetto per una pace perpetua, dove viene affermato che la natura sembra, al di là degli antagonismi, preparare il terreno per la realizzazione piena dell’umanità, di un’umanità che viva in pace sotto l’egida del diritto. La prima premessa di tale progetto è la visione per la quale la storia converge verso un punto finale: la creazione di una situazione in cui il bene si possa realizzare. La seconda premessa è questa: per arrivare a quel punto c’è un passaggio obbligato, che è la creazione dello Stato. Kant afferma che lo Stato è «un’organizzazione del diritto esterno», un’organizzazione che permette di regolare i rapporti tra gli uomini in maniera stabile, in maniera sicura, punto di passaggio obbligato perché gli uomini possano esprimere il meglio di loro stessi e in particolare anche la loro attitudine al bene, al bene morale.
La storia e la natura convergono verso la finalità morale dell’uomo, ma punto di passaggio obbligato è la creazione di un’istituzione che sorvegli la naturalità e faccia sviluppare, invece, la ragione. Questa istituzione è lo Stato. Riguardo al problema dello Stato, Kant mantiene una posizione di tipo contrattualistico, la posizione che è stata fondata agli inizi del pensiero dell’età moderna da Hobbes. Hobbes da che cosa partiva? Dalla considerazione, condivisa da Kant, che gli uomini sono lupi per gli altri uomini, homo homini lupus. L’uomo è tendenzialmente portato al male. Anche Kant, da seguace della Riforma protestante, sosteneva che l’uomo cova dentro di sé un male radicale, ha un’inclinazione ineliminabile per il male, è gravato, come Lutero sosteneva, dal peccato originale. Kant condivide con Hobbes questa premessa: l’uomo di per se stesso, spontaneamente, è portato al male; lo Stato è lo strumento che permette di fermare l’iniquità dell’uomo e di dare slancio invece alla cultura, alla civiltà, e quindi alla realizzazione dei fini morali. Come nasce lo Stato? Lo Stato nasce dall’esigenza di porre freno all’egoismo, di porre fine alla situazione naturale di reciproca violenza fra gli uomini, introducendo un elemento di carattere coattivo, una forza superiore rispetto agli individui che li costringa, anche loro malgrado, a rispettarsi reciprocamente. Kant avanza la considerazione, sviluppata poi anche dall’idealismo, che il diritto riguarda solo la sfera esterna: gli uomini, spinti a seguire le norme del diritto imposto dallo Stato, sono costretti a comportarsi in maniera civile, ragionevole, al loro interno possono mantenere istinti aggressivi, tendenze a prevaricare gli uni rispetto agli altri, ma il diritto, almeno nella sfera esteriore, fa sì che gli egoismi non si sfrenino e che gli uomini vivano una vita civile, premessa per la finalità del bene.
Kant sostiene che bisogna vedere lo Stato come frutto di un patto fra gli individui, di un contratto. Gli individui, come già in Hobbes, per loro convenienza arrivano a stipulare tra loro un contratto e si mettono d’accordo di rispettarsi reciprocamente sulla base di leggi che accettano tutti perché lo trovano vantaggioso e ragionevole. In Kant viene sottolineato molto l’elemento della ragionevolezza: l’individuo si rende conto che gli conviene rispettare l’altro uomo per ottenere anche egli a sua volta rispetto e per poter svolgere i propri affari senza essere turbato. Il discorso di Kant è importante: il diritto non opprime l’individuo, in quanto esso costituisce un freno del suo arbitrio, del suo libito, dei suoi desideri, ma si tratta di un freno che gli conviene accettare, perché grazie a questo freno può estendere il raggio della propria azione e goderne con sicurezza i frutti, mentre altrimenti vivrebbe in una situazione di perenne insicurezza. Ripreso il discorso di Hobbes, Kant vi aggiunge la considerazione che il diritto è qualche cosa di esterno, che viene molto spesso avvertito come una coazione, ma che in effetti l’uomo ragionevole riconosce come cosa propria, utile anche a se stesso.
Mi soffermo su questo meccanismo perché La pace perpetua cerca di riproporre questo stesso tipo di discorso al livello degli Stati: come gli individui si sono accordati fra di loro e hanno raggiunto la pace attraverso lo Stato, così gli Stati, quali «individui in grande», dovranno accordarsi fra loro in una federazione per raggiungere la pace. Lo stato di natura, la condizione naturale degli uomini, è caratterizzata dall’homo homini lupus, ovvero dal bellum omnium contra omnes: nello stato di natura c’è la guerra di tutti contro tutti. Questa guerra si supera attraverso la nascita dello Stato sovrano, che impedisce lo scatenamento degli istinti aggressivi reciproci. Il bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti, si supera grazie allo Stato. Kant spera che anche al livello di quelli che sono come individui in grande, cioè degli Stati, la situazione di guerra si possa superare grazie a una unione più alta. Ma il problema è questo: egli stesso riconoscerà che non è ipotizzabile che si arrivi a uno “Stato dei popoli”, come lo designa o, come dice con un’altra espressione, a “una Repubblica universale”. Proprio perché gli Stati hanno già una loro sovranità che esercitano sui cittadini, essi non sono disposti a rinunciare a tale sovranità per sottomettersi a un’autorità superiore. Il Progetto per una pace perpetua si fonda quindi su un elemento di debolezza: il meccanismo sarebbe quello del contratto, ma mentre il contratto funziona bene tra gli individui che si uniscono nello Stato, il contratto fra gli Stati, che dovrebbe dare luogo a una unione universale, non può funzionare nello stesso modo – come Kant stesso riconosce – perché gli Stati non sono disposti a rinunciare alla loro sovranità. Il discorso kantiano parte dal pessimismo per muoversi verso l’ottimismo: gli uomini come singoli individui, e gli Stati come individui in grande, nella condizione di natura, cioè nello stato di natura, tendono alla guerra reciproca; come all’interno degli individui nasce una forza che li porta a cooperare nello Stato, così all’interno dei popoli nasce una forza che li spinge alla cooperazione internazionale. Si parte da una considerazione antropologica, sulla natura dell’uomo, di tipo pessimistico, ma a mano a mano nel discorso di Kant si innesta un ottimismo che lo porta a sperare nella realizzazione di una pace perpetua. Il discorso kantiano è molto rigoroso, molto argomentato.
Altri progetti di pace perpetua ce ne erano stati fino a qualche decennio prima: i più importanti sono quelli che risalgono a Erasmo da Rotterdam, il quale, di fronte alle guerre di religione che si cominciano a profilare in Europa, elabora l’ideale dell’irenismo, del pacifismo. Erasmo ha scritto una Querela pacis, un Antí pólemos, opere contro la guerra, e ha aperto la strada a tutta una letteratura che si propone di creare una piattaforma per la pace universale. Egli è stato poi seguito da tanti altri scrittori fino agli illuministi, fino al progetto elaborato da Charles-Irénée Castel, abate di Saint-Pierre, cui s’interessarono Leibniz e d’Alembert con qualche scetticismo e Rousseau, che manifestò il suo aperto consenso. Ma qual è il limite di questi scrittori che precedono Kant? I progetti di pace, a partire da Erasmo da Rotterdam, scorgono prevalentemente cause psicologiche delle guerre come l’aggressività, o la mania di espansione dei sovrani, e quindi quasi sempre culminano in un appello ai prìncipi. Kant, invece, è stato detto, ha completamente laicizzato e modernizzato la diagnosi della situazione di guerra: questa non dipende dal vizio, dal male, non dipende da cattiva inclinazione psicologica, ma è dovuta a cause iscritte nella struttura sociale: è la struttura sociale dell’Ancien Régime, dell’assolutismo, a essere matrice inesauribile di guerre. Kant sposta la diagnosi dalla cattiva inclinazione dell’uomo, dallo spirito di aggressività dei prìncipi, a qualche cosa che invece si annida all’interno della società stessa. Il suo libro parte da basi nuove, risente molto delle speranze della Rivoluzione francese.
Il primo brano che propongo di considerare è tratto dal paragrafo 83 della Critica del giudizio, e permette di cogliere le prospettive del ragionamento di Kant: «Soltanto a una condizione la natura può conseguire il suo intento finale: ed essa è quella costituzione nel rapporto degli uomini fra loro, che si realizza dove, in una totalità denominata società civile, si forma una potestà legale, che è contrapposta alla menomazione delle libertà dei singoli, nel loro reciproco contrasto: poiché il massimo sviluppo delle disposizioni naturali può effettuarsi soltanto in una tale società». Il fine della natura si può realizzare soltanto dove c’è una potestà legale, cioè uno Stato organizzato, che regola i rapporti fra gli uomini in modo da porre fine alla reciproca limitazione della libertà che i singoli si infliggono scatenando il loro egoismo: se non c’è un potere che si sovrappone ai singoli, essi si ostacolano, si tolgono spazio reciprocamente, limitano e danneggiano la reciproca libertà. Perché si apra la strada alla realizzazione dei fini umani è necessario che si strutturi lo Stato con una potestà legale e con una costituzione.
Questa visione è presentata da Kant nell’Idea di una storia universale (dal punto di vista cosmopolitico), in cui fonda un concetto che è stato molto discusso: la socievole insocievolezza degli uomini. Gli uomini sono insieme socievoli e insocievoli. Sono insocievoli perché ogni uomo è lupo per l’altro uomo, ma se si mettono insieme e si regolano gli egoismi, è possibile agli uomini crescere, svilupparsi e progredire meglio. L’uomo ha una specie di oscillazione tra l’insocievolezza e la socialità: tenderebbe a essere egoista, ma quando poi, in maniera forzata, lo Stato unisce gli individui e fa superare questo momento di insocievolezza, la socialità si manifesta e l’uomo crea una civiltà, si sviluppa molto meglio di come invece si può sviluppare nella selvatichezza, nello stato di natura, nell’isolamento. «Il più alto compito della natura relativamente alla specie umana è una società, nella quale la più grande libertà possibile sia unita, sotto leggi esteriori, con una potenza irresistibile, cioè una costituzione sociale perfettamente giusta; perché solo per mezzo dell’adempimento di questo compito può la natura conseguire tutti gli altri fini relativi alla nostra specie». Qui è delineato il culmine della natura e della storia. Il più alto compito non è una libertà assoluta che non può esistere, ma una società in cui la più grande libertà possibile per ognuno sia regolata da leggi esteriori con una potenza irresistibile. La potenza irresistibile è quella dello Stato, che fa venire in mente l’immagine del Leviatano, del mostro biblico, usata da Hobbes per dipingere lo Stato, dotato di potere irresistibile, in grado di schiacciare gli individui se non si sottomettono alla legge. In questo però c’è una convenienza, perché appunto si ottiene il massimo della libertà possibile. Se non c’è l’organizzazione sociale regolata da leggi non può fiorire la civiltà, questa è l’idea di Kant. «Ciò che costringe l’uomo, a cui del resto è così cara la libertà sfrenata, ad entrare in questo stato di coazione, è il suo stato miserando, quello specialmente che ha origine dalle lotte intestine fra gli uomini, le cui passioni fanno sì che essi non possano coesistere a lungo nella libertà senza freni. Ma in quel campo chiuso, che è la società civile, le passioni ottengono da allora in poi l’effetto migliore [una volta che si è chiuso il campo, cioè è finita la “legge della giungla” dello stato di natura, una volta che lo Stato ha imposto il suo recinto, le sue leggi, la sua costituzione, si ha un effetto positivo, le passioni esercitano da allora in poi influenze benefiche]: «come gli alberi in una foresta, per il fatto appunto che ciascuno cerca di togliere all’altro l’aria e il sole, si costringono a vicenda a cercarli sempre più in alto e così crescono alti e diritti, mentre quelli che crescono in libertà isolati cacciano i rami a capriccio e vengono su rachitici, curvi e contorti». Gli alberi messi assieme nella foresta crescono più alti. Proprio per la concorrenza reciproca, le loro forze vitali prendono una direzione positiva, mentre invece gli alberi isolati crescono rachitici e contorti. Le passioni lasciate a loro stesse procurano danni, invece una volta messe assieme le tendenze istintuali, passionali, di tanti uomini in una società ordinata, anche l’egoismo finisce col sortire un effetto positivo. Gli uomini riescono in società. anche se non lo vogliono, a dare una finalità positiva persino alle loro facoltà inferiori, agli istinti e alle passioni. «Ogni cultura ed arte, che orna l’umanità, e il miglior ordine sociale, sono frutti della selvatichezza costretta da se stessa a disciplinarsi ed a svolgere così quasi forzata i germi della natura in tutta la loro pienezza». Socievole insocievolezza: uniti nella società gli uomini utilizzano al meglio anche le passioni negative. Passiamo ora a leggere brani decisivi dal Progetto per una pace perpetua.
La situazione naturale degli uomini è caratterizzata da selvatichezza, isolamento, insocievolezza. Dice Kant: «Lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale»: la pace è qualche cosa di artificiale, la pace va costruita, essa esiste solo come sforzo cosciente dell’uomo, in quanto spontanea-mente, naturalmente, la situazione degli uomini, come la situazione degli Stati, è una situazione di belligeranza, di conflitto, di guerra. Lo stato naturale «è piuttosto uno stato di guerra, ossia anche se non sempre si ha uno scoppio delle ostilità, c’è però la loro costante minaccia». Kant pone l’aggettivo “perpetua” accanto a “pace”, scrive quindi il Progetto per una pace perpetua, in quanto sostiene che tutti i trattati di pace in effetti sono tregue, in quanto implicano la possibilità della ripresa delle ostilità, perché la guerra è connaturata al rapporto fra gli uomini e fra gli Stati. La pace perpetua sarà un compito nuovo che l’umanità dovrà proporsi, perché sempre, quando gli uomini hanno stipulato una pace, c’era implicita qualche riserva per cui si trattava in realtà di una tregua in vista di un’altra guerra. La situazione normale è quella di guerra, quindi anche nella situazione di pace, si direbbe oggi, c’è una guerra “fredda”, c’è la costante minaccia della guerra. «Esso [lo stato di pace] deve dunque venire istituito; poiché l’assenza di ostilità non rappresenta alcuna garanzia di pace, e se questa garanzia non viene fornita a un vicino dall’altro (la qual cosa può avvenire solo in uno stato di legalità), il primo può trattare il secondo a cui abbia richiesto questa garanzia come un nemico». Anche se due vicini, due Stati vicini, non sono in belligeranza, ma non hanno però una situazione di legalità, cioè non hanno sottoposto a un regolamento giuridico i loro rapporti, essi si devono considerare come in guerra tra di loro. Niente garantisce che non scoppi tra di essi la guerra.
Dopo questa premessa, Kant entra nel merito del progetto, e adduce prima qualche piccola clausola preliminare, accessoria, per edificare la pace, poi identifica tre grandi condizioni per poter sperare nella pace perpetua: che ogni Stato abbia una struttura repubblicana; che si formi una federazione di liberi Stati; che si diffonda il diritto di ospitalità, cioè l’accettazione degli stranieri sul proprio territorio.
Riepiloghiamo: ci sono tre grandi prerequisiti, tre condizioni, senza le quali la pace perpetua non si può edificare: che gli Stati siano repubblicani, che entrino in una federazione fra di loro e che accettino gli stranieri sul loro territorio. Prima di considerare analiticamente queste condizioni voglio sottolineare che il Progetto per una pace perpetua è una lode, velata, della Rivoluzione francese. Due prerequisiti minori sono questi: il primo è che nessuno Stato può essere acquistato. Ora, la Costituzione francese del 1791 presenta fra gli altri questo articolo: «La nazione francese rinunzia a intraprendere alcuna guerra al fine di fare conquiste, e non impiegherà mai le sue forze contro la libertà di alcun popolo». Evidentemente quando Kant ha posto tra i prerequisiti secondari per la pace perpetua il fatto che nessuno Stato può essere acquistato, ha voluto mettere in altre parole uno degli articoli della Costituzione francese del ’91. L’altro prerequisito secondario molto importante è la non ingerenza negli affari interni di un altro paese. Kant enuncia questo principio con chiarezza, ma quattro anni prima esso era stato formulato nella Costituzione del ’91, che dice: «Il popolo francese non si ingerisce nel governo delle altre nazioni, e non sopporta che altre nazioni s’ingeriscano nel suo». Kant ha recepito quindi alcuni principi fondamentali della Rivoluzione francese come prerequisiti per la pace perpetua: gli Stati non possono conquistarne o acquistarne altri, a nessun titolo, neppure per eredità dinastica, dice Kant, e gli Stati non si debbono ingerire negli affari degli altri Stati.
Torniamo ai prerequisiti maggiori. Prima di tutto la repubblica: non c’è speranza di pace perpetua se gli Stati non sono tutti repubblicani. Ciò sembrerebbe però implicare, sulla base di quanto ha detto poco prima (cioè che gli Stati non si possono ingerire negli affari interni gli uni degli altri), che bisogna aspettare che spontaneamente tutti i popoli arrivino a una forma istituzionale repubblicana in quanto non si può imporre la repubblica dall’esterno. Ciò significa che il cammino della pace è lungo. Anche in questo Kant è ottimista: spera che la superiorità della costituzione repubblicana funzioni come una calamita e attiri i vari popoli rapidamente a diventare tutti repubblicani. È molto interessante il concetto di repubblica di Kant, che penso sia molto attuale. Nel Progetto per una pace perpetua Kant mette in secondo piano la tipologia classica delle forme di Stato, cioè monarchia, aristocrazia e democrazia. Egli sostiene che c’è un sistema binario: non è per lui importante quante persone governino, rifiuta la distinzione fatta da Aristotele, secondo cui o governa uno, o pochi, o i più, e sostiene invece che i regimi, le forme di governo, si distinguono soprattutto per questo motivo: o sono repubbliche o sono forme dispotiche; ci sono soltanto la repubblica e il dispotismo, è secondario secondo lui quante persone reggano il governo, se uno, pochi, o molti, quello che conta è che ci può essere la repubblica, a prescindere da quante persone governino, oppure il dispotismo. Quali sono le caratteristiche della repubblica? Prima di tutto la libertà: la libertà intesa però come coincidente, per il motivo che abbiamo detto poco fa, con la legge, quindi non la libertà sfrenata dallo stato di natura, ma la libertà di leggi accettate razionalmente. Questa libertà si traduce in uguaglianza: le leggi sono un fatto razionale, valgono in maniera uguale per tutti, quindi la repubblica è contraddistinta da libertà e uguaglianza, uguaglianza del cittadino di fronte alla legge; di nuovo i cardini della Rivoluzione francese. Anzi Kant fa un’affermazione paradossale, e dice: tranne che per Dio, per il quale non si può applicare il concetto di dovere, non esiste nessuno, neppure un’entità angelica, che non si debba sottomettere alla legge. La legge è uguale per tutti nel senso più forte del termine. Questa è la repubblica. La repubblica è libertà ed è soggezione alla legge, soggezione che vale per tutti e quindi implica uguaglianza.
La terza caratteristica è molto importante: le repubbliche sono sempre rappresentative. Kant dice: quando vediamo rapporti diretti tra il governo e le masse con una osmosi di qualunque tipo ci troviamo di fronte a forme di dispotismo, non siamo di fronte a forme di repubblica. La repubblica si fonda sulla rappresentatività. La repubblica implica che ci siano rappresentanti degli interessi dei vari settori della società, i quali, secondo regole che possono variare da repubblica a repubblica, gestiscono la rappresentanza per un certo periodo. Invece, quando c’è una presunta partecipazione diretta del popolo al potere, siamo di fronte a una forma di dispotismo. Quindi repubblica per Kant significa libertà, uguaglianza e rappresentanza. Il concetto di rappresentanza è legato a quello che è per lui veramente l’elemento distintivo delle repubbliche: la divisione dei poteri. Questo è un criterio superiore agli altri. Riepiloghiamo: la repubblica c’è quando ci sono libertà, uguaglianza, rappresentanza, ma soprattutto, la divisione dei poteri. Se il potere esecutivo, legislativo e giudiziario non sono divisi tra di loro, non si ha repubblica. L’esistenza di una repubblica non dipende dalla partecipazione di massa, dai consensi (il consenso è implicito, per Kant conta: la repubblica non essendo dispotismo implica il consenso dei cittadini; nella repubblica, si è cittadini e non sudditi), ma il consenso non è il fatto principale: il fatto principale è la divisione dei poteri, cioè che chi fa le leggi non è la stessa persona che le mette in esecuzione, e non è la stessa persona che ne controlla l’applicabilità e verifica che il cittadino si comporti in conformità alle leggi. Kant chiama informi le situazioni in cui si confondono i poteri e sostiene: o c’è la distinzione dei poteri e c’è la repubblica, oppure si crea una situazione informe, che è l’anticamera del dispotismo. «Perché questo sistema di governo sia conforme al concetto di diritto, bisogna che sia rappresentativo; solo in questo sistema è possibile un tipo di governo repubblicano, e senza questa condizione esso è dispotico e violento (qualunque sia la costituzione). Nessuno degli antichi governi cosiddetti repubblicani ha conosciuto questo sistema [cioè non furono articolati bene i meccanismi rappresentativi], ed essi non potevano fare altro che degenerare nel dispotismo».
Descritte queste caratteristiche della repubblica, porto l’attenzione su un brano molto semplice e efficace sul perché, secondo Kant, la forma repubblicana garantisce la pace. È un testo che non ha bisogno di commento: «Questa costituzione dunque, per quanto riguarda il diritto, è in se stessa quella che sta originariamente alla base di ogni tipo di costituzione civile; e ora l’unica cosa da chiedersi è se sia anche l’unica che possa portare alla pace perpetua. Ora, la costituzione repubblicana, oltre alla limpidezza della sua origine, il suo essere scaturita dalla pura sorgente dell’idea di diritto, ha anche la prospettiva di quell’esito desiderato, la pace perpetua. E la ragione è la seguente. Se (come deve per forza accadere in questa costituzione) per decidere “se debba esserci o no la guerra” viene richiesto il consenso dei cittadini, allora la cosa più naturale è che, dovendo decidere di subire loro stessi tutte le calamità della guerra (il combattere di persona; il pagare di tasca propria i costi della guerra; il riparare con grande fatica le rovine che lascia dietro di sé e, per colmo delle sciagure – ancora un’altra che rende amara la pace – il caricarsi di debiti che, a causa delle prossime nuove guerre, non si estingueranno mai) rifletteranno molto prima di iniziare un gioco così brutto. Al contrario, invece, in una costituzione in cui il suddito non sia cittadino, quindi una costituzione non repubblicana, decidere la guerra è la cosa sulla quale si riflette di meno al mondo, poiché il sovrano non è il concittadino, ma il proprietario dello Stato, e la guerra non toccherà minimamente i suoi banchetti, le sue battute di caccia, i suoi castelli in campagna, le sue feste di corte e così via, e può allora dichiarare la guerra come una specie di gara di piacere per futili motivi e, per rispetto delle forme, affidare con indifferenza al corpo diplomatico, sempre pronto a questa bisogna, il compito di giustificarla». C’è un concetto molto importante: la pace è impossibile se non si supera la concezione patrimoniale dello Stato, cioè la visione dello Stato come patrimonio del sovrano, in altri termini si deve superare la concezione feudale, patrimoniale dello Stato per poter avere una speranza di pace. Una lancia spezzata a favore della Rivoluzione francese, contro l’Antico Regime.
Prima caratteristica della situazione che può portare alla pace è la repubblica; la seconda è una federazione di Stati. Qui emerge con chiarezza la visione contrattualistica di Kant: gli Stati sono come individui che devono arrivare a un contratto. «Secondo articolo definitivo per la pace perpetua: “Il diritto internazionale deve fondarsi su un federalismo di liberi Stati”. I popoli, in quanto Stati, possono essere giudicati come singoli uomini che si fanno reciprocamente ingiustizia già solo per il fatto di essere uno vicino all’altro nel loro stato di natura (ossia nell’indipendenza da leggi esterne)». I popoli non soggetti a un diritto riconosciuto reciprocamente si trovano in uno stato di natura, cioè in una situazione di belligeranza anche se non dichiarata. I popoli, in quanto Stati, dovranno arrivare a federarsi insieme: Kant non si pone l’ipotesi di uno Stato che si debba considerare federativo al suo interno, per Kant lo Stato è caratterizzato dal fatto di avere una sovranità centrale, quindi quella che è auspicabile come federazione, è una federazione fra Stati sovrani. Ma quale problema si comincia a profilare? Gli Stati hanno come caratteristica la sovranità. L’ uomo è uscito dallo stato di natura perché ha affidato la sovranità allo Stato che ha imposto il diritto, quindi gli Stati non possono rinunciare alla sovranità perché abiurando alla sovranità abiurano a loro stessi. Ma se uno Stato dei popoli, una repubblica universale non è ipotizzabile, si potrà soltanto sperare che gli Stati entrino in una federazione fra di loro, senza che venga meno la loro sovranità, perché altrimenti si dovrebbe chiedere il venir meno della loro stessa identità, e questo secondo Kant non è possibile. Nessuno Stato vuol rinunciare a essere se stesso, a essere sovrano. Continuiamo a leggere. «Ora, così come noi consideriamo con profondo disprezzo l’attaccamento dei selvaggi alla loro sfrenata libertà, che consiste nell’essere continuamente in lotta tra loro invece che sottoporsi a una costrizione legale stabilita da loro stessi, e a preferire quindi una libertà folle a una libertà ragionevole, e la giudichiamo come una rozzezza, una brutalità e una degradazione animalesca dell’umanità, verrebbe spontaneo di pensare che i popoli civili (ognuno dei quali riunito a sé in uno Stato) dovrebbero affrettarsi per uscire al più presto possibile da una condizione così abbietta, al contrario invece ogni Stato ripone la sua maestà (infatti la maestà popolare è un’espressione senza senso) proprio nel fatto di non essere soggetto a nessuna costrizione legale, e lo splendore del suo capo supremo sta nel fatto che, senza che egli si esponga a nessun pericolo, sotto il suo comando stanno molte migliaia di uomini che sono costretti a sacrificare la loro vita per una cosa che non li riguarda». L’importante è questo: ogni Stato è tale perché è sovrano e quindi non può rinunciare alla propria sovranità e sottoporsi a un potere di tipo superiore. A questo punto non sembrerebbe possibile uscire dallo stato di natura fra gli Stati, dalla condizione di belligeranza fra gli Stati, come invece si è usciti dallo stato di natura, cioè dalla condizione di belligeranza fra gli individui, perché gli individui hanno accettato di sottoporsi a un sovrano, a una sovranità, mentre invece gli Stati, in quanto incarnano la sovranità, non sono disposti a sottomettersi a una sovranità superiore. Sembrerebbe aperta la strada al pessimismo, invece a questo punto emerge tutto l’ottimismo illuministico di Kant: i popoli, anche quando si fanno guerra tra di loro, pretendono di avere una ragione giuridica, trovano motivazioni di tipo giuridico per farsi guerra. È passata l’epoca rozza dell’umanità in cui la volontà di sopraffazione si presentava apertamente in quanto tale. Questo sembra un fatto marginale invece è importante: anche gli aggressori, anche i paesi che scatenano le guerre, sentono pur sempre l’esigenza di far ricorso al concetto di diritto. Kant ne deduce che il concetto di diritto si farà strada, si imporrà sempre di più fra gli uomini. «Eppure questo omaggio che ogni Stato fa (almeno a parole) al concetto di diritto dimostra che si può cogliere nell’uomo una più forte disposizione morale, anche se per ora sopita, che lo porterà un giorno a dominare il principio del male che è in lui (e che non può negare) e a sperare che questo avvenga anche negli altri; se non fosse così non verrebbe mai usata la parola diritto dagli Stati che si vogliono combattere, se non per farsene beffe come dichiarò quel principe dei Galli: “È il privilegio che la natura ha dato al più forte sul più debole quello di farsi obbedire”». Questa situazione barbarica è superata, oggi gli Stati riconoscono tutti il diritto, quindi si può sperare che il diritto si imponga. Per questo si può sperare in una federazione di Stati. La repubblica universale non è possibile, ma  dobbiamo sperare in una federazione; e c’è il motivo di sperarlo perché tutti gli Stati riconoscono la maestà del diritto, sia pure a parole.
Terzo requisito per la pace è il diritto di ospitalità. Il cuore delle argomentazioni di Kant è questo: gli uomini devono riconoscere che la Terra è di tutti, e quindi che ci deve essere libera circolazione dei popoli, perché è accidentale l’essere nati qui o lì. Dovunque si deve essere pronti a ospitare lo straniero, bisogna considerare la Terra come una patria unica. Leggiamo le sue parole molto chiare: «Qui, come negli articoli precedenti, non è in discussione la filantropia, ma il diritto, e allora ospitalità significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro. Questi può mandarlo via, se ciò non mette a repentaglio la sua vita, ma fino a quando sta pacificamente al suo posto non si deve agire verso di lui in senso ostile. Non è un diritto di accoglienza a cui lo straniero possa appellarsi (per questo si richiederebbe un particolare e benevolo accordo per farlo diventare per un certo periodo un abitante della stessa casa), ma un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini, il diritto di entrare a far parte della società in virtù del diritto della proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno al fianco dell’altro; originariamente però nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della Terra». A questa perorazione del diritto di ospitalità Kant contrappone il colonialismo e le guerre di rapina dell’ Occidente. Riguardo al diritto di ospitalità gli Europei si sono comportati come banditi, come pirati, nei confronti degli altri popoli: «Se a ciò [al diritto di ospitalità] si confronta la condotta inospitale degli Stati civili, soprattutto quelli commerciali, della nostra parte del mondo, l’ingiustizia, di cui essi danno prova visitando paesi e popoli stranieri (visite che essi immediatamente identificano con la conquista), è tale da rimanere inorriditi. L’America, i Paesi dei Negri, le Isole delle Spezie, il Capo di Buona Speranza, ecc., quando li scoprirono  furono per loro terre che non appartenevano a  nessuno; degli abitanti infatti non tennero assolutamente conto».
Kant dedica poi un capitolo al tema: «Sulla garanzia della pace perpetua». Fin qui il discorso è bello, è nobile, ma appare debole. È necessaria la repubblica, ma ci sono Stati che non sono repubblicani. È necessario il federalismo, ma gli Stati non sono disposti a rinunciare alla loro sovranità. È necessario il diritto di ospitalità, ma egli stesso elenca esempi storici in cui il diritto di ospitalità è stato negato fino alla conquista, fino alla rapina, fino al genocidio. Allora Kant rafforza il suo discorso con un capitolo sulla garanzia della pace perpetua. Questa garanzia, paradossalmente, viene dalla natura stessa: «Ciò che fornisce questa garanzia è niente di meno che la grande artefice natura (natura daedala rerum) dal cui corso meccanico si vede brillare la finalità che dalla discordia tra gli uomini fa sorgere la concordia anche contro la loro volontà; per questo viene chiamata destino», o, dice Kant, in un altro linguaggio si può chiamare Provvidenza. Del destino, della Provvidenza, dal punto di vista teorico, non possiamo dire niente, fa parte del noumeno, della cosa in sé, al di là delle nostre possibilità di conoscenza. Dal punto di vista conoscitivo, è un discorso infondato; ma come uomo pratico, dice Kant, devo credere nel destino, ovvero nella Provvidenza. Scorgo nella storia il fatto che nonostante antagonismi, guerre e conflitti, gli uomini preparano una civiltà sempre maggiore. Non è qualche cosa che si possa dimostrare, ma nel gettare lo sguardo sul disegno della storia nel suo insieme, vedo che certe operazioni di guerra, certe operazioni apparentemente solo distruttive, poi, all’insaputa dei loro autori, portano frutti positivi. Pensando all’epoca contemporanea a Kant si può fare questo esempio: Napoleone Bonaparte porta distruzione in tutt’Europa con le sue guerre che lo vedono antagonista degli Stati ancora feudali, alla fine però non rimane un campo di macerie, alla fine delle guerre napoleoniche il Codice di Napoleone, l’abolizione della servitù della gleba, l’abolizione della feudalità sono un fatto: il codice di diritto civile moderno ormai è penetrato in tutta Europa. Le guerre napoleoniche non sono state solo un fatto distruttivo, dopo del quale con il Congresso di Vienna più o meno si è ridisegnata la cartina dell’Europa come era prima. Con l’età napoleonica c’è stato un avanzamento di civiltà enorme: in tutt’Europa è stato importato il codice civile e si è creata così una civiltà giuridica molto superiore a quella precedente. Kant pensa a questo tipo di eventi: se ci si ferma al particolare si ha a volte l’impressione solo della devastazione, della tragedia, del negativo; vedendo invece la storia nel suo complesso si scorge che anche antagonismi, sofferenze, conflitti, visti in una luce più ampia, hanno portato a qualche cosa di positivo. La civiltà avanza sempre, e anzi Kant concluderà segnalando l’impressione che avanzi sempre più rapidamente, che stia accelerando i tempi. Esprime questo concetto con ancora maggiore chiarezza: «Qui bisogna allora dire che la natura vuole irresistibilmente che il diritto alla fine divenga il potere supremo. Ciò che si trascura di fare in questa direzione, alla fine è la natura a farlo da sola, anche se con grandi inconvenienti». La Prussia, gli altri Stati feudali d’Europa, non vogliono introdurre l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma il diritto si fa strada. Ciò che purtroppo non hanno fatto per vie pacifiche i sovrani europei, lo fa Napoleone con la lama delle baionette, ma il diritto avanza. Il diritto avanza inesorabilmente perché la natura lo vuole, anche se singoli uomini si oppongono ad esso. Kant riteneva inoltre che la natura aiuta la pace perpetua anche per un altro motivo, cioè per lo spirito del commercio: le varie parti della Terra sono complementari le une alle altre; quello che si produce da una parte non può essere prodotto dall’altra e pertanto è necessario lo scambio tra i popoli, è necessaria l’integrazione tra i popoli, perché le economie dei popoli sono complementari. C’è uno spirito del commercio che spinge alla pace, in quanto i popoli si devono aiutare per forza gli uni con gli altri, perché ognuno ha risorse diverse dall’altro. «È lo spirito del commercio che non può convivere con la guerra, e che prima o poi si impadronisce di ogni popolo. Infatti, dato che di tutte le forze (i mezzi) subordinate al potere dello Stato la potenza del denaro potrebbe essere quella più sicura, allora gli Stati (certo niente affatto spinti dalla moralità) si vedono costretti a lavorare in favore della nobile pace, e in qualsiasi luogo la guerra minacci di scoppiare nel mondo, a impedirla tramite mediazioni, proprio come se si trovassero in un’eterna alleanza per questo». Per la complementarità delle loro economie i popoli tenderanno alla pace per avere una libertà di commercio mondiale. Con questo si conclude il suo discorso sulle garanzie che la natura dà alla pace perpetua. Si giunge poi alla parte conclusiva circa le possibilità che la politica si accordi con la morale, che è poi il nodo centrale.
Il problema è questo: la pace è un’ideale morale, quindi per pervenire alla pace perpetua gli uomini politici si devono comportare come uomini morali. Viene alla mente il nome di Machiavelli. Machiavelli ha distinto nettamente la politica dalla morale. Kant invece apre la sezione del suo libro dedicata a politica e morale proprio ipotizzando la perfetta conciliazione tra politica e morale. Riprende un versetto del Vangelo secondo Matteo, dove si dice: «Siate prudenti come serpenti e candidi come colombe». Prudenti come serpenti significa scaltri come i politici, siate furbi, come diceva Machiavelli; ma nello stesso tempo potete essere anche candidi come colombe, cioè perfettamente schietti, sinceri, veraci. Vuol dire: si può essere insieme politici, prudenti come serpenti, e uomini morali, candidi come colombe. Politica e morale sono perfettamente ricongiungibili. Prende in esame tre massime della politica che demolisce con critiche molto acute. Dice: la politica che respingo, inconciliabile con la pace perpetua, si fonda su massime spregiudicate, che portano soltanto a danni, non servono a niente. La prima, la più nota, è “Divide et impera”: seminare la discordia tra gli avversari in modo che si possa dominare più facilmente; la seconda è “Fac et excusa”, agisci e poi chiedi scusa, o, meglio, agisci e poi giustifica quello che hai fatto, cioè, agisci prima, usa la violenza, uccidi, conquista, dopo troverai sempre una giustificazione per poter dare conto delle tue azioni; crea prima  la situazione di fatto e cerca solo dopo di darne giustificazione. Infine la massima suprema dell’uomo politico spregiudicato, del politico immorale, è: “Si fecisti nega”, se hai compiuto un atto malvagio, riprovevole, negalo. Kant analizza questo tipo di massima dell’uomo politico adducendo tutta una serie di esemplificazioni. Se è successo qualche cosa di negativo al tuo popolo, nega che sia dipeso da te, perché questo più o meno ti darà sempre vantaggio: l’importante è negare con decisione di aver fatto le cose che sono andate male. Kant sostiene che queste tre massime tratte machiavellicamente dal mondo romano sono tre massime negative, che portano vantaggi nell’immediato, ma sui tempi lunghi portano sventure. Il politico machiavellico, che si vuole fondare su queste tre massime, finisce anche col non avere successo. Invece bisogna ipotizzare la saldatura tra politica e morale.
«Da tutte queste contorsioni di serpente, fatte da una teoria immorale della prudenza per cavare fuori lo stato di pace tra gli uomini da quello di guerra dello stato naturale, risulta chiaro almeno che gli uomini, tanto nei loro rapporti privati quanto nei loro rapporti pubblici, non riescono a sottrarsi al concetto di diritto e non osano fondare la politica pubblicamente solo sugli artifici della prudenza e rifiutare così ogni obbedienza al concetto di diritto pubblico (cosa sorprendente soprattutto nel concetto del diritto internazionale), ma al contrario gli rendono tutti gli onori che gli spettano, dovessero anche escogitare cento scappatoie e mascheramenti per sottrarsi a esso nella pratica, e per attribuire a torto alla violenza scaltrita l’autorità di essere l’origine e il vincolo di ogni diritto». Ritorno al tema cui ho accennato prima: anche il politico spregiudicato, nel momento in cui agisce con violenza, deve pur sempre trovare in qualche modo giustificazioni giuridiche per far accettare questo dai suoi concittadini o dagli altri popoli, e quindi, implicitamente, anche se controvoglia e in maniera subdola, è costretto a riconoscere la superiorità del diritto. Kant sostiene che pertanto anche chi vuol fare il male, paradossalmente, finisce, senza rendersene conto, col portare acqua al mulino del bene; ricorrendo a quelle tre massime che abbiamo ricordato, gli uomini politici entrano in un tale groviglio di contraddizioni, che si distruggono da se stessi.
«Il male morale ha la proprietà, inseparabile dalla sua natura, di contrariarsi e di distruggersi da sé nelle sue intenzioni (soprattutto in rapporto con altri ugualmente cattivi), facendo così posto al principio (morale) del bene, seppure con un progresso lento [il male è autocontraddittorio, si involve nelle menzogne, nelle ipocrisie e, sia pure lentamente, dà luogo al bene]. Dunque oggettivamente (nella teoria) non esiste affatto contrasto tra la morale e la politica. Soggettivamente invece (nella propensione egoistica degli uomini, la quale però, non essendo fondata su massime della ragione, non deve ancora venire chiamata pratica, praxis), questo contrasto esisterà e potrà sempre esistere, in quanto serve da incentivo alla virtù, il cui vero coraggio (secondo il principio: “tu ne cede malis, sed contra audentior ito”) [è una citazione virgiliana: non venir meno di fronte al male ma, al contrario, trova l’energia per affrontarlo con maggiore forza], in questo caso, non consiste tanto nel resistere con saldo proposito ai mali e ai sacrifici, che qui si devono accettare, ma nel guardare negli occhi il principio del male dentro di noi, e nel vincere la sua perfidia, in quanto principio molto più pericoloso, ingannevole e traditore, eppure capace di ragionamenti sottili nella sua pretesa di giustificare con la debolezza della natura umana qualsiasi trasgressione». Kant sostiene: oggettivamente la politica e la morale non sono in contrasto tra di loro: lo sono solo soggettivamente in quanto l’uomo ha in sé tendenze istintuali che lo portano al male. È come se dicesse: l’unione di politica e morale che ho voluto sostenere deve valere come idea regolativa, segnala una direzione di marcia; è vero che attualmente politica e morale non sono unite, è vero che la politica del serpente prevale sull’ingenuità della colomba, ma serpente e colomba sono conciliabili, sia pure solo a prezzo di una lotta continua che ognuno di noi deve condurre con se stesso; vi sto dicendo qual è il tracciato che l’uomo, per l’insieme di forze che lo caratterizzano, può seguire; egli può muoversi verso la conciliazione di morale e politica, può e deve muoversi verso il trionfo della pace, anche se questo non dovesse realizzarsi mai. In questo senso il Progetto per una pace perpetua risente di tutta la filosofia della storia di Kant, per la quale l’uomo è un essere in cammino dallo stato di natura, in cui predomina il male radicale, in cui predominano gli istinti, in cui predomina hobbesianamente l’homo homini lupus, verso il predominio della ragione, il predominio della moralità, il predominio del fine del bene. Da una parte c’è la natura, con la guerra, dall’altra parte, all’estremo opposto, c’è la ragione, con la pace. L’uomo sta a metà tra questi due estremi, ma non si ferma in una situazione pencolante, neutra, a metà strada: è in cammino dalla guerra alla pace, è in cammino dalla naturalità alla razionalità. La ragione non ha mai trionfato, forse non trionferà mai completamente, ma è un’idea regolativa,  segna cioè la direzione di marcia del cammino umano.
La pace è intesa come qualche cosa che si deve raggiungere per tappe successive, fino ad arrivare alla pace perpetua. «La vera politica quindi non può fare nessun passo avanti senza prima aver reso omaggio alla morale e benché la politica in se stessa sia una difficile arte, tuttavia non è certo una tecnica la sua unione con la morale, infatti è questa che taglia il nodo che quella  non è capace di sciogliere appena l’una e l’altra entrano in conflitto. Il diritto degli uomini deve essere considerato sacro per quanto grande sia il sacrificio da pagare per il potere dominante. Quindi non si possono fare le cose a metà e inventare un termine intermedio di un diritto condizionato pragmaticamente (tra diritto e utile), ma ogni politica deve piegare le ginocchia davanti al diritto e può però in cambio sperare di raggiungere se pure lentamente quello stadio in cui splenderà senza posa [...]. Se c’è un dovere e se insieme a esso esiste una fondata speranza di rendere reale lo Stato del diritto pubblico, pur solo in una progressiva approssimazione all’infinito, allora la pace perpetua, che segue quelli che finora falsamente sono stati chiamati trattati di pace (in realtà sono solo armistizi), non è un’idea vuota, ma un compito, un compito che, risolto a poco a poco, si fa sempre più vicino alla sua meta poiché i tempi in cui succedono progressi uguali diventano sperabilmente sempre più brevi». È un compito che si accelera perché la storia sta accelerando il suo cammino verso il bene. Queste erano le ultime parole del trattatello kantiano. Tutta l’argomentazione è tipicamente kantiana: l’uomo è contrassegnato da limiti, ma procede oltre questi limiti, parte dal male e va verso il bene, parte dalla natura e procede verso la ragione.
L’uomo deve agire come se la ragione potesse trionfare. Per Kant non vi è certezza che la pace si realizzi; la sua opera è un grande insegnamento in questo senso: noi dobbiamo vivere e agire come se il trionfo della pace fosse possibile, essa infatti è possibile, per ragioni teoriche. Oggettivamente la pace è possibile, allora dobbiamo vivere come se ci stessimo sempre più avvicinando (o agendo in modo da avvicinarci sempre di più) alla pace, cioè al trionfo della moralità, al trionfo della ragione.
Per concludere il discorso mi sembra utile riportare brevemente le critiche di Hegel a Kant sul tema della pace. Qual è per Hegel la debolezza di Kant? La pace tra gli individui è possibile perché ci sono gli Stati sovrani. Ma la sovranità implica che la legge sia resa effettiva: se qualcuno non rispetta la legge c’è una sanzione, se la legge non viene rispettata c’è un giudice, c’è un pretore che la fa rispettare. Come la fa rispettare? Comminando una pena, eseguita, se necessario, con la coazione, con la forza. Hegel fa questo discorso: ci vuole una sovranità sovranazionale per avere la pace, proprio come all’interno degli Stati la pace è imposta da un sovrano (che può essere anche un parlamento, non deve essere per forza una persona, una testa coronata), un sovrano il quale, se qualcuno rompe la legge, si rivolge a giudici che condannano al carcere, comminano multe, infliggono punizioni; se manca il giudice, se manca il pretore, con la capacità di rendere efficace la legge, la legge rimane una parola vana. La federazione di Stati che Kant auspica con tanto ammirevole slancio morale rischia di rimanere lettera morta se non c’è una forza coattiva che imponga il rispetto della legge. L’analisi di Hegel è di una lucidità estrema.
Nel paragrafo 333 dei Lineamenti di filosofia del diritto Hegel dice: «Il principio del diritto internazionale, in quanto diritto universale, che deve valere in sé e per sé fra gli Stati, a differenza dal contenuto particolare dei trattati positivi, è che i trattati, come quelli dai quali dipendono le obbligazioni degli Stati fra loro, devono essere osservati». Il diritto internazionale si deve fondare su questo, che i trattati devono essere osservati, altrimenti sono carta straccia. Questo è intuitivo, ma Hegel lo esprime con estremo rigore linguistico. Dunque, il principio del diritto internazionale è che i trattati devono essere osservati: «Ma poiché il rapporto tra essi [cioè tra gli Stati] ha per principio la loro sovranità, essi sono, pertanto, nello stato di natura gli uni di fronte agli. altri, e i loro diritti hanno la loro realtà non in una volontà universale costruita a potere al di sopra di essi [non c’è una sovranità universale sopra gli Stati] bensì in una loro volontà particolare [una volontà specifica di ogni singolo Stato]. Quella determinazione universale resta, quindi, nel dover essere» [Kant ha fatto un bel discorso, ma un discorso su come il mondo dovrebbe andare, è un discorso del dover essere, mentre l’essere è diverso], «e la situazione diviene una vicenda del rapporto conforme ai trattati, e della soppressione del medesimo».
Nell’aggiunta a questo celebre paragrafo Hegel è ancora più esplicito: «Non c’è alcun pretore, arbitro supremo e mediatore fra gli Stati, e anche questi sono soltanto in modo accidentale, cioè secondo la volontà particolare. La concezione kantiana d’una pace perpetua, mediante una lega degli Stati, la quale appiani ogni controversia, e, in quanto potere riconosciuto da ogni singolo Stato, componga ogni dissensione, e quindi renda impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone l’umanità degli Stati, che dipende da ragioni e riguardi morali, religiosi o di qualsiasi natura; in generale, sempre da una volontà sovrana particolare, e, quindi resta affetta da accidentalità». Questo, nel linguaggio di Hegel, vuol dire: la pace perpetua rimane qualche cosa di legato all’accidentalità delle volontà dei singoli Stati, “accidentalità” in filosofia è il contrario di “necessità”, accidentale è qualche cosa che ci può essere e può non esserci, se ci sono Stati che hanno una volontà di pace, la pace si realizza, ma se invece ci sono Stati che vogliono essere aggressori, la pace purtroppo non si realizza. E, in mancanza di un pretore, cioè di un giudice che abbia una capacità di imporre il rispetto delle leggi e del diritto internazionale, ci possono essere Stati che rompono i trattati di pace e fanno scoppiare le guerre. Questo vuol dire Hegel. Kant, non avendo ipotizzato una sovranazionalità, una sovranità sovranazionale, ha reso utopistico il suo progetto, l’ha disegnato come qualche cosa che riguarda il dover essere, ma che non sarà mai realizzato. E infatti, Hegel aggiunge in maniera più drammatica, nel paragrafo successivo: «Quindi il conflitto fra gli Stati, in quanto le volontà particolari non trovano un accomodamento, può esser deciso soltanto dalla guerra».
Ancora, vi propongo la lettura del paragrafo 338, che mi pare utile ricordare: «Nel fatto che gli Stati si riconoscono reciprocamente per tali, resta, anche nella guerra – condizione di non giuridicità, di violenza e accidentalità – un vincolo, nel quale essi valgono, l’un per l’altro, come qualcosa che è in sé e per sé [cioè gli Stati, nel farsi guerra, si riconoscono pur sempre come Stati, quindi riconoscono una loro identità reciproca e leggi di comportamento reciproche,]; sì che, nella guerra stessa, la guerra è determinata come qualcosa che deve essere transitorio [in quanto gli Stati si riconoscono, si riconoscono il diritto all’esistenza]. Essa contiene, quindi, la determinazione di diritto internazionale, per cui in essa è conservata la possibilità della pace, e, quindi, per esempio, sono rispettati gli ambasciatori, e, per cui, più in generale, essa non è fatta contro le istituzioni interne e la vita pacifica di famiglia privata, né contro le persone private». Invece sappiamo che anche le popolazioni inermi, le popolazioni civili, nel Novecento sono state deliberatamente colpite dalle guerre. Kant è un ottimista; Hegel è pessimista rispetto alla filosofia del ‘come se il diritto dovesse trionfare’ di Kant; ma rispetto a Hegel purtroppo noi, visti i dati di fatto della storia del Novecento, dovremmo essere ancora più pessimisti, almeno fino a quando la federazione mondiale degli Stati, cui dovrebbe tendere l’ONU, non si doterà di poteri sovrani.

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